Umanità Nova, n 37 del 19 novembre 2006, anno 86

Iraq. Vanity War


Una delle ragioni per cui subiamo più perdite è che il nemico è attivo.
(George W. Bush)

Il nemico è attivo: Bush come il generale La Palisse. Lo scorso mese di ottobre la guerra in Iraq ha comportato un elevato numero di perdite tra le forze statunitensi, circa un centinaio, facendo salire a quasi tremila caduti il bilancio ufficiale dall'inizio del conflitto, a tre anni dallo spettacolare abbattimento della statua di Saddam Hussein che doveva simboleggiare la vittoria della libertà a stelle e strisce.
Ancora più raggelanti le stime riguardanti gli iracheni finora morti a seguito dell'invasione che doveva "liberarli"; secondo le più prudenti stime aggiornate al 1° novembre 2006, le vittime accertate e documentate della guerra in Iraq ammontano a 50.022 civili e a 3.065 militari; mentre lo scorso 10 novembre lo stesso ministero della sanità iracheno ha reso noto uno studio che fissa in 150 mila morti le vittime civili dall'inizio del conflitto.
Appaiono davvero lontani i tempi quando uno degli slogan preferiti del Pentagono recitava, con toni degni di John Wayne: "L'insuccesso non rientra tra le opzioni". Adesso a parlare pubblicamente di sconfitta e di ritirata sono parte degli stessi vertici militari Usa, oltre che migliaia di reduci e di familiari di caduti in guerra, ma anche politici repubblicani ed esponenti del potere economico che, sempre più frequentemente, paventano parallelismi ed esiti analoghi a quelli della guerra in Vietnam.
Emblematica la lettera, sottoscritta da 65 militari Usa in servizio attivo che "come americani patriottici e orgogliosi di servire il Paese in uniforme" hanno chiesto il ritiro di tutte le forze militari e le basi dall'Iraq.
Sul piano politico, l'ultimo ad uscire allo scoperto è stato Richard Perle, teorico neocon e ispiratore della strategia dell'attacco preventivo e, quindi, dell'invasione dell'Iraq, che dalle pagine patinate della rivista di moda Vanity Fair, ha pesantemente criticato la politica irachena dell'amministrazione Bush. La sortita di Perle, anticipata ben prima della effettiva pubblicazione sulla testata glamour, e di altri neocon "pentiti", coincide d'altra parte con quella del Military Times Media Group, l'azienda editrice che pubblica, fra l'altro, l'influente Army Times e altri periodici militaristi. L'Army Times, pochi giorni prima delle elezioni di mezzo termine, era uscito con un editoriale nel quale sollecitava il presidente George W. Bush a liberarsi dell'ormai sfiduciato capo del Pentagono, Donald Rumsfeld, che nel giorno stesso della debacle repubblicana ha assunto il ruolo di capro espiatorio rassegnando le proprie dimissioni.
La sua impopolarità aveva da tempo superato il livello di guardia; tra l'altro, a causa della sua firma in automatico per le formali comunicazioni alle famiglie dei militari deceduti.
Al posto vacante di ministro della Difesa, non casualmente, è subentrato Robert Gates, ex direttore della Cia, che negli anni Ottanta ha proficuamente "lavorato" per destabilizzare in funzione antisovietica sia la Polonia che l'Afganistan.
Ma per Perle e per altri ex falchi neocon dell'amministrazione Bush di cui Vanity Fair ha raccolto pareri impietosi, a dover essere messo sotto accusa è proprio il loro presidente. Sostengono, ora, che Bush non è stato all'altezza nel condurre la guerra; secondo David Frum, che scrisse discorsi per Bush nella prima fase della sua presidenza: "Il presidente leggeva le parole, ma non assorbiva le idee".
Evidentemente, non tutti i diversi gruppi di potere economico statunitensi hanno fatto buoni affari con la guerra in Iraq: infatti, ad esempio, se l'apparato industriale legato agli armamenti ha sicuramente aumentato i propri profitti,  questo non può dirsi per le compagnie petrolifere.
Detto questo, quella che è stata definita l'ossessione del presidente Bush ha motivazioni rilevanti: in questi anni Bush ha attinto infatti all'immaginario teocon secondo cui la vittoria della democrazia in Iraq sarebbe servita a democratizzare l'intero mondo islamico, tanto da far entrare il presidente nella storia. In tale visione persino ben più concreti obiettivi - quali il controllo del petrolio, la tutela di Israele, l'insediamento di nuove basi militari nell'area - appaiono motivazioni di secondaria importanza se paragonati alla missione storica per la quale "Dio lo ha scelto". Per portare a compimento questa crociata, come è noto, Bush ha potuto ridefinire le fondamenta su cui si reggeva la pur aggressiva politica imperialista e neocoloniale statunitense.
Nel periodo della cosiddetta Guerra fredda, la politica estera Usa si basava sostanzialmente su strategie di deterrenza nucleare e di contenimento nelle aree d'influenza; ma, dopo il provvidenziale Undici Settembre, Bush ha potuto ridefinire tutto questo con l'introduzione della dottrina della guerra preventiva, affermando la necessità di: "spostare il campo di battaglia dove c'è il nemico e far fronte alle minacce più gravi prima che esse emergano". E in modo ancora più esplicito: "Far fronte alle minacce evidenti di pericolo, non possiamo aspettare che qualcosa avvenga per davvero".
Adesso, sulla base dei risultati luttuosi, delle menzogne smascherate, dei pesanti costi sociali imposti alla società americana, diventa opinione diffusa tra i cittadini statunitensi che Bush ha voluto fare una guerra sbagliata, nel posto sbagliato, al momento sbagliato, mentre sempre più insistentemente circola la domanda su come si può chiedere ancora a un soldato di essere l'ultimo a morire per un errore.
Eppure, nonostante l'avanzata dei democratici nelle elezioni di mezzo termine, non è scontato prevedere le conseguenze tra due anni sulle elezioni presidenziali. Non soltanto perché, nei momenti di crisi nazionale, l'istinto dell'americano medio è quello di stringersi attorno alla bandiera e al presidente; ma anche perché a Bush restano da giocare due carte propagandistiche, sfruttando proprio le difficili contingenze belliche, sempre che i tempi della guerra rispettino quelli della politica.
La prima è quella di appellarsi alla retorica per la quale non si può abbandonare una "lotta per la libertà e la civiltà" per cui sono già state immolate le vite di migliaia di giovani statunitensi; la seconda è quella di dichiarare, prima del voto per la Casa Bianca previsto per il 2008, una presunta affermazione della democrazia in Iraq, con conseguente decisione di avviare un progressivo ritiro dei circa 140.000 militari Usa attualmente operanti in territorio iracheno.
In tal caso, l'occupazione militare potrebbe continuare sotto mentite spoglie, sia attraverso le forze armate governative irachene, equipaggiate e controllate a distanza dal Pentagono, sia mediante un ulteriore incremento del numero di mercenari dipendenti dalle varie agenzie private che, già adesso, eguagliano per numero le truppe regolari statunitensi. Una terza via d'uscita, potrebbe - come ipotizzato da alcuni osservatori - essere quella di delegare l'ingrato compiti ad altri Stati, magari non occidentali, in qualche modo dipendenti dai vertici statunitensi.
Di certo, la situazione evolve velocemente verso un totale collasso politico-militare per le forze occupanti, tra quali - sino alla fine dell'anno - ci sono ancora 1.600 soldati italiani -anche se nessuno sembra ricordarlo. 

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