La spettacolare esecuzione di Saddam Hussein ha indubbiamente provocato
molte reazioni e interrogativi sul piano emotivo, politico e persino
etico. Sicuramente, il dittatore di Baghdad si è portato nella
tomba molti segreti scomodi per gli ex-alleati di Washington; basti
pensare agli armamenti, impiegati per massacrare iraniani, curdi e
sciiti, che negli anni '80 erano stati forniti al regime iracheno dagli
Stati Uniti e da altre nazioni occidentali, non ultima la stessa
Italia, così come denunciato anche da Robert Fisk, inviato di
guerra dell'Independent.
Eppure, senza negare tale importante aspetto della vicenda, è
generalmente sfuggito che la liquidazione di Saddam Hussein altro non
è che un tassello nella costruzione della "pacificazione" in
Iraq e, allo stesso tempo, un macabro pegno offerto alla dirigenza
sciita.
Ma tentiamo di comporre il puzzle, un pezzo per volta.
''NON STIAMO VINCENDO...''
Per la prima volta, lo scorso 20 dicembre, George Bush intervistato dal
Washington Post, ha fatto sua la formula da tempo usata dai vertici
militari statunitensi, compreso il neo ministro alla Difesa Robert
Gates, descrivendo in termini meno trionfalistici la situazione in
Iraq: "Non stiamo vincendo, non stiamo perdendo".
Ogni settimana, le forze statunitensi subiscono una media di quasi
mille attacchi (960 per l'esattezza): ormai è lo stesso
Pentagono ad ammetterlo. La maggior parte di questi attacchi proviene
dalle milizie radicali sciite e, in particolare, da quelle facenti capo
al cosiddetto Esercito del Mahdi di Moqtada al-Sadr, ritenute
"responsabili di un maggior numero di vittime civili rispetto a quelle
causate dalle organizzazioni terroristiche".
Detto questo, i leader radicali sciiti restano a tutt'oggi i più
importanti pilastri su cui si regge il governo del premier al Maliki;
infatti, sin dai tempi dell'amministrazione provvisoria retta da
Brenner, i vertici statunitensi hanno favorito la stabilizzazione di
una leadership sciita, ma allo stesso tempo non emanazione del regime
iraniano, anch'esso d'osservanza sciita. Tale obiettivo si sta
scontrando però con l'opposizione in armi sia dello Sciri (il
Consiglio supremo della rivoluzione islamica, storicamente legato a
Teheran) con le brigate Badr di al Hakim, fortemente intrecciate con
l'apparato poliziesco governativo, sia dell'Esercito del Mahdi che,
nonostante la sua appartenenza sciita, ha stretto un'intesa in funzione
antiamericana anche con forze sunnite combattenti in nome di Saddam
Hussein.
Bastano quindi queste poche informazioni per intuire come l'esecuzione
di Saddam Hussein, firmata dal primo ministro nonché leader del
partito sciita del Dawa, Nouri al Maliki, ed eseguita da boia
incappucciati inneggianti a Moqtada risponda perfettamente allo scopo,
da un lato, di ingraziarsi gli oltranzisti sciiti e, dall'altro, di
minare le alleanze tattiche tra sciiti e sunniti sostenitori del
passato regime, alimentando invece la guerra civile.
CARNE DA MACELLO
La guerra in Iraq continua a divampare, seminando quotidianamente la
morte tra i civili, ma anche fra gli occupanti: all'inizio di gennaio
il totale dei caduti tra le forze statunitensi, secondo le ammissioni
dei comandi, ha raggiunto la cifra di 3.000; se l'andamento delle
perdite, almeno riferendosi a quelle ufficiali, continuasse con i ritmi
attuali, restare sino al 2008, per gli Usa significherebbe contare
almeno altre 1.000 bare.
Nonostante il crescente numero di perdite tra i militari Usa, gli
strateghi dello stato maggiore interforze e gli esperti di bilancio
della Casa Bianca stanno studiando il modo per rafforzare le presenza
militare Usa in Iraq che, attualmente, assomma a 134 mila unità.
Bush avrebbe richiesto ulteriori 50 mila soldati, ma probabilmente lo
stato della finanze statunitensi non potrà trovare stanziamenti
per oltre 20-30 mila, dato che il costo della guerra solo nel 2006 ha
raggiunto i 110 miliardi di dollari.
Il capo dello stato maggiore dell'esercito americano, generale Peter
Schoomaker, ha richiesto al Congresso almeno 56 miliardi di dollari e
ulteriori arruolamenti, rendendo definitivo l'incremento di 25.000
effettivi deciso dal 2001 e continuando a chiamare alle armi 7.000
unità all'anno.
Si parla anche con insistenza della necessità di ripristinare il
servizio di leva obbligatorio, ma tale decisione finirebbe,
inevitabilmente, per allargare il dissenso interno antimilitarista,
così come accadde ai tempi del Vietnam, tanto più che
già oggi si contano oltre 5.000 diserzioni tra gli stessi
militari di professione.
Il rapporto Baker-Hamilton, da parte sua, nel consigliare a Bush un
cambio di rotta nella politica Usa in Iraq è stato alquanto
chiaro, pur senza suonare ancora la ritirata. Tale rapporto,
riprendendo le considerazioni di John Chipman, direttore dell'Istituto
Studi Strategici, ritiene il governo iracheno con le sue forze armate
non in grado di contenere l'insurrezione; quindi viene chiesto un
aumento del numero di soldati Usa destinati all'addestramento
dell'esercito nazionale, ma è stato escluso l'invio di ulteriori
100 mila combattenti, ed anzi si propone un graduale rimpatrio delle
truppe Usa a partire dal primo trimestre del 2008.
FEDERALISMO PETROLIFERO
L'alternativa all'attuale stato di guerra (o la sua classica
continuazione politica), sarebbe il rilancio della diplomazia,
negoziando con Iran e Siria per stabilizzare l'area ormai in fiamme,
mediante la suddivisione dell'Iraq in tre entità federate,
rispondenti ad altrettante aree d'influenza.
Non casualmente, Bush e il regime iraniano sono stati gli unici ad aver
manifestato compiacimento per l'uccisione di Saddam Hussein e, non a
caso, le sue ultime parole sono state anche un invito agli iracheni di
restare uniti contro "la coalizione iraniana".
Se in Iraq, il petrolio è stato il principale carburante della
guerra, potrebbe infatti rivelarsi elemento strategico anche per una
simile ipotesi di "pace".
A chi infatti segue e osserva l'andamento delle dinamiche belliche di
pacificazione, salta agli occhi come le linee delle divisioni etniche
tribali ricalcano con tutta evidenza i confini delle mappe delle
risorse petrolifere: "A Nord i bagliori all'orizzonte di Kirkuk
indicano qual è il bottino della città, ferocemente
contesa tra kurdi, arabi e turcomanni, che produceva un terzo dell'oro
nero iracheno. A Sud gli sciiti affondano i piedi nel 60% delle riserve
mentre ai sunniti, spodestati dalla fine del regime, restano le
pipeline che attraversano il Paese, uno degli obiettivi della
guerriglia''.
Tale realtà risulta così significativa che la possibile
spartizione delle entrate petrolifere tra curdi, sunniti e sciiti,
è l'unica prospettiva per definire un assetto politico
territoriale che metta fine sia al clima di guerra civile che alla
guerra contro gli occupanti.
Al momento la cosa non appare ancora priva di difficoltà. I
curdi accetterebbero la logica ripartitoria dei proventi su scala
nazionale, così come sostenuto unitamente da sciiti e sunniti,
ma temono che un governo a maggioranza sciita possa decidere contratti
e investimenti favorendo le "loro" aree meridionali; per questo lo
stesso ministro dell'Energia, Hussain al Shahristani, ha anticipato una
legge che dovrebbe stabilire un'equa divisione tra le varie componenti
etnico-politiche dei proventi da petrolio e gas.
D'altra parte, le compagnie petrolifere premono in tal senso, dopo che
da un ventennio sono impossibilitate ad operare in Iraq, dove si parla
di riserve accertate per 115 miliardi di barili, mentre dalla caduta
del regime di Saddam Hussein la produzione è scesa del 15% (2
milioni di barili al giorno) con esportazioni intorno a un milione e
mezzo, molto distanti dagli obiettivi sognati a Washington che miravano
ad estrarre 6 milioni di barili, recuperare le ingenti spese militari e
trasformare l'Iraq la principale fonte del Medio Oriente.
Per questo - paradosso dei tempi - proprio mentre il movimento no-war
sembra uscito dalle scene internazionali, si scopre il pacifismo
interessato di chi volle la guerra.
KAS