Una delle ragioni per cui subiamo più perdite è che il nemico è attivo.
(George W. Bush)
Il nemico è attivo: Bush come il generale La Palisse. Lo scorso
mese di ottobre la guerra in Iraq ha comportato un elevato numero di
perdite tra le forze statunitensi, circa un centinaio, facendo salire a
quasi tremila caduti il bilancio ufficiale dall'inizio del conflitto, a
tre anni dallo spettacolare abbattimento della statua di Saddam Hussein
che doveva simboleggiare la vittoria della libertà a stelle e
strisce.
Ancora più raggelanti le stime riguardanti gli iracheni finora
morti a seguito dell'invasione che doveva "liberarli"; secondo le
più prudenti stime aggiornate al 1° novembre 2006, le
vittime accertate e documentate della guerra in Iraq ammontano a 50.022
civili e a 3.065 militari; mentre lo scorso 10 novembre lo stesso
ministero della sanità iracheno ha reso noto uno studio che
fissa in 150 mila morti le vittime civili dall'inizio del conflitto.
Appaiono davvero lontani i tempi quando uno degli slogan preferiti del
Pentagono recitava, con toni degni di John Wayne: "L'insuccesso non
rientra tra le opzioni". Adesso a parlare pubblicamente di sconfitta e
di ritirata sono parte degli stessi vertici militari Usa, oltre che
migliaia di reduci e di familiari di caduti in guerra, ma anche
politici repubblicani ed esponenti del potere economico che, sempre
più frequentemente, paventano parallelismi ed esiti analoghi a
quelli della guerra in Vietnam.
Emblematica la lettera, sottoscritta da 65 militari Usa in servizio
attivo che "come americani patriottici e orgogliosi di servire il Paese
in uniforme" hanno chiesto il ritiro di tutte le forze militari e le
basi dall'Iraq.
Sul piano politico, l'ultimo ad uscire allo scoperto è stato
Richard Perle, teorico neocon e ispiratore della strategia dell'attacco
preventivo e, quindi, dell'invasione dell'Iraq, che dalle pagine
patinate della rivista di moda Vanity Fair, ha pesantemente criticato
la politica irachena dell'amministrazione Bush. La sortita di Perle,
anticipata ben prima della effettiva pubblicazione sulla testata
glamour, e di altri neocon "pentiti", coincide d'altra parte con quella
del Military Times Media Group, l'azienda editrice che pubblica, fra
l'altro, l'influente Army Times e altri periodici militaristi. L'Army
Times, pochi giorni prima delle elezioni di mezzo termine, era uscito
con un editoriale nel quale sollecitava il presidente George W. Bush a
liberarsi dell'ormai sfiduciato capo del Pentagono, Donald Rumsfeld,
che nel giorno stesso della debacle repubblicana ha assunto il ruolo di
capro espiatorio rassegnando le proprie dimissioni.
La sua impopolarità aveva da tempo superato il livello di
guardia; tra l'altro, a causa della sua firma in automatico per le
formali comunicazioni alle famiglie dei militari deceduti.
Al posto vacante di ministro della Difesa, non casualmente, è
subentrato Robert Gates, ex direttore della Cia, che negli anni Ottanta
ha proficuamente "lavorato" per destabilizzare in funzione
antisovietica sia la Polonia che l'Afganistan.
Ma per Perle e per altri ex falchi neocon dell'amministrazione Bush di
cui Vanity Fair ha raccolto pareri impietosi, a dover essere messo
sotto accusa è proprio il loro presidente. Sostengono, ora, che
Bush non è stato all'altezza nel condurre la guerra; secondo
David Frum, che scrisse discorsi per Bush nella prima fase della sua
presidenza: "Il presidente leggeva le parole, ma non assorbiva le idee".
Evidentemente, non tutti i diversi gruppi di potere economico
statunitensi hanno fatto buoni affari con la guerra in Iraq: infatti,
ad esempio, se l'apparato industriale legato agli armamenti ha
sicuramente aumentato i propri profitti, questo non può
dirsi per le compagnie petrolifere.
Detto questo, quella che è stata definita l'ossessione del
presidente Bush ha motivazioni rilevanti: in questi anni Bush ha
attinto infatti all'immaginario teocon secondo cui la vittoria della
democrazia in Iraq sarebbe servita a democratizzare l'intero mondo
islamico, tanto da far entrare il presidente nella storia. In tale
visione persino ben più concreti obiettivi - quali il controllo
del petrolio, la tutela di Israele, l'insediamento di nuove basi
militari nell'area - appaiono motivazioni di secondaria importanza se
paragonati alla missione storica per la quale "Dio lo ha scelto". Per
portare a compimento questa crociata, come è noto, Bush ha
potuto ridefinire le fondamenta su cui si reggeva la pur aggressiva
politica imperialista e neocoloniale statunitense.
Nel periodo della cosiddetta Guerra fredda, la politica estera Usa si
basava sostanzialmente su strategie di deterrenza nucleare e di
contenimento nelle aree d'influenza; ma, dopo il provvidenziale Undici
Settembre, Bush ha potuto ridefinire tutto questo con l'introduzione
della dottrina della guerra preventiva, affermando la necessità
di: "spostare il campo di battaglia dove c'è il nemico e far
fronte alle minacce più gravi prima che esse emergano". E in
modo ancora più esplicito: "Far fronte alle minacce evidenti di
pericolo, non possiamo aspettare che qualcosa avvenga per davvero".
Adesso, sulla base dei risultati luttuosi, delle menzogne smascherate,
dei pesanti costi sociali imposti alla società americana,
diventa opinione diffusa tra i cittadini statunitensi che Bush ha
voluto fare una guerra sbagliata, nel posto sbagliato, al momento
sbagliato, mentre sempre più insistentemente circola la domanda
su come si può chiedere ancora a un soldato di essere l'ultimo a
morire per un errore.
Eppure, nonostante l'avanzata dei democratici nelle elezioni di mezzo
termine, non è scontato prevedere le conseguenze tra due anni
sulle elezioni presidenziali. Non soltanto perché, nei momenti
di crisi nazionale, l'istinto dell'americano medio è quello di
stringersi attorno alla bandiera e al presidente; ma anche
perché a Bush restano da giocare due carte propagandistiche,
sfruttando proprio le difficili contingenze belliche, sempre che i
tempi della guerra rispettino quelli della politica.
La prima è quella di appellarsi alla retorica per la quale non
si può abbandonare una "lotta per la libertà e la
civiltà" per cui sono già state immolate le vite di
migliaia di giovani statunitensi; la seconda è quella di
dichiarare, prima del voto per la Casa Bianca previsto per il 2008, una
presunta affermazione della democrazia in Iraq, con conseguente
decisione di avviare un progressivo ritiro dei circa 140.000 militari
Usa attualmente operanti in territorio iracheno.
In tal caso, l'occupazione militare potrebbe continuare sotto mentite
spoglie, sia attraverso le forze armate governative irachene,
equipaggiate e controllate a distanza dal Pentagono, sia mediante un
ulteriore incremento del numero di mercenari dipendenti dalle varie
agenzie private che, già adesso, eguagliano per numero le truppe
regolari statunitensi. Una terza via d'uscita, potrebbe - come
ipotizzato da alcuni osservatori - essere quella di delegare l'ingrato
compiti ad altri Stati, magari non occidentali, in qualche modo
dipendenti dai vertici statunitensi.
Di certo, la situazione evolve velocemente verso un totale collasso
politico-militare per le forze occupanti, tra quali - sino alla fine
dell'anno - ci sono ancora 1.600 soldati italiani -anche se nessuno
sembra ricordarlo.
Anti