Non perde occasione Piero Fassino, segretario dei Democratici di
sinistra e affannato promotore del "Partito Democratico", per
commemorare con devozione Bettino Craxi: tra i dirigenti della sinistra
parlamentare degli ultimi decenni, forse, quello che più
sfacciatamente di tutti intrecciò i propri interessi di potere
con gli affari della grande criminalità organizzata nazionale e
internazionale, si rese responsabile dell'enorme tributo di morte e
terrore che questa scelta comportò, e contribuì, in
tandem con l'allora presidente della repubblica Francesco Cossiga, a
riportare in auge e rinforzare l'anima più fascista dello Stato
italiano, con le sue tante strutture "segrete", o parallele.
Già nelle sue preziose memorie (2003), come poi all'ultimo
congresso DS (2005), e nuovamente in questi giorni, Fassino ha
ricordato Craxi come colui che "intuì e colse, molto prima di
altri, le domande di modernizzazione poste dalla società
italiana alla fine degli anni '70".
Non stupisce che il segretario DS, la cui maggioranza nel partito
dipende in larga misura dal favore delle due componenti interne eredi
dei "miglioristi", ovvero della corrente più esplicitamente
filocapitalista, e filocraxiana dell'ex PCI, guardi oggi al dirigente
socialista di quegli anni come ad una figura di riferimento. Ciò
torna utile, in primo luogo, ad interessi contingenti della segreteria
diessina, impegnata nell'improbabile tentativo di traghettare anche la
Margherita verso un'adesione all'internazionale socialista, e
interessata ad attirare nel vagheggiato partito democratico anche gli
attuali eredi del potere craxiano, sempre ondeggianti e divisi fra
centrodestra e centrosinistra. Per altri versi, la riabilitazione di
Craxi e l'ossequio postumo a lui rivolti rappresentano una ennesima
dichiarazione di totale asservimento all'economia capitalista, ai
sistemi di dominio che la incarnano, alle brutalità sistematiche
che essa comporta, che la classe dirigente erede del PCI sente il
bisogno di ripetere eternamente come un mantra, una preghiera di
espiazione, volta a sciogliere le diffidenze e le freddezze che i
poteri forti del capitale nazionale e mondiale, talvolta, ancora gli
riservano.
Tale operazione richiede, tuttavia, da parte di coloro che dalle file
del centrosinistra, in perfetta consonanza con la retorica
berlusconiana, la portano avanti, un altissimo livello di rimozione,
cancellazione e contraffazione della realtà storica, sociale e
politica degli anni Ottanta, e del ruolo che in essa ebbero l'ascesa e
l'egemonia del PSI di Bettino Craxi.
Ricordo gli anni dello strapotere craxiano, vissuti e visti da un
quartiere degradato di Napoli, come Poggioreale. Rammento il fiorire di
sezioni socialiste in quasi tutti i luoghi e locali ben noti, agli
abitanti della zona, come posti di ritrovo della camorra locale.
Ricordo che, nei periodi di campagna elettorale, ogni singolo
"camorristiello" del quartiere era coinvolto febbrilmente in
attività di attacchinaggio e promozione, e non scordo di averli
visti fare a botte, e metter mano alle armi, perché, sullo
stesso muro, volevano incollare i manifesti di due diversi candidati
socialisti.
Il reclutamento dei dirigenti avveniva con i medesimi criteri usati per
il reperimento della manovalanza. Bastava essere affiliato, sia pur
debolmente, alla camorra, privo di scrupoli, e capace di imbastire
quattro chiacchiere, per aprirsi una carriera politica. Ricordo
l'arroganza che questo stato di cose risvegliò nella malavita
rionale e cittadina. Una consapevolezza di impunità, un sapere
di potersi concedere anche la violenza gratuita, che non hanno mai
smesso di diffondersi in questi ambienti, anche negli anni successivi
all'epoca craxiana, caratterizzati, a livello nazionale, dal
berlusconismo e dalla totale subalternità del centrosinistra
alle sue logiche, e sul piano locale dall'inerzia e dalla collusione
delle amministrazioni di centrosinistra con i potentati locali. Scelte
istituzionali e politiche che nessuna discontinuità hanno
espresso, rispetto agli anni del malaffare e degli sperperi
democristiani e socialisti.
Val la pena richiamare alcuni tra i tanti passaggi nefasti di quella fase:
Il congresso socialista di Palermo, del 1981, segnava l'avvio del
controllo totale di Craxi su un partito, già da decenni,
coinvolto nella spartizione del potere con la DC e con i suoi
satelliti: si imponeva la linea della "modernità" intesa come
gestione spregiudicata del potere e degli affari. Nello stesso anno,
Forlani, capo del governo, rendeva pubbliche le liste della loggia P2,
che includevano 35 socialisti, e Guido Calvi confessava ai giudici di
Milano di avere versato una tangente di 21 milioni di dollari al PSI.
Il governo craxiano nasce, nel 1983, nel segno degli scandali per le
tangenti di Torino e Savona, esordisce con il condono edilizio, e mette
subito mano alle grandi lottizzazioni: i partiti di governo si
spartiscono BNL, COMIT, Credito Italiano, le Casse di risparmio di Roma
e Torino, ed enti come ENI, AGIP, IRI, STET, SIP, ENEL, FINSIDER, INA,
ENEA, oltre che la Cassa del mezzogiorno e, naturalmente, la Rai.
In quegli anni, un alleato chiave di Craxi, e dei governi da lui
presieduti, è Silvio Berlusconi. Le televisioni del Cavaliere,
oscurate da tre pretori, possono riprendere a trasmettere grazie ad un
provvedimento del Consiglio dei ministri, che Giuliano Amato
convertirà poi in tre distinti decreti legge. Il deficit
pubblico giunge prossimo al milione di miliardi di lire.
Ma l'anno cruciale, per il radicamento e l'estensione del potere
craxiano, è il 1986. La situazione è favorevole: il
maxiprocesso in corso rende la mafia siciliana particolarmente
bisognosa di appoggi legislativi, giudiziari e politici; il leader
socialista presiede il suo secondo governo, sostenuto da DC, PSI, PSDI,
PRI e PLI, e a giugno si svolgono le elezioni in Sicilia. Queste ultime
danno il segnale più eclatante di un nuovo equilibrio di poteri
all'interno del pentapartito: molte città e ampie zone della
regione siciliana, tradizionali roccaforti di un voto mafioso che aveva
nella DC, e nella corrente andreottiana in particolare, il suo
principale referente politico, spostano, di colpo, e in blocco, le
proprie preferenze verso il PSI. Fenomeni analoghi, con consistenti
travasi di pacchetti di voti, avverranno, in quegli anni, anche nelle
altre regioni ad alta densità camorristica e mafiosa, e in varie
città del Nord. Milano è centro di un potere socialista
che ha sottoscritto un patto di ferro con le grandi cupole criminali
del sud della penisola. Il gioco durerà fino alla fine degli
anni Ottanta; l'inizio del decennio successivo vedrà la
decadenza e gli ultimi colpi di coda del leader socialista che, nel
1993, per sfuggire a varie condanne definitive, si rifugerà ad
Hammamet, latitante privilegiato.
Non è un caso che Fassino si ricolleghi, oggi, a questa storia,
la rivendichi e la usi in funzione di una propria legittimazione a
promotore e possibile leader del futuro partito democratico: se il 1986
segna il culmine del potere craxiano, e della sua alleanza con le
mafie, le camorre e i loro referenti politici, il 1987 indica l'inizio
della definitiva conversione del PCI alla lezione craxiana. Un percorso
ed un esito di cui l'attuale dirigenza DS, da D'Alema a Fassino,
è l'espressione più compiuta. Fino al 1986, infatti, il
PCI aveva messo in atto, nei confronti dei partiti governativi e del
sistema di tangenti su cui essi basavano larga parte del proprio
finanziamento, una strategia di reciproca tolleranza: il partito non
partecipava in modo sistematico alla spartizione delle tangenti, ma
chiudeva un occhio su tale sistema, ricevendo in cambio altrettanta
bonaria cecità sui finanziamenti illeciti alle cooperative
"rosse". Numerosi riscontri e testimonianze portano, tuttavia, a
ritenere che, proprio a partire dal 1987, sotto la pressione delle
componenti miglioriste, e in particolare dell'area milanese, "anche il
PCI entrò a far parte in maniera continuativa e organizzata del
sistema delle tangenti". Parallelamente, le cooperative legate al
partito comunista entravano nel cosiddetto "sistema Natali", gestito da
Antonio Natali, presidente socialista della metropolitana milanese, e
basato sulla "aggiudicazione di appalti attraverso il pagamento ai
partiti di una quota percentuale", proporzionata al valore della
commessa.
Questi aggiustamenti, che avvenivano, sotto la dirigenza politica di
Occhetto, e in una fase in cui "tutte le questioni riguardanti il
finanziamento erano coordinate dall'allora vicesegretario Massimo
D'Alema", rappresentarono premesse necessarie per la trasformazione del
PCI in PDS, e poi in DS. Rievocare tale percorso, edulcorandolo,
ovvero, presentandolo come un positivo superamento di rigidità
ideologiche ormai insostenibili, come oggi la dirigenza DS torna a
fare, significa, nel contempo, falsificare completamente la
realtà storica, ma anche preparare una svolta ulteriore che
liberi definitivamente il partito, e il suo nome, da quella S,
così imbarazzante, in quanto ancora costringe una classe
dirigente di vocazione puramente centrista, e interessata
esclusivamente ad accreditarsi come portavoce affidabile del libero
mercato più aggressivo e rampante, a fingere di tanto in tanto,
per motivi elettorali, di aderire ad una cultura sociale e politica "di
sinistra".
Un suggerimento: converrebbe ai Democratici di Sinistra approfittare
del fatto che la stella di Storace è in declino, cooptarlo nel
partito e accordarsi con lui per appropriarsi del nome di quella
corrente di Alleanza Nazionale di cui l'ex presidente della Regione
Lazio era, fino a poco tempo fa, un osannato esponente: Destra sociale.
Conserverebbero la loro sigla (DS) e introdurrebbero, nella politica
italiana, un elemento di chiarezza.
M@rcos