Umanità Nova, n 39 del 3 dicembre 2006, anno 86

Usa. Elezioni e Medio Oriente


Dopo l'ottantanove: quale politica per l'iperpotenza?
È stato abbastanza divertente seguire i commenti delle varie forze politiche e correnti culturali italiane in occasione delle recenti elezioni di "medio termine" negli USA. Sembrava quasi che gli abitanti di quella grande potenza avessero votato in base agli orientamenti del ceto politico e intellettuale di una "pulce" qual è l'Italia. Lascio comunque da parte la meschinità di questo ceto e tento di sviluppare le mie povere considerazioni.
Innanzitutto, negli ultimi decenni, la Presidenza degli Stati Uniti è stata quasi sempre di colore diverso rispetto alla maggioranza esistente nelle Camere (o almeno in una di esse). Negli USA, inoltre, vota sempre o poco meno o poco più della metà dell'elettorato potenziale; e il voto si addensa generalmente verso il centro. Del resto, ci sono alcuni settori del partito democratico che sono più conservatori di alcuni settori del partito repubblicano. Anche queste elezioni non hanno fatto eccezione, perché sarebbe veramente fuori dal mondo affermare che la nuova maggioranza democratica alle Camere esprima una netta inversione di tendenza rispetto agli orientamenti dell'amministrazione repubblicana. Si può essere certi del forte sentimento nazionale di tutte le correnti politiche e, quindi, della loro comune volontà di non indebolire la potenza americana sul piano globale.
Tuttavia, almeno in buona parte, il cambiamento di indirizzo dell'opinione pubblica sembra derivare non tanto dalla situazione economica quanto dall'impasse in cui si trova la politica estera, in particolare quella rivolta al progetto di neocolonizzazione del Medio Oriente. E qui rientra in gioco l'intera questione della volontà degli USA di tenere la posizione predominante che il crollo del socialismo reale e poi dell'URSS assegnò loro dopo il 1989-91.
Da quella data, si sono succedute con notevole rapidità molteplici aggressioni statunitensi in aree non capitalisticamente avanzate ma di notevole importanza strategica. Nel 1991 la prima aggressione all'Iraq, nel 1999 quella alla Jugoslavia e poi la guerra permanente dell'amministrazione Bush condotta inizialmente con l'aggressione all'Afganistan e di nuovo all'Iraq. Teniamo anche presente – perché è parte dell'azione USA di predominio mondiale – la crescente azione repressiva e aggressiva di Israele sia in Palestina che in Libano.
Riguardo all'Iraq è necessario distinguere la prima dalla seconda guerra: nella prima, gli USA evitarono di andare fino in fondo, mentre adesso premono persino perché si arrivi all'esecuzione della sentenza emessa contro Saddam. La prima invasione dell'Iraq si colloca tra il crollo del socialismo reale e la dissoluzione dell'URSS; ma è dopo quest'ultima che si entra veramente in una nuova fase storica. Gli USA restano l'unica grande potenza e si spalanca quindi per essi la prospettiva di una completa supremazia mondiale. E tuttavia, è a partire da questo momento che si evidenzia la loro incapacità – malgrado l'enorme divario rispetto ad ogni altro paese in termini di forza militare ma anche produttiva, finanziaria, tecnico-scientifica – di riuscire a dominare l'intero globo.
Viene certo respinto, proprio nei primissimi anni '90, l'attacco economico del Giappone che molti vedevano come la nuova potenza globale in grado di sostituire la sua preminenza a quella statunitense. Nel decennio Novanta la crescita giapponese si sgonfierà mentre il paese del Sol Levante sarà costretto a ridurre la propria influenza sui mercati internazionali.
Cresce invece impetuosamente la Cina, ultimamente anche l'India; e ormai la Russia, dopo anni di "capitalismo selvaggio" sembra avviata a ridiventare un paese in rapido progresso delle proprie forze produttive e di più che discreto rafforzamento della propria potenzialità politica e anche militare.
C'è in Europa un periodo di tempo durante gli anni novanta in cui cresce la capacità espansiva, ed espansionistica, della Germania, che approfitta del crollo del socialismo reale, dell'indebolimento della Russia e del disfacimento della Jugoslavia, per lanciarsi verso l'est europeo; tanto che, ancor oggi ad esempio, circa il 70% degli investimenti esteri in Polonia è di marca tedesca. Ed è per stoppare questa possibile ascesa che gli USA di Clinton organizzano l'aggressione alla Jugoslavia, seguita anche in quel caso dal processo a Milosevic, cui ha messo termine la sua morte sospetta.

Col nuovo secolo cambiano gli scenari
In realtà, l'intervento degli USA dette un colpo decisivo alle velleità espansionistiche tedesche, senza che i vassalli europei di quell'impresa, salvo forse l'Inghilterra, ne ricavassero grandi vantaggi. Quando nel 2000 ascese alla Presidenza il repubblicano Bush jr., gli USA dovettero prendere atto che la situazione era molto diversa da quella pensata fino ad allora e che aveva guidato i democratici all'aggressione nei Balcani per fermare la Germania. Quest'ultima non aveva affatto le potenzialità necessarie ad impensierire gli Stati Uniti; e non avrebbe mai potuto averle senza l'appoggio di almeno alcuni altri importanti paesi europei.
Il Giappone era da tempo in perfetta stagnazione. Cresceva invece vertiginosamente la Cina, e anche la Russia era ormai in procinto di "darsi una regolata" in grande stile. Non ci si doveva più impegnare in avventure belliche in Europa, bensì verso sud ed est.
Un testimone insospettabile, l'ex Ministro dell'Economia Tremonti sul Corriere del 12 novembre ha scritto: "In fondo, la prima strategia americana sull'Afganistan non era tanto di contrasto al terrorismo islamico, quanto di avamposto dell'Occidente verso la Cina". Lasciamo perdere che non si sa quale altra strategia, oltre alla prima, gli Stati Uniti abbiano poi posto in atto verso il martoriato paese asiatico. Resta il fatto, ammesso anche dall'ex ministro economico della destra, che gli Stati Uniti hanno aggredito l'Afganistan per raggiungere, contemporaneamente, alcuni risultati importanti e che, come spesso accade, non riguardano direttamente il paese aggredito, giacché questo serve solo da base di appoggio per ottenere un certo riequilibrio geopolitico globale.
Si trattava, intanto, di impedire che il Pakistan venisse completamente sottratto alla sfera di influenza statunitense e potesse diventare, come diverrebbe se fosse libero di scegliere, dati i contrasti con l'India, un alleato della Cina. Inoltre, il complesso Pakistan-Afganistan rappresenta un'area di grande rilevanza per tentare di consolidare la penetrazione USA nelle Repubbliche centroasiatiche russe, penetrazione che a quell'epoca stava conseguendo buoni risultati, con anche costruzione di basi americane in quella zona già appartenente alla Russia.
La seconda aggressione all'Iraq – condotta non a caso fino in fondo, e con occupazione militare del paese – è stata diversa dalla prima; e intendeva stabilire definitivamente un netto predominio degli Stati Uniti sull'intera fascia che va dal Medioriente fino, appunto, ai confini della Cina; fascia denominata "Grande Medio Oriente" e per la quale due anni fa Bush propose pomposamente un piano americano di stabilizzazione rifiutato anche dai più stretti alleati di Washington nell'area.

Afganistan e Iraq: fallimento di una strategia
La strategia dei "conservatori" repubblicani che attorniano Bush era senz'altro più attenta ai nuovi tempi di quanto non fosse quella della precedente amministrazione, ancora legata alle prime ipotesi, affacciatesi subito dopo gli accadimenti del 1989-91, e cioè: possibile affermazione, in prospettiva, di un mondo tripolare fondato sulla competizione tra USA, Germania e Giappone, mondo in cui gli USA sentivano ovviamente di poter rimanere, a tempo indeterminato, in netto vantaggio grazie ad un divario di potenziale bellico che appariva, in quel contesto, incolmabile.
Tuttavia, anche la presidenza repubblicana ha nettamente sopravvalutato la potenza militare statunitense; peraltro non esclusivamente tale, perché gli USA sono più avanti anche sul piano scientifico-tecnico, su quello produttivo e finanziario, Wall Street è di gran lunga la più importante Borsa, quella decisiva nel mondo. Eppure, è ormai del tutto evidente come si stia entrando in un'epoca policentrica, in cui va acuendosi la contrapposizione tra più paesi, che non è di tipo apertamente militare.
Essa tuttavia morde la supremazia, non più indiscussa, degli USA; i quali sono impantanati in Iraq, poiché non sono in grado di vincere sul piano militare e tanto meno di mettere in piedi un Governo capace di reggersi sulle sue gambe. L'Amministrazione Bush è rabbiosa, vorrebbe regolare i conti anche con Iran e Siria, ma si rende conto dei rischi che correrebbe a mettersi in altre avventure di simile portata. Credo, inoltre, che più di qualcuno negli USA abbia capito che non è solo il confronto con l'Islam a mettere a dura prova la potenza statunitense, poiché "dietro" ci sta tutta la "marea montante" dei nuovi paesi dell'est che crescono; pur essendo ancora molto meno forti degli USA, essi ormai incidono a fondo sugli equilibri mondiali, per cui il disordine è decisamente in aumento e sarà sempre maggiore.
Per contenere i programmi atomici della Corea del Nord, gli USA debbono ricorrere alla Cina; ma quanto è sincera quest'ultima nel consigliare moderazione al suo vicino? Inoltre, mentre gli USA cercano di erigere una sorta di argine verso la Cina con Pakistan e Afganistan (argine sempre più fragile e a forte rischio di smottamento), il grande paese asiatico lo aggira e stabilisce rapporti politico-commerciali di entità considerevole con decine di paesi africani (fra i maggiori); ed effettua anche qualche alcune puntate in Sud America. Non è più così rosea la condizione degli USA, che non più tardi di cinque anni fa sembravano i completi padroni del mondo.
Oggi la situazione è incerta; non dico che gli USA siano in netto declino, ma certamente sono in fase di stallo e di insicurezza in merito al loro reale predominio in molti comparti mondiali. Si ricordi, fra l'altro, che i cambi di governo in Georgia e in Ucraina non hanno dato i risultati sperati e Kiev è tornata a veleggiare dalle parti di MOsca, che i tentativi di destabilizzare la Bielorussia sono miseramente naufragati, che nelle repubbliche centroasiatiche russe l'influenza americana appare, al presente, in secco arretramento, e che in America Latina sta crescendo un blocco politico ed economico capace di porsi in termini di concorrenzialità con Washington.
Per il momento, il punto di maggior forza degli Stati Uniti è un'Europa che mantiene la sua tradizionale posizione di vassallo degli Stati Uniti e che limita al minimo le occasioni di contrasto con Washington.
È precisamente in questo contesto che si collocano e si spiegano i risultati delle recenti elezioni negli USA. I ceti medi americani, principali partecipanti a quella specie di gioco di società come possono essere definite le elezioni americane, ha in modo vago e indistinto, avvertito che la propria dirigenza è in stato discretamente confusionale e non sa come sostituire una strategia rivelatasi poco efficace con un'altra più adeguata. Niente oggi aiuta a chiarire quali saranno le strade che verranno prese dalle élite americane nei prossimi anni, si può però notare solo che chi governa attualmente è a un bivio ed è attanagliato da una notevole incertezza.
In Medio oriente la longa manus degli USA, il loro più stretto alleato, Israele, è in pieno caos quanto a scelte strategiche: va a casaccio, con errori sempre più odiosi che mettono a dura prova i loro più strenui difensori. Ed una nuova crisi si addensa tra il Libano, la Siria e l'Iran, rischiando di costringere Washington a una scelta radicale tra un progressivo sempre maggior impantanamento in azioni militari non risolutive e in difficoltà sempre maggiori a contrastare l'azione asiatica nel mondo, e una ritirata più o meno precipitosa dai teatri di guerra che attualmente li impegnano, le cui conseguenze potrebbero essere altrettanto disastrose.

Giacomo Catrame

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