Dopo l'ottantanove: quale politica per l'iperpotenza?
È stato abbastanza divertente seguire i commenti delle varie
forze politiche e correnti culturali italiane in occasione delle
recenti elezioni di "medio termine" negli USA. Sembrava quasi che gli
abitanti di quella grande potenza avessero votato in base agli
orientamenti del ceto politico e intellettuale di una "pulce" qual
è l'Italia. Lascio comunque da parte la meschinità di
questo ceto e tento di sviluppare le mie povere considerazioni.
Innanzitutto, negli ultimi decenni, la Presidenza degli Stati Uniti
è stata quasi sempre di colore diverso rispetto alla maggioranza
esistente nelle Camere (o almeno in una di esse). Negli USA, inoltre,
vota sempre o poco meno o poco più della metà
dell'elettorato potenziale; e il voto si addensa generalmente verso il
centro. Del resto, ci sono alcuni settori del partito democratico che
sono più conservatori di alcuni settori del partito
repubblicano. Anche queste elezioni non hanno fatto eccezione,
perché sarebbe veramente fuori dal mondo affermare che la nuova
maggioranza democratica alle Camere esprima una netta inversione di
tendenza rispetto agli orientamenti dell'amministrazione repubblicana.
Si può essere certi del forte sentimento nazionale di tutte le
correnti politiche e, quindi, della loro comune volontà di non
indebolire la potenza americana sul piano globale.
Tuttavia, almeno in buona parte, il cambiamento di indirizzo
dell'opinione pubblica sembra derivare non tanto dalla situazione
economica quanto dall'impasse in cui si trova la politica estera, in
particolare quella rivolta al progetto di neocolonizzazione del Medio
Oriente. E qui rientra in gioco l'intera questione della volontà
degli USA di tenere la posizione predominante che il crollo del
socialismo reale e poi dell'URSS assegnò loro dopo il 1989-91.
Da quella data, si sono succedute con notevole rapidità
molteplici aggressioni statunitensi in aree non capitalisticamente
avanzate ma di notevole importanza strategica. Nel 1991 la prima
aggressione all'Iraq, nel 1999 quella alla Jugoslavia e poi la guerra
permanente dell'amministrazione Bush condotta inizialmente con
l'aggressione all'Afganistan e di nuovo all'Iraq. Teniamo anche
presente – perché è parte dell'azione USA di
predominio mondiale – la crescente azione repressiva e aggressiva
di Israele sia in Palestina che in Libano.
Riguardo all'Iraq è necessario distinguere la prima dalla
seconda guerra: nella prima, gli USA evitarono di andare fino in fondo,
mentre adesso premono persino perché si arrivi all'esecuzione
della sentenza emessa contro Saddam. La prima invasione dell'Iraq si
colloca tra il crollo del socialismo reale e la dissoluzione dell'URSS;
ma è dopo quest'ultima che si entra veramente in una nuova fase
storica. Gli USA restano l'unica grande potenza e si spalanca quindi
per essi la prospettiva di una completa supremazia mondiale. E
tuttavia, è a partire da questo momento che si evidenzia la loro
incapacità – malgrado l'enorme divario rispetto ad ogni
altro paese in termini di forza militare ma anche produttiva,
finanziaria, tecnico-scientifica – di riuscire a dominare
l'intero globo.
Viene certo respinto, proprio nei primissimi anni '90, l'attacco
economico del Giappone che molti vedevano come la nuova potenza globale
in grado di sostituire la sua preminenza a quella statunitense. Nel
decennio Novanta la crescita giapponese si sgonfierà mentre il
paese del Sol Levante sarà costretto a ridurre la propria
influenza sui mercati internazionali.
Cresce invece impetuosamente la Cina, ultimamente anche l'India; e
ormai la Russia, dopo anni di "capitalismo selvaggio" sembra avviata a
ridiventare un paese in rapido progresso delle proprie forze produttive
e di più che discreto rafforzamento della propria
potenzialità politica e anche militare.
C'è in Europa un periodo di tempo durante gli anni novanta in
cui cresce la capacità espansiva, ed espansionistica, della
Germania, che approfitta del crollo del socialismo reale,
dell'indebolimento della Russia e del disfacimento della Jugoslavia,
per lanciarsi verso l'est europeo; tanto che, ancor oggi ad esempio,
circa il 70% degli investimenti esteri in Polonia è di marca
tedesca. Ed è per stoppare questa possibile ascesa che gli USA
di Clinton organizzano l'aggressione alla Jugoslavia, seguita anche in
quel caso dal processo a Milosevic, cui ha messo termine la sua morte
sospetta.
Col nuovo secolo cambiano gli scenari
In realtà, l'intervento degli USA dette un colpo decisivo alle
velleità espansionistiche tedesche, senza che i vassalli europei
di quell'impresa, salvo forse l'Inghilterra, ne ricavassero grandi
vantaggi. Quando nel 2000 ascese alla Presidenza il repubblicano Bush
jr., gli USA dovettero prendere atto che la situazione era molto
diversa da quella pensata fino ad allora e che aveva guidato i
democratici all'aggressione nei Balcani per fermare la Germania.
Quest'ultima non aveva affatto le potenzialità necessarie ad
impensierire gli Stati Uniti; e non avrebbe mai potuto averle senza
l'appoggio di almeno alcuni altri importanti paesi europei.
Il Giappone era da tempo in perfetta stagnazione. Cresceva invece
vertiginosamente la Cina, e anche la Russia era ormai in procinto di
"darsi una regolata" in grande stile. Non ci si doveva più
impegnare in avventure belliche in Europa, bensì verso sud ed
est.
Un testimone insospettabile, l'ex Ministro dell'Economia Tremonti sul
Corriere del 12 novembre ha scritto: "In fondo, la prima strategia
americana sull'Afganistan non era tanto di contrasto al terrorismo
islamico, quanto di avamposto dell'Occidente verso la Cina". Lasciamo
perdere che non si sa quale altra strategia, oltre alla prima, gli
Stati Uniti abbiano poi posto in atto verso il martoriato paese
asiatico. Resta il fatto, ammesso anche dall'ex ministro economico
della destra, che gli Stati Uniti hanno aggredito l'Afganistan per
raggiungere, contemporaneamente, alcuni risultati importanti e che,
come spesso accade, non riguardano direttamente il paese aggredito,
giacché questo serve solo da base di appoggio per ottenere un
certo riequilibrio geopolitico globale.
Si trattava, intanto, di impedire che il Pakistan venisse completamente
sottratto alla sfera di influenza statunitense e potesse diventare,
come diverrebbe se fosse libero di scegliere, dati i contrasti con
l'India, un alleato della Cina. Inoltre, il complesso
Pakistan-Afganistan rappresenta un'area di grande rilevanza per tentare
di consolidare la penetrazione USA nelle Repubbliche centroasiatiche
russe, penetrazione che a quell'epoca stava conseguendo buoni
risultati, con anche costruzione di basi americane in quella zona
già appartenente alla Russia.
La seconda aggressione all'Iraq – condotta non a caso fino in
fondo, e con occupazione militare del paese – è stata
diversa dalla prima; e intendeva stabilire definitivamente un netto
predominio degli Stati Uniti sull'intera fascia che va dal Medioriente
fino, appunto, ai confini della Cina; fascia denominata "Grande Medio
Oriente" e per la quale due anni fa Bush propose pomposamente un piano
americano di stabilizzazione rifiutato anche dai più stretti
alleati di Washington nell'area.
Afganistan e Iraq: fallimento di una strategia
La strategia dei "conservatori" repubblicani che attorniano Bush era
senz'altro più attenta ai nuovi tempi di quanto non fosse quella
della precedente amministrazione, ancora legata alle prime ipotesi,
affacciatesi subito dopo gli accadimenti del 1989-91, e cioè:
possibile affermazione, in prospettiva, di un mondo tripolare fondato
sulla competizione tra USA, Germania e Giappone, mondo in cui gli USA
sentivano ovviamente di poter rimanere, a tempo indeterminato, in netto
vantaggio grazie ad un divario di potenziale bellico che appariva, in
quel contesto, incolmabile.
Tuttavia, anche la presidenza repubblicana ha nettamente sopravvalutato
la potenza militare statunitense; peraltro non esclusivamente tale,
perché gli USA sono più avanti anche sul piano
scientifico-tecnico, su quello produttivo e finanziario, Wall Street
è di gran lunga la più importante Borsa, quella decisiva
nel mondo. Eppure, è ormai del tutto evidente come si stia
entrando in un'epoca policentrica, in cui va acuendosi la
contrapposizione tra più paesi, che non è di tipo
apertamente militare.
Essa tuttavia morde la supremazia, non più indiscussa, degli
USA; i quali sono impantanati in Iraq, poiché non sono in grado
di vincere sul piano militare e tanto meno di mettere in piedi un
Governo capace di reggersi sulle sue gambe. L'Amministrazione Bush
è rabbiosa, vorrebbe regolare i conti anche con Iran e Siria, ma
si rende conto dei rischi che correrebbe a mettersi in altre avventure
di simile portata. Credo, inoltre, che più di qualcuno negli USA
abbia capito che non è solo il confronto con l'Islam a mettere a
dura prova la potenza statunitense, poiché "dietro" ci sta tutta
la "marea montante" dei nuovi paesi dell'est che crescono; pur essendo
ancora molto meno forti degli USA, essi ormai incidono a fondo sugli
equilibri mondiali, per cui il disordine è decisamente in
aumento e sarà sempre maggiore.
Per contenere i programmi atomici della Corea del Nord, gli USA debbono
ricorrere alla Cina; ma quanto è sincera quest'ultima nel
consigliare moderazione al suo vicino? Inoltre, mentre gli USA cercano
di erigere una sorta di argine verso la Cina con Pakistan e Afganistan
(argine sempre più fragile e a forte rischio di smottamento), il
grande paese asiatico lo aggira e stabilisce rapporti
politico-commerciali di entità considerevole con decine di paesi
africani (fra i maggiori); ed effettua anche qualche alcune puntate in
Sud America. Non è più così rosea la condizione
degli USA, che non più tardi di cinque anni fa sembravano i
completi padroni del mondo.
Oggi la situazione è incerta; non dico che gli USA siano in
netto declino, ma certamente sono in fase di stallo e di insicurezza in
merito al loro reale predominio in molti comparti mondiali. Si ricordi,
fra l'altro, che i cambi di governo in Georgia e in Ucraina non hanno
dato i risultati sperati e Kiev è tornata a veleggiare dalle
parti di MOsca, che i tentativi di destabilizzare la Bielorussia sono
miseramente naufragati, che nelle repubbliche centroasiatiche russe
l'influenza americana appare, al presente, in secco arretramento, e che
in America Latina sta crescendo un blocco politico ed economico capace
di porsi in termini di concorrenzialità con Washington.
Per il momento, il punto di maggior forza degli Stati Uniti è
un'Europa che mantiene la sua tradizionale posizione di vassallo degli
Stati Uniti e che limita al minimo le occasioni di contrasto con
Washington.
È precisamente in questo contesto che si collocano e si spiegano
i risultati delle recenti elezioni negli USA. I ceti medi americani,
principali partecipanti a quella specie di gioco di società come
possono essere definite le elezioni americane, ha in modo vago e
indistinto, avvertito che la propria dirigenza è in stato
discretamente confusionale e non sa come sostituire una strategia
rivelatasi poco efficace con un'altra più adeguata. Niente oggi
aiuta a chiarire quali saranno le strade che verranno prese dalle
élite americane nei prossimi anni, si può però
notare solo che chi governa attualmente è a un bivio ed è
attanagliato da una notevole incertezza.
In Medio oriente la longa manus degli USA, il loro più stretto
alleato, Israele, è in pieno caos quanto a scelte strategiche:
va a casaccio, con errori sempre più odiosi che mettono a dura
prova i loro più strenui difensori. Ed una nuova crisi si
addensa tra il Libano, la Siria e l'Iran, rischiando di costringere
Washington a una scelta radicale tra un progressivo sempre maggior
impantanamento in azioni militari non risolutive e in difficoltà
sempre maggiori a contrastare l'azione asiatica nel mondo, e una
ritirata più o meno precipitosa dai teatri di guerra che
attualmente li impegnano, le cui conseguenze potrebbero essere
altrettanto disastrose.
Giacomo Catrame