L'ottobre di quest'anno in Italia verrà ricordato, almeno dai
fortunati abitanti delle località marine, perché
così mite da permettere ancora gradevoli nuotate. Magari, tra un
tuffo e un altro, buttando l'occhio sulla stampa quotidiana, qualcuno
si sarà accorto della quasi contemporaneità con cui si
pongono all'attenzione dell'opinione pubblica due rapporti ambientali.
Analogo il tema dell'indagine, diversi gli autori. Da una parte il WWF
con i risultati del suo studio biennale "The living planet report
2006", dall'altra un gruppo di lavoro guidato dall'economista Nicholas
Stern che ha condotto una ricerca sulle conseguenze economiche dei
cambiamenti climatici, commissionata dal governo britannico di Blair.
La considerazione singolare è che, questa volta, le conclusioni
cui giungono gli studiosi, pur partendo da un differente approccio,
sono molto simili.
È probabile che Blair non voglia essere ricordato solo in
relazione alla sua partecipazione alla guerra in Iraq, o forse ha
bisogno di trovare una giustificazione per l'introduzione di alcune
"tasse ambientali", ma è comunque significativo che dagli
estratti dello studio di 700 pagine, proposti in anteprima dalla stampa
inglese, risulti uno scenario a dir poco preoccupante. Fino al 20 per
cento del prodotto lordo mondiale perso per colpa del global warming e
200 milioni di profughi in fuga dai territori che, più
pesantemente, subirebbero le conseguenze dei cambiamenti climatici.
Stern analizza l'impatto del riscaldamento globale sui vari comparti
produttivi da oggi al 2100, delineando le conseguenze limite
dell'anomalo incremento delle temperature prodotto, principalmente, dal
modello energetico basato sul petrolio e sui combustibili fossili.
L'ipotesi peggiore, quella indicata dai dati prima riportati,
costituirebbe un pericolo gravissimo per la capacità di tenuta
dell'economia mondiale ed un fattore di grande tensione per gli
"equilibri" politici.
Per scongiurare questa minaccia lo studio Stern suggerisce,
sostanzialmente, di sostenere i rimedi proposti dal protocollo di Kyoto
prevedendo però un rilancio nella individuazione degli obiettivi
ed un'accelerazione nella loro realizzazione. In particolare sottolinea
la necessità del coinvolgimento degli Stati Uniti, quali
maggiori responsabili dell'immissione dei gas serra, e dell'immediata
partecipazione al protocollo di paesi come la Cina e l'India che, in
seguito al loro rapido sviluppo economico tra i paesi emergenti,
saranno presto responsabili di una significativa fetta delle emissioni
inquinanti.
Il rapporto WWF
Il rapporto WWF descrive, invece, i cambiamenti relativi alla
biodiversità globale associati alla pressione esercitata sulla
biosfera in seguito al consumo delle risorse naturali ad opera
dall'uomo. Due gli indici utilizzati, il "living planet index" che
valuta la salute degli ecosistemi terrestri, e "l'impronta ecologica"
che mostra l'estensione della domanda umana su questi ecosistemi.
I rilievi sono stati effettuati su diversi decenni per inquadrare la
situazione del passato, verificare lo stato attuale ed infine delineare
possibili scenari del futuro.
Il primo rapporto è stato pubblicato nel 1998 cui sono seguiti i
successivi con cadenza biennale, l'ultimo, quello datato 2006, con
l'elaborazione dei dati raccolti fino al 2003.
Sono state monitorate popolazioni di 1313 specie di vertebrati di
ambienti terrestri, marini e di acqua dolce. I dati provenienti dai tre
differenti habitat sono stati aggregati per fornire un unico parametro
(living index), che dal 1970 al 2003 ha subito una caduta del 30%. Un
andamento decrescente che indica un degrado degli ecosistemi naturali
ad un tasso mai rilevato in precedenza.
L'impronta ecologica misura l'estensione della superficie terrestre o
acquosa necessaria a garantire le risorse produttive e ad assorbire le
sostanze di rifiuto legate all'attività delle società
umane. L'impronta di un paese comprende, quindi, le aree destinate alla
coltivazione, ai pascoli, alle foreste, alla pesca, per la produzione
di cibo, fibre e legname, oltre a quelle necessarie alla costruzione di
infrastrutture o allo smaltimento dei rifiuti compresi quelli generati
per il fabbisogno energetico.
L'utilizzo delle acque dolci non è contabilizzato nell'ambito dell'impronta ecologica ma analizzato a parte.
Un altro parametro da considerare è la biocapacità
terrestre che comprende le aree biologicamente produttive siano esse
campi coltivati, foreste, pascoli o zone di pesca disponibili per
soddisfare le richieste umane.
È dalla fine degli anni '80 che l'impronta ecologica ha superato
la biocapacità terrestre, ma i dati del 2003 indicano che il
carico in eccesso ha raggiunto globalmente la quota 25%. Stiamo
sfruttando gli ecosistemi del pianeta un quarto oltre le
capacità rigenerative, stiamo trasformando risorse in rifiuti
più velocemente di quanto la natura possa riconvertire
attraverso il processo contrario. Per essere ancora più chiari,
è come se svuotassimo una vasca usando un secchio e cercassimo
contemporaneamente di riempirla con l'ausilio di un bicchiere.
Presupponendo una tendenza verso una moderata crescita, così
come indicato dalle proiezioni delle Nazioni Unite, nel 2050
assisteremmo ad una richiesta pari al doppio della capacità
produttiva del pianeta. A questi livelli di deficit ecologico, il
collasso degli ecosistemi su grande scala diventerebbe molto probabile.
Abitiamo il pianeta con altri 5 - 10 milioni di specie, è
intuitivo pensare che quanto più spazio occupiamo come esseri
umani tanto più limitiamo lo spazio disponibile per gli altri
viventi, in questo senso il "living planet index" e "l'impronta
ecologica" costituiscono una base di conoscenze per delineare gli
scenari futuri.
Per quanto riguarda le specie terrestri, sono le zone tropicali ad aver
accusato un evidente impoverimento tra il 1970 e il 2003 (gli
ecosistemi delle zone temperate avevano subito un rapido degrado
già precedentemente, a cavallo degli anni '60).
Per quanto riguarda le specie marine, ricordiamo che le acque di mari
ed oceani ricoprono il 70% della superficie terrestre, si è
evidenziato un drammatico declino della biocapacità dell'oceano
indiano e dei mari del sud-est asiatico. Come esempio basti il
riferimento alla distruzione tra il 1990 e il 2000 di circa un terzo
della foresta di mangrovie che, tipica delle zone costiere di questi
mari, garantiva una fondamentale area di ripopolamento per l'85% delle
specie di pesci di interesse commerciale. Se a ciò aggiungiamo
il super sfruttamento legato ad un'intensissima attività di
pesca, la situazione risulta ancor più negativa.
Il decremento delle specie degli ambienti d'acqua dolce è legato
a più fattori: la distruzione degli habitat naturali,
l'inquinamento, la pesca ed in particolare la frammentazione del
naturale flusso dei fiumi regolato, attraverso le dighe, per favorire
gli usi industriali e domestici, o per la produzione di energia
idroelettrica.
Nel 2003 l'impronta ecologica globale era di 14,1 bilioni di ettari
(2,2 ettari per persona). La disponibilità totale di superficie
produttiva globale o biocapacità, calcolata nello stesso anno,
era di 11,2 bilioni di ettari (1,8 ettari per persona).
Naturalmente dobbiamo rammentare che paragonare l'impronta media per
persona di diversi paesi con il valore medio di biocapacità
globale non presuppone un'eguale distribuzione delle risorse.
Ricordiamo che nonostante la sua considerevole biocapacità il
Nord America ha il più ampio deficit con un utilizzo di 3,7
ettari per persona in più della disponibilità della
regione. Nell'Unione Europea il deficit calcolato è di 2,6
ettari con un utilizzo più che doppio della propria
biocapacità. All'altro estremo troviamo il Latino America che
disporrebbe di una "riserva ecologica" di 3,4 ettari per persona.
Sappiamo bene che i cosiddetti paesi ricchi, in realtà,
sfruttano risorse presenti anche al di fuori dei loro confini generando
quello che in questo contesto definiamo "deficit ecologico" che in
pratica sancisce una sorta di condanna alla povertà per chi a
queste risorse non ha accesso.
Continuando con questa tendenza, anche secondo le più
ottimistiche proiezioni delle Nazioni Unite, pur con un moderato
incremento della popolazione, entro il 2050 la richiesta di risorse da
parte del genere umano sarebbe pari al doppio del tasso con cui la
Terra le potrebbe generare.
Ed è proprio la componente dell'impronta ecologica legata
all'emissione di CO2, conseguente all'uso dei combustibili fossili,
quella cresciuta più rapidamente, più di nove volte dal
1961 al 2003.
Certamente un incremento di produttività sarebbe auspicabile ma
del tutto inutile se non associato ad una riduzione dell'impronta
ecologica umana.
Prima si sana lo squilibrio, minore sarà il rischio di sconvolgere gli ecosistemi "pagando" i costi annessi.
Secondo il rapporto del WWF tre fattori giocheranno un ruolo fondamentale per quanto riguarda l'impronta ecologica.
La popolazione. L'aumento della popolazione può essere
rallentato attraverso una miglior educazione alla procreazione, con
l'offerta di migliori opportunità economiche ed una maggior
attenzione alla salute.
Consumo di beni e servizi per persona. Il potenziale di riduzione dei
consumi dipende in parte della situazione economica individuale. Mentre
le persone che vivono al di sotto del livello di sussistenza dovrebbero
uscire dallo stato di povertà, la parte di popolazione
più ricca dovrebbe ridurre i propri consumi pur migliorando la
propria qualità della vita. Ovviamente abbracciando un concetto
di qualità della vita che non sia sinonimo di consumismo,
spreco, prevaricazione e disuguaglianza sociale.
L'intensità dell'impronta. La quantità di risorse usate
nella produzione di beni e servizi può essere significativamente
ridotta attraverso diverse azioni: migliorando l'efficienza energetica
nella produzione industriale e nell'utenza domestica, minimizzando la
produzione dei rifiuti e incrementando il riciclo e il riuso dei
materiali, progettando veicoli con minor consumo di carburante,
riducendo le distanze di trasferimento delle merci, ottimizzando l'uso
delle risorse attraverso l'innovazione tecnologica.
Altri due fattori determinano invece la biocapacità.
La superficie bioproduttiva. Terreni degradati o marginali possono
essere recuperati attraverso un'oculata gestione, parimenti le terre
più produttive non devono essere perse in seguito ad
urbanizzazione, salinizzazione o desertificazione.
La bioproduttività per ettaro. Essa dipende sia dal tipo di
ecosistema sia dalle modalità di interazione. Per esempio alcune
tecniche agricole possono "spingere" la produttività ma anche
diminuire la biodiversità. Un'agricoltura intensiva ed
energivora con abbondante utilizzo di fertilizzanti può
incrementare i raccolti ma determinare un maggior impatto ambientale
con un costo ecologico che nel lungo periodo porta ad un impoverimento
del suolo ed un crollo della fertilità.
Nel suo rapporto il WWF illustra due strategie d'uscita dal deficit
ecologico, la prima prevede uno scenario caratterizzato da un lento
cambiamento, secondo cui il riequilibrio del rapporto uomo –Terra
si raggiungerebbe a fine secolo. In questo contesto le emissioni di CO2
dovrebbero essere ridotte del 50% entro il 2100, la pesca dovrebbe
essere ridimensionata della stessa percentuale. La necessità di
aree destinate alle coltivazioni agricole o al pascolo dovrebbe
crescere seguendo un tasso pari alla metà di quello relativo
all'incremento della popolazione; ciò sarebbe possibile
diminuendo il consumo della carne. La richiesta di aree forestali
crescerebbe del 50% per compensare la diminuzione d'uso dei
combustibili fossili e di altri materiali.
Questa combinazione di fattori permetterebbe la riduzione dell'impronta
ecologica del 15%, un aumento della biocapacità del 20% con un
saldo del deficit ecologico raggiungibile circa vent'anni prima della
fine secolo, fatto che garantirebbe la disponibilità di un 10%
della produttività naturale per le altre specie viventi.
Per comprendere meglio la dimensione dello sforzo richiesto per
realizzare la riduzione nelle emissioni di gas serra si consideri che
una recente analisi indica che con una riduzione del 25% delle
emissioni dagli edifici, un'economia nei consumi dei due miliardi di
veicoli in circolazione passando da un utilizzo medio di 8 litri a 4
litri per 100 km, un incremento di 50 volte dell'uso dell'energia
eolica e di 700 volte di quella solare, si riuscirebbe semplicemente a
mantenere l'attuale tasso di crescita delle emissioni, ben altro,
quindi, sarebbe necessario per riuscire a ridurle.
Il secondo scenario quello definito come cambiamento rapido prevede la
riduzione del 50% dei gas serra entro il 2050 e del 70% entro il 2100
con un aumento dei terreni coltivati e dei pascoli del solo 15% legato
ad un deciso cambiamento della dieta umana, almeno in relazione agli
stili alimentari dei paesi ricchi.
Il tutto associato ad un ottimistica previsione secondo la quale la
bioproduttività salirebbe del 30%, prima del 2100, grazie
all'innovazione tecnologica e a miglioramenti gestionali.
In questo modo l'impronta ecologica umana si ridurrebbe del 40%
minimizzando il debito ecologico in tempi rapidi riducendo, però
di molto, il rischio di un irreversibile sconvolgimento ecologico.
In attesa delle conclusioni della prossima Conferenza Internazionale
sui cambiamenti climatici, indetta annualmente dall'ONU e in programma
a Nairobi dal 5 novembre, non possiamo che osservare come,
benché gli obiettivi fissati per la prima fase dell'accordo
internazionale di Kyoto siano piuttosto modesti (-5% delle emissioni di
gas serra entro il 2012 rispetto ai livelli del 1990), questi vengano
inseguiti a fatica. Anzi, fra il 2000 e il 2004 le emissioni da parte
dei Paesi industrializzati sono aumentate dell'11%.
L'immobilismo delle burocrazie statali, l'arroganza dei governi, la
tutela dei profitti dei capitalisti il privilegio di pochi a danno di
tutti, non sono, compatibili a qualsivoglia ipotesi di rientro dal
debito ecologico. Speriamo lo siano, invece, la consapevolezza e la
determinazione degli individui perché le responsabilità
di chi popola il pianeta, in questo secolo, sono grandi.
MarTa
Per info: http://assets.panda.org/downloads/living_planet_report.pdf