Pubblichiamo, a partire da questo
numero, alcuni testi dedicati al tema "Anarchici e politica". Gli
articoli sono del nostro collaboratore Salvo Vaccaro che ci ha proposto
di iniziare un dibattito su questo tema, suddividendolo intorno a varie
aree tematiche. È nostro auspicio che questo dibattito
vedrà una vasta partecipazione.
Inizia, con questo primo articolo, una serie, spero contenuta, di
interventi sul tema della politica anarchica, o per meglio dire, degli
anarchici e delle anarchiche nel tempo contemporaneo.
Sono dell'opinione, che conto di dimostrare fondatamente, che la
necessità di una riflessione sul tema della politica non sia
soltanto mia personale. Riflessione peraltro protesa ad una pratica
collettiva che trovi negli anarchici e nelle anarchiche i protagonisti
convinti di una azione politica non più rinviabile.
Qualcuno potrebbe ribattere d'emblée di non vedere affatto tale
urgenza, e per ben due motivi congiunti benché divergenti: da un
lato, gli anarchici già fanno politica con la semplice presenza
nella conflittualità dispiegata, piccola o grande che sia,
ognuno al proprio posto di combattimento, ognuno saldamente radicato
nei propri territori di vita; dall'altro, invece, l'anarchismo è
una teoria politica che riflette una scelta di campo che diserta
consapevolmente il palcoscenico su cui si recita una farsa di
dissimulazione, detta appunto politica, che rinvia a rapporti di forza
che incatenano dei legami sociali in una direzione illibertaria, per
cui ogni intervento va praticato sul piano della società, e non
della sua simulazione politica (ossia il piano reale delle
istituzioni), al fine di liberarla dal giogo dei rapporti di forza
unilaterali e dalla prospettiva di un loro ribaltamento altrettanto
unilaterale (la rivoluzione come sostituzione di élite al
potere).
Entrambi i motivi possiedono ragioni buone ma insufficienti: proprio
perché non si tratta di fare teoria speculativa fine a se
stante, bensì di incitare a una riflessione che vada ben oltre
alle mie capacità solitarie, occorre confessarci come la
semplice presenza, più o meno organizzata, nei momenti di
conflittualità sociale non sia idonea autonomamente a orientare
il corso delle nostre vite e delle nostre società in direzione
di un mondo di libertà piena che chiamiamo per convenzione
anarchia. E non lo è tanto perché la semplice
testimonianza non rende giustizia ai numerosi sforzi di tanti anarchici
e tante anarchiche la cui militanza non vuole rassegnarsi ad essere
solamente esemplare; lo sarà anche, ma di fare solo i testimoni
della nostra idea non ci soddisfa appieno, anche perché poco ci
distinguerebbe da altri militanti di una fede incrollabile che ricevono
lume dall'alto insufflando spiritualità al mondo come se questa
spiritualità, religiosa o laica che sia, servirà a far
cambiare il mondo e la forma di vita con esso. Quanto perché la
pratica della testimonianza, rinviando a qualcos'altro, ci espropria
della capacità di orientare il corso del mondo verso la
direzione che intendiamo imprimere ad essa in quell'agone competitivo
che si chiama appunto politica.
Questa infatti non si limita a rendersi oscena – nel duplice
senso del termine: troppo visibile da ripugnare e quindi, al contempo,
nascondersi dietro questa oscena visibilità per proseguire a
dettare i ritmi dell'esistenza (non da sola beninteso) –
bensì si presenta nel suo simulacro, il teatro istituzionale,
come unico spazio di espressione condiviso in cui competere per
quell'orientamento del corso del mondo affidato alle strategie di
volontà di trasformazione di cui ciascuno individuo e ciascun
gruppo sociale è portatore. Proprio per tale ragione, la nostra
scelta di disertare il palcoscenico falso della politica simulata e
dissimulata, ossia il piano istituzionale, viene a ribadirsi solo se
sappiamo declinare la politica in altro modo e su un altro versante, il
che richiede appunto una riflessione che spiazzi il discorso generale
della politica, a destra come a sinistra (definizioni totalmente
istituzionali e direi parlamentari, in senso letterale) e sappia farsi
largo nella indifferenza generale che non condivide tale scelta
connaturata dopo secoli di finzione installata nell'immaginario sociale
e politico. Proprio per tale ragione, la testimonianza e la semplice
presenza nella conflittualità sociale non è affatto
idonea a dar corso alla nostra volontà di perseguire l'anarchia.
Occorre altro e di più.
Passione politica e sperimentazione di mondi possibili
La passione (politica e non) è l'humus dell'unica vita di cui
disponiamo su questa terra. Proprio per ciò, la tentazione di
assolutizzarla è forte inducendoci a conflitti fino al limite
della morte per affermare con vigore la bontà della nostra
passione. Passione con forza, passione con violenza hanno un confine
molto sottile, non facile da individuare e pertanto da non
oltrepassare, non facile da praticare restando sul bordo. Ovviamente
l'idea di conflitto che ne viene fuori è una idea molto alta, e
paradossalmente più agevole da maneggiare con cura se ribadiamo
a noi stessi in primis come ognuno abbia diritto, per così dire,
alla propria passione, e quindi al conflitto per affermarla senza
annichilire la passione altrui. E quando lo scontro diviene
inevitabile, grosso modo per incapacità soggettive o per
incompatibilità oggettive, ebbene numerose sono le metodologie
per disinnescare in via anticipata o diplomatica gli effetti più
miserevoli e micidiali dello scontro tra passioni, inclusa una sana
accettazione di un ripiegamento temporaneo o di una diniego di accesso
definitivo alla sua soddisfazione.
Tuttavia, quando entra in ballo la passione politica sembra che il
limite di negazione della vita che l'affermazione della passione
politica su un'altra comporta, equivalente alla violenza, non conti
più sia nel vissuto che nella razionalizzazione di una propria
condotta. Sembra che l'affermazione della propria passione politica a
scapito di quella altrui sia normale in un mondo diviso dal conflitto
tra ricchi e poveri, tra chi ha e chi non ha, tra governanti e
governati, ecc. ecc. L'invenzione di una passione neutrale, quindi
universale che abbracci tutti e risolva una volta per sempre il
conflitto, scatena a sua volta un aspro scontro su tale posizione,
nonché su chi vi si debba installare, tanto fondamentalista
quanto integralista al contempo, e non a caso tale ideologia diviene
paradigma dominante a livello religioso (la comunità ecclesiale,
cattolico vuol dire infatti tutti quanti, ovvero la umma islamica, la
comunità di tutti i fedeli) o a livello politico (il liberalismo
come preteso terreno neutro di soluzione non violenta alle
controversie).
Anche l'anarchismo non è esente da tali rischi: e in effetti,
non saremmo disponibili a dare la nostra libertà e la nostra
vita per la nostra idea di massima libertà e di massima vita
felice, promesse dall'anarchia? Senza scomodare l'eden mondano,
l'anarchismo si presenta come una fede militante, meglio un credo
militante libero e liberante che pur non aspirando a detenere la
verità ultima delle cose di questo mondo, ambisce pur sempre a
lasciarsi sperimentare come una organizzazione sociale in grado di
garantire libertà e eguaglianza, felicità e
realizzazione, autenticità e prospettive di vita per ciascuno e
per tutti. La nostra passione politica, pur vicina ad altre analoghe
per comune matrice illuministica, è unica nel panorama
storico-concettuale della "offerta" politica nel senso ampio del
termine.
Ciò implica allora che dobbiamo imporre la nostra passione a
tutti e tutte? Tale equivoco potrebbe sorgere nel momento in cui
mettiamo la politica al servizio di tale passione, ossia rendiamo
fungibili gli strumenti della politica, dell'imposizione politica con
forza statuale, con violenza unilaterale nel conflitto sociale, a
beneficio della nostra passione. Coloro che rifiutano una attitudine
degli anarchici alla politica paventano proprio questo: una eterogenesi
dei fini, ossia partire per cambiare il mondo senza prendere il potere
e finire o per lasciarsi vincere da una passione concorrente ma
autoritaria, oppure prendere il potere per cercare di trasformare il
mondo.
Io credo che dobbiamo impegnarci per sfuggire a simile scoglio. Da un
lato, non possiamo più permetterci - pena la nostra estinzione
come idea del XXI secolo (e non tanto del XIX e del XX secolo) che
affonda in un sostrato di condizioni idonee, materiali e
immaginario-simboliche affinché la passione dell'anarchismo
risulti comprensibile - di lasciare che le trasformazioni del mondo
avvengano indipendentemente dalla nostra presenza attiva e fattiva
affinché tali trasformazioni non si diano a prescindere dalla
nostra passione organizzata; dall'altro, non possiamo diventare una
offerta politica (o sociale, economica, culturale, ecologica,
pedagogica, ecc.) analoga ma differenziata al contempo da qualche altra
passione politica in lotta per la propria egemonia sulle altre. Tra
imprimere una direzione violentemente e offrire un senso di
orientamento alla libera sperimentazione dei mondi possibili su questa
terra nell'unica vita di cui disponiamo, esiste uno stretto margine in
cui insistiamo noi anarchici nel nostro agire politico che si qualifica
come apertura del possibile politico (e quindi sociale, economico,
ecc.) alla sperimentazione infinita e mai chiusa con forza dalla
istituzionalizzazione politica di tale margine, cosa che puntualmente
compie ogni pensiero e pratica statuale.
Spezzare uno stile, disertare un luogo
È risaputo come noi anarchici siamo rimasti gli unici e soli a
pronunciare e praticare una netta critica della politica, intesa sia
come sfera istituzionale separata drasticamente dal più ampio
agone sociale, sia come tecnica ereditata in senso machiavellico, fatta
di tranelli, sotterfugi, doppio linguaggio, retropensieri, finzioni,
trappole, bugie spudorate, arroganza, tattiche e strategie che ben la
declinano sul modello militare di conquista della vittoria, che per la
politica è appunto il potere e la sua posizione privilegiata.
La nostra storica diserzione del luogo e del metodo della politica
costituisce uno dei punti di vanto e orgoglio della nostra tradizione,
che ci gratifica ogni qualvolta la fisiologia del potere esibisce
impunemente l'oscenità dell'assenza costitutiva di pudore e
direi pure di eleganza, di finezza, di civiltà insomma. Certo
l'orgoglio, talvolta da esibire con fierezza, non basta a stagliarci
nel panorama come contraltare decisivo per tutti coloro che volessero
abbandonare quello spazio infetto e quei metodi fedifraghi per
rilanciare la politica come passione genuina diffusa per tutti gli
strati sociali. In realtà, criticare così la politica
significa spesso fare del moralismo, buono per tutte le occasioni ma
dal fiato corto, esemplare ormai per una sparuta minoranza,
poiché quello stile della politica ormai si è infiltrato
dappertutto, anche attraverso quella che dovrebbe chiamarsi
società civile, in cui alberga ora come tentazione attraente e
fatale – la militanza sociale e civile che diviene utile
retroterra curriculare per entrare in politica – ora come
scimmiottamento di dinamiche esiziali mutuate dalla tecnica mortifera
della politica stessa – certi arrembaggi assembleari, certi
retaggi autoritari in forum sociali…
Spezzare uno stile e disertare un luogo diviene così una doppia
sfida che, in certi momenti storici, rappresenta una carta vincente
sull'onda lunga di ventate libertarie persino indipendenti dall'agire
organizzato degli anarchici e delle anarchiche (ma neppure totalmente
insensibile allo sforzo di tutti noi), ma che in altri momenti storici
di bonaccia, per così dire, rafforzano la nostra sostanziale
estraneità alla società nel suo complesso, e non
solamente alla sua élite politica da cui siamo lieti di
rimarcare la distanza abissale. Questo isolamento fattuale è
però un problema politico per noi: né la critica
moralistica, né l'esemplarità pedagogica sono sufficienti
per risalire la china, rompere la cintura di protezione che il sistema
politico adotta tra le fila della società per ridurci a
caricatura bene per qualche evento culturale o giornalistico di
macchietta, o peggio a fantasma terrorizzante e contagioso da cui stare
alla lontana pena l'incorrere in guai giudiziari e repressivi veri e
propri (la tattica della terra bruciata intorno a noi).
L'attenzione al mantenere un radicamento territoriale, nonostante
l'anarchismo non sia una idea localistica e parrocchiale, serve proprio
a ridimensionare gli effetti isolanti di una morsa a tenaglia che ci
allontana virtualmente dai nostri interlocutori sociali, i quali,
sebbene infiltrati inconsapevolmente dal germe della "politique
politicienne" (gergo francese da cui deriva il famigerato nickname di
Pol Pot…), non sono da disprezzare al pari del ceto politico.
Detto questo, però, la ragione della permeabilità della
società allo stile della politica non consente più di
veicolare una estraneità resistente e potenzialmente ribaltante
solo attraverso una retorica della propaganda legata alla parola della
critica (e alla critica della parola), bensì esige una
modalità di intervento nella società che sia materiale
nei fatti, ossia carica di fatti concreti dai quali allargare la
stretta superficie di simpatie e consensi per porsi in una linea d'onda
in grado di comunicare con diversi segmenti della società non
sempre storicamente riconducibili ai nostri interlocutori classici (nel
duplice senso del termine: tradizionali e di classe).
Ciò però vuol dire dotarsi di una lettura delle dinamiche
sociali e di una disponibilità al confronto con segmenti
individuali e collettivi inediti per noi, ossia aprirsi sul territorio
a individuare con una ricerca meticolosa di opportunità,
situazioni, effervescenze sia pure minimali su cui darsi una
capacità di confronto tesa a eccedere nell'eventuale conflitto
tra posizioni e prospettive diverse in presenza di altre forze in
campo, la linearità destinale di un ciclo chiuso e ricorsivo di
cui tracciare la tangente di rottura, senza spirito autoimmolatore di
avanguardia ma passo dopo passo, pazientemente e gradualmente insieme.
Salvo Vaccaro