Umanità Nova, n.1 del 14 gennaio 2007, anno 87

Iraq
Un patibolo per la pace

 
La spettacolare esecuzione di Saddam Hussein ha indubbiamente provocato molte reazioni e interrogativi sul piano emotivo, politico e persino etico. Sicuramente, il dittatore di Baghdad si è portato nella tomba molti segreti scomodi per gli ex-alleati di Washington; basti pensare agli armamenti, impiegati per massacrare iraniani, curdi e sciiti, che negli anni '80 erano stati forniti al regime iracheno dagli Stati Uniti e da altre nazioni occidentali, non ultima la stessa Italia, così come denunciato anche da Robert Fisk, inviato di guerra dell'Independent.
Eppure, senza negare tale importante aspetto della vicenda, è generalmente sfuggito che la liquidazione di Saddam Hussein altro non è che un tassello nella costruzione della "pacificazione" in Iraq e, allo stesso tempo, un macabro pegno offerto alla dirigenza sciita.
Ma tentiamo di comporre il puzzle, un pezzo per volta.

''NON STIAMO VINCENDO...''
Per la prima volta, lo scorso 20 dicembre, George Bush intervistato dal Washington Post, ha fatto sua la formula da tempo usata dai vertici militari statunitensi, compreso il neo ministro alla Difesa Robert Gates, descrivendo in termini meno trionfalistici la situazione in Iraq: "Non stiamo vincendo, non stiamo perdendo".
Ogni settimana, le forze statunitensi subiscono una media di quasi mille attacchi (960 per l'esattezza): ormai è lo stesso Pentagono ad ammetterlo. La maggior parte di questi attacchi proviene dalle milizie radicali sciite e, in particolare, da quelle facenti capo al cosiddetto Esercito del Mahdi di Moqtada al-Sadr, ritenute "responsabili di un maggior numero di vittime civili rispetto a quelle causate dalle organizzazioni terroristiche".
Detto questo, i leader radicali sciiti restano a tutt'oggi i più importanti pilastri su cui si regge il governo del premier al Maliki; infatti, sin dai tempi dell'amministrazione provvisoria retta da Brenner, i vertici statunitensi hanno favorito la stabilizzazione di una leadership sciita, ma allo stesso tempo non emanazione del regime iraniano, anch'esso d'osservanza sciita. Tale obiettivo si sta scontrando però con l'opposizione in armi sia dello Sciri (il Consiglio supremo della rivoluzione islamica, storicamente legato a Teheran) con le brigate Badr di al Hakim, fortemente intrecciate con l'apparato poliziesco governativo, sia dell'Esercito del Mahdi che, nonostante la sua appartenenza sciita, ha stretto un'intesa in funzione antiamericana anche con forze sunnite combattenti in nome di Saddam Hussein.
Bastano quindi queste poche informazioni per intuire come l'esecuzione di Saddam Hussein, firmata dal primo ministro nonché leader del partito sciita del Dawa, Nouri al Maliki, ed eseguita da boia incappucciati inneggianti a Moqtada risponda perfettamente allo scopo, da un lato, di ingraziarsi gli oltranzisti sciiti e, dall'altro, di minare le alleanze tattiche tra sciiti e sunniti sostenitori del passato regime, alimentando invece la guerra civile.

CARNE DA MACELLO
La guerra in Iraq continua a divampare, seminando quotidianamente la morte tra i civili, ma anche fra gli occupanti: all'inizio di gennaio il totale dei caduti tra le forze statunitensi, secondo le ammissioni dei comandi, ha raggiunto la cifra di 3.000; se l'andamento delle perdite, almeno riferendosi a quelle ufficiali, continuasse con i ritmi attuali, restare sino al 2008, per gli Usa significherebbe contare almeno altre 1.000 bare.
Nonostante il crescente numero di perdite tra i militari Usa, gli strateghi dello stato maggiore interforze e gli esperti di bilancio della Casa Bianca stanno studiando il modo per rafforzare le presenza militare Usa in Iraq che, attualmente, assomma a 134 mila unità. Bush avrebbe richiesto ulteriori 50 mila soldati, ma probabilmente lo stato della finanze statunitensi non potrà trovare stanziamenti per oltre 20-30 mila, dato che il costo della guerra solo nel 2006 ha raggiunto i 110 miliardi di dollari.
Il capo dello stato maggiore dell'esercito americano, generale Peter Schoomaker, ha richiesto al Congresso almeno 56 miliardi di dollari e ulteriori arruolamenti, rendendo definitivo l'incremento di 25.000 effettivi deciso dal 2001 e continuando a chiamare alle armi 7.000 unità all'anno.
Si parla anche con insistenza della necessità di ripristinare il servizio di leva obbligatorio, ma tale decisione finirebbe, inevitabilmente, per allargare il dissenso interno antimilitarista, così come accadde ai tempi del Vietnam, tanto più che già oggi si contano oltre 5.000 diserzioni tra gli stessi militari di professione.
Il rapporto Baker-Hamilton, da parte sua, nel consigliare a Bush un cambio di rotta nella politica Usa in Iraq è stato alquanto chiaro, pur senza suonare ancora la ritirata. Tale rapporto, riprendendo le considerazioni di John Chipman, direttore dell'Istituto Studi Strategici, ritiene il governo iracheno con le sue forze armate non in grado di contenere l'insurrezione; quindi viene chiesto un aumento del numero di soldati Usa destinati all'addestramento dell'esercito nazionale, ma è stato escluso l'invio di ulteriori 100 mila combattenti, ed anzi si propone un graduale rimpatrio delle truppe Usa a partire dal primo trimestre del 2008.

FEDERALISMO PETROLIFERO
L'alternativa all'attuale stato di guerra (o la sua classica continuazione politica), sarebbe il rilancio della diplomazia, negoziando con Iran e Siria per stabilizzare l'area ormai in fiamme, mediante la suddivisione dell'Iraq in tre entità federate, rispondenti ad altrettante aree d'influenza.
Non casualmente, Bush e il regime iraniano sono stati gli unici ad aver manifestato compiacimento per l'uccisione di Saddam Hussein e, non a caso, le sue ultime parole sono state anche un invito agli iracheni di restare uniti contro "la coalizione iraniana".
Se in Iraq, il petrolio è stato il principale carburante della guerra, potrebbe infatti rivelarsi elemento strategico anche per una simile ipotesi di "pace".
A chi infatti segue e osserva l'andamento delle dinamiche belliche di pacificazione, salta agli occhi come le linee delle divisioni etniche tribali ricalcano con tutta evidenza i confini delle mappe delle risorse petrolifere: "A Nord i bagliori all'orizzonte di Kirkuk indicano qual è il bottino della città, ferocemente contesa tra kurdi, arabi e turcomanni, che produceva un terzo dell'oro nero iracheno. A Sud gli sciiti affondano i piedi nel 60% delle riserve mentre ai sunniti, spodestati dalla fine del regime, restano le pipeline che attraversano il Paese, uno degli obiettivi della guerriglia''.
Tale realtà risulta così significativa che la possibile spartizione delle entrate petrolifere tra curdi, sunniti e sciiti, è l'unica prospettiva per definire un assetto politico territoriale che metta fine sia al clima di guerra civile che alla guerra contro gli occupanti.
Al momento la cosa non appare ancora priva di difficoltà. I curdi accetterebbero la logica ripartitoria dei proventi su scala nazionale, così come sostenuto unitamente da sciiti e sunniti, ma temono che un governo a maggioranza sciita possa decidere contratti e investimenti favorendo le "loro" aree meridionali; per questo lo stesso ministro dell'Energia, Hussain al Shahristani, ha anticipato una legge che dovrebbe stabilire un'equa divisione tra le varie componenti etnico-politiche dei proventi da petrolio e gas.
D'altra parte, le compagnie petrolifere premono in tal senso, dopo che da un ventennio sono impossibilitate ad operare in Iraq, dove si parla di riserve accertate per 115 miliardi di barili, mentre dalla caduta del regime di Saddam Hussein la produzione è scesa del 15% (2 milioni di barili al giorno) con esportazioni intorno a un milione e mezzo, molto distanti dagli obiettivi sognati a Washington che miravano ad estrarre 6 milioni di barili, recuperare le ingenti spese militari e trasformare l'Iraq la principale fonte del Medio Oriente.
Per questo - paradosso dei tempi - proprio mentre il movimento no-war sembra uscito dalle scene internazionali, si scopre il pacifismo interessato di chi volle la guerra.

KAS

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