Umanità Nova, n 39 del 3 dicembre 2006, anno 86

Dibattito. Anarchici & Politica
Diserzione, passione, conflitto, sperimentazione


Pubblichiamo, a partire da questo numero, alcuni testi dedicati al tema "Anarchici e politica". Gli articoli sono del nostro collaboratore Salvo Vaccaro che ci ha proposto di iniziare un dibattito su questo tema, suddividendolo intorno a varie aree tematiche. È nostro auspicio che questo dibattito vedrà una vasta partecipazione.

Inizia, con questo primo articolo, una serie, spero contenuta, di interventi sul tema della politica anarchica, o per meglio dire, degli anarchici e delle anarchiche nel tempo contemporaneo.
Sono dell'opinione, che conto di dimostrare fondatamente, che la necessità di una riflessione sul tema della politica non sia soltanto mia personale. Riflessione peraltro protesa ad una pratica collettiva che trovi negli anarchici e nelle anarchiche i protagonisti convinti di una azione politica non più rinviabile.
Qualcuno potrebbe ribattere d'emblée di non vedere affatto tale urgenza, e per ben due motivi congiunti benché divergenti: da un lato, gli anarchici già fanno politica con la semplice presenza nella conflittualità dispiegata, piccola o grande che sia, ognuno al proprio posto di combattimento, ognuno saldamente radicato nei propri territori di vita; dall'altro, invece, l'anarchismo è una teoria politica che riflette una scelta di campo che diserta consapevolmente il palcoscenico su cui si recita una farsa di dissimulazione, detta appunto politica, che rinvia a rapporti di forza che incatenano dei legami sociali in una direzione illibertaria, per cui ogni intervento va praticato sul piano della società, e non della sua simulazione politica (ossia il piano reale delle istituzioni), al fine di liberarla dal giogo dei rapporti di forza unilaterali e dalla prospettiva di un loro ribaltamento altrettanto unilaterale (la rivoluzione come sostituzione di élite al potere).
Entrambi i motivi possiedono ragioni buone ma insufficienti: proprio perché non si tratta di fare teoria speculativa fine a se stante, bensì di incitare a una riflessione che vada ben oltre alle mie capacità solitarie, occorre confessarci come la semplice presenza, più o meno organizzata, nei momenti di conflittualità sociale non sia idonea autonomamente a orientare il corso delle nostre vite e delle nostre società in direzione di un mondo di libertà piena che chiamiamo per convenzione anarchia. E non lo è tanto perché la semplice testimonianza non rende giustizia ai numerosi sforzi di tanti anarchici e tante anarchiche la cui militanza non vuole rassegnarsi ad essere solamente esemplare; lo sarà anche, ma di fare solo i testimoni della nostra idea non ci soddisfa appieno, anche perché poco ci distinguerebbe da altri militanti di una fede incrollabile che ricevono lume dall'alto insufflando spiritualità al mondo come se questa spiritualità, religiosa o laica che sia, servirà a far cambiare il mondo e la forma di vita con esso. Quanto perché la pratica della testimonianza, rinviando a qualcos'altro, ci espropria della capacità di orientare il corso del mondo verso la direzione che intendiamo imprimere ad essa in quell'agone competitivo che si chiama appunto politica.
Questa infatti non si limita a rendersi oscena – nel duplice senso del termine: troppo visibile da ripugnare e quindi, al contempo, nascondersi dietro questa oscena visibilità per proseguire a dettare i ritmi dell'esistenza (non da sola beninteso) – bensì si presenta nel suo simulacro, il teatro istituzionale, come unico spazio di espressione condiviso in cui competere per quell'orientamento del corso del mondo affidato alle strategie di volontà di trasformazione di cui ciascuno individuo e ciascun gruppo sociale è portatore. Proprio per tale ragione, la nostra scelta di disertare il palcoscenico falso della politica simulata e dissimulata, ossia il piano istituzionale, viene a ribadirsi solo se sappiamo declinare la politica in altro modo e su un altro versante, il che richiede appunto una riflessione che spiazzi il discorso generale della politica, a destra come a sinistra (definizioni totalmente istituzionali e direi parlamentari, in senso letterale) e sappia farsi largo nella indifferenza generale che non condivide tale scelta connaturata dopo secoli di finzione installata nell'immaginario sociale e politico. Proprio per tale ragione, la testimonianza e la semplice presenza nella conflittualità sociale non è affatto idonea a dar corso alla nostra volontà di perseguire l'anarchia. Occorre altro e di più.

Passione politica e sperimentazione di mondi possibili
La passione (politica e non) è l'humus dell'unica vita di cui disponiamo su questa terra. Proprio per ciò, la tentazione di assolutizzarla è forte inducendoci a conflitti fino al limite della morte per affermare con vigore la bontà della nostra passione. Passione con forza, passione con violenza hanno un confine molto sottile, non facile da individuare e pertanto da non oltrepassare, non facile da praticare restando sul bordo. Ovviamente l'idea di conflitto che ne viene fuori è una idea molto alta, e paradossalmente più agevole da maneggiare con cura se ribadiamo a noi stessi in primis come ognuno abbia diritto, per così dire, alla propria passione, e quindi al conflitto per affermarla senza annichilire la passione altrui. E quando lo scontro diviene inevitabile, grosso modo per incapacità soggettive o per incompatibilità oggettive, ebbene numerose sono le metodologie per disinnescare in via anticipata o diplomatica gli effetti più miserevoli e micidiali dello scontro tra passioni, inclusa una sana accettazione di un ripiegamento temporaneo o di una diniego di accesso definitivo alla sua soddisfazione.
Tuttavia, quando entra in ballo la passione politica sembra che il limite di negazione della vita che l'affermazione della passione politica su un'altra comporta, equivalente alla violenza, non conti più sia nel vissuto che nella razionalizzazione di una propria condotta. Sembra che l'affermazione della propria passione politica a scapito di quella altrui sia normale in un mondo diviso dal conflitto tra ricchi e poveri, tra chi ha e chi non ha, tra governanti e governati, ecc. ecc. L'invenzione di una passione neutrale, quindi universale che abbracci tutti e risolva una volta per sempre il conflitto, scatena a sua volta un aspro scontro su tale posizione, nonché su chi vi si debba installare, tanto fondamentalista quanto integralista al contempo, e non a caso tale ideologia diviene paradigma dominante a livello religioso (la comunità ecclesiale, cattolico vuol dire infatti tutti quanti, ovvero la umma islamica, la comunità di tutti i fedeli) o a livello politico (il liberalismo come preteso terreno neutro di soluzione non violenta alle controversie).
Anche l'anarchismo non è esente da tali rischi: e in effetti, non saremmo disponibili a dare la nostra libertà e la nostra vita per la nostra idea di massima libertà e di massima vita felice, promesse dall'anarchia? Senza scomodare l'eden mondano, l'anarchismo si presenta come una fede militante, meglio un credo militante libero e liberante che pur non aspirando a detenere la verità ultima delle cose di questo mondo, ambisce pur sempre a lasciarsi sperimentare come una organizzazione sociale in grado di garantire libertà e eguaglianza, felicità e realizzazione, autenticità e prospettive di vita per ciascuno e per tutti. La nostra passione politica, pur vicina ad altre analoghe per comune matrice illuministica, è unica nel panorama storico-concettuale della "offerta" politica nel senso ampio del termine.
Ciò implica allora che dobbiamo imporre la nostra passione a tutti e tutte? Tale equivoco potrebbe sorgere nel momento in cui mettiamo la politica al servizio di tale passione, ossia rendiamo fungibili gli strumenti della politica, dell'imposizione politica con forza statuale, con violenza unilaterale nel conflitto sociale, a beneficio della nostra passione. Coloro che rifiutano una attitudine degli anarchici alla politica paventano proprio questo: una eterogenesi dei fini, ossia partire per cambiare il mondo senza prendere il potere e finire o per lasciarsi vincere da una passione concorrente ma autoritaria, oppure prendere il potere per cercare di trasformare il mondo.
Io credo che dobbiamo impegnarci per sfuggire a simile scoglio. Da un lato, non possiamo più permetterci - pena la nostra estinzione come idea del XXI secolo (e non tanto del XIX e del XX secolo) che affonda in un sostrato di condizioni idonee, materiali e immaginario-simboliche affinché la passione dell'anarchismo risulti comprensibile - di lasciare che le trasformazioni del mondo avvengano indipendentemente dalla nostra presenza attiva e fattiva affinché tali trasformazioni non si diano a prescindere dalla nostra passione organizzata; dall'altro, non possiamo diventare una offerta politica (o sociale, economica, culturale, ecologica, pedagogica, ecc.) analoga ma differenziata al contempo da qualche altra passione politica in lotta per la propria egemonia sulle altre. Tra imprimere una direzione violentemente e offrire un senso di orientamento alla libera sperimentazione dei mondi possibili su questa terra nell'unica vita di cui disponiamo, esiste uno stretto margine in cui insistiamo noi anarchici nel nostro agire politico che si qualifica come apertura del possibile politico (e quindi sociale, economico, ecc.) alla sperimentazione infinita e mai chiusa con forza dalla istituzionalizzazione politica di tale margine, cosa che puntualmente compie ogni pensiero e pratica statuale.

Spezzare uno stile, disertare un luogo
È risaputo come noi anarchici siamo rimasti gli unici e soli a pronunciare e praticare una netta critica della politica, intesa sia come sfera istituzionale separata drasticamente dal più ampio agone sociale, sia come tecnica ereditata in senso machiavellico, fatta di tranelli, sotterfugi, doppio linguaggio, retropensieri, finzioni, trappole, bugie spudorate, arroganza, tattiche e strategie che ben la declinano sul modello militare di conquista della vittoria, che per la politica è appunto il potere e la sua posizione privilegiata.
La nostra storica diserzione del luogo e del metodo della politica costituisce uno dei punti di vanto e orgoglio della nostra tradizione, che ci gratifica ogni qualvolta la fisiologia del potere esibisce impunemente l'oscenità dell'assenza costitutiva di pudore e direi pure di eleganza, di finezza, di civiltà insomma. Certo l'orgoglio, talvolta da esibire con fierezza, non basta a stagliarci nel panorama come contraltare decisivo per tutti coloro che volessero abbandonare quello spazio infetto e quei metodi fedifraghi per rilanciare la politica come passione genuina diffusa per tutti gli strati sociali. In realtà, criticare così la politica significa spesso fare del moralismo, buono per tutte le occasioni ma dal fiato corto, esemplare ormai per una sparuta minoranza, poiché quello stile della politica ormai si è infiltrato dappertutto, anche attraverso quella che dovrebbe chiamarsi società civile, in cui alberga ora come tentazione attraente e fatale – la militanza sociale e civile che diviene utile retroterra curriculare per entrare in politica – ora come scimmiottamento di dinamiche esiziali mutuate dalla tecnica mortifera della politica stessa – certi arrembaggi assembleari, certi retaggi autoritari in forum sociali…
Spezzare uno stile e disertare un luogo diviene così una doppia sfida che, in certi momenti storici, rappresenta una carta vincente sull'onda lunga di ventate libertarie persino indipendenti dall'agire organizzato degli anarchici e delle anarchiche (ma neppure totalmente insensibile allo sforzo di tutti noi), ma che in altri momenti storici di bonaccia, per così dire, rafforzano la nostra sostanziale estraneità alla società nel suo complesso, e non solamente alla sua élite politica da cui siamo lieti di rimarcare la distanza abissale. Questo isolamento fattuale è però un problema politico per noi: né la critica moralistica, né l'esemplarità pedagogica sono sufficienti per risalire la china, rompere la cintura di protezione che il sistema politico adotta tra le fila della società per ridurci a caricatura bene per qualche evento culturale o giornalistico di macchietta, o peggio a fantasma terrorizzante e contagioso da cui stare alla lontana pena l'incorrere in guai giudiziari e repressivi veri e propri (la tattica della terra bruciata intorno a noi).
L'attenzione al mantenere un radicamento territoriale, nonostante l'anarchismo non sia una idea localistica e parrocchiale, serve proprio a ridimensionare gli effetti isolanti di una morsa a tenaglia che ci allontana virtualmente dai nostri interlocutori sociali, i quali, sebbene infiltrati inconsapevolmente dal germe della "politique politicienne" (gergo francese da cui deriva il famigerato nickname di Pol Pot…), non sono da disprezzare al pari del ceto politico. Detto questo, però, la ragione della permeabilità della società allo stile della politica non consente più di veicolare una estraneità resistente e potenzialmente ribaltante solo attraverso una retorica della propaganda legata alla parola della critica (e alla critica della parola), bensì esige una modalità di intervento nella società che sia materiale nei fatti, ossia carica di fatti concreti dai quali allargare la stretta superficie di simpatie e consensi per porsi in una linea d'onda in grado di comunicare con diversi segmenti della società non sempre storicamente riconducibili ai nostri interlocutori classici (nel duplice senso del termine: tradizionali e di classe).
Ciò però vuol dire dotarsi di una lettura delle dinamiche sociali e di una disponibilità al confronto con segmenti individuali e collettivi inediti per noi, ossia aprirsi sul territorio a individuare con una ricerca meticolosa di opportunità, situazioni, effervescenze sia pure minimali su cui darsi una capacità di confronto tesa a eccedere nell'eventuale conflitto tra posizioni e prospettive diverse in presenza di altre forze in campo, la linearità destinale di un ciclo chiuso e ricorsivo di cui tracciare la tangente di rottura, senza spirito autoimmolatore di avanguardia ma passo dopo passo, pazientemente e gradualmente insieme.

Salvo Vaccaro

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