Goffredo Fofi, Da pochi a pochi. Appunti di sopravvivenza, Elèuthera, Milano 2006, pp. 15I
È il titolo stesso a proclamarlo: si tratta di un libro per
pochi. Meglio: così pochi che necessitano d'altri pochi
affinché ciò che fra loro vien detto non sia un semplice
comunicare, ma un condividere esperienze. Esperienze che Goffredo Fofi
ha maturato nel corso del tempo – "cercando di resistere allo
spirito del tempo" – attraverso la specialità della sua
professione di critico letterario e cinematografico: fondare riviste al
fine di "riuscire a far scrivere le cose giuste alle persone giuste e
al momento giusto".
A tutta prima il libro si presenta come un florilegio di scritti che
l'autore ha pubblicato su riviste e giornali in stesure diverse e
più affrettate; pure si tradirebbe lo spirito con cui è
stato pensato il libro: uno spazio dove racchiudere non grandi teorie e
neppure analisi importanti, semplicemente "degli sfoghi, delle domande
a cui si cerca di dare faticosamente risposta, talvolta delle
indignazioni.". Allora diamo sfogo a queste domande, ad incominciare
dalla più inquietante: perché siamo diventati tutti
così stupidi?
Certo: ciò non significa che prima, "ieri", non eravamo stupidi
o lo eravamo soltanto un po' meno. La mutazione, come sostiene Fofi,
rimarcando il pensiero pasoliniano, è avvenuta quando in Italia
ci si è sbarazzati dei valori ancestrali, contadini, della
nostra società, abbagliati dallo sviluppo economico che –
liberandoci dalle ristrettezze, dalle miserie, dalle ignoranze –
ci ha permesso di istruirci (imparando l'italiano televisivo) e di
essere felici (consumando e non pensando). Uno sviluppo, però,
senza progresso; a meno di non considerare progresso il fatto di
esserci sociologicamente trasformati da individui a consumatori
(meglio: utenti). O detto à la Fofi: da proletari scontenti a
schiavi felici.
Pure, rispetto a "ieri" , non sembra esser cambiato gran ché nel
quadro della "produzione degli stupidi". Ma è proprio qui che
– secondo Fofi – ci si sbaglia, poiché "si assiste
oggi nei media e altrove (per esempio nelle scuole e nelle
università) a un salto di qualità: parafrasando Sraffa,
alla 'produzione di stupidi per mezzo di stupidi'" (p.108). Del resto
in un'Italia per niente "aristocratica" e per niente "popolana", non
può che prevalere la mediocrità e i mediocri di una
classe politica "che dice A e fa B e pensa C". Perché la
politica non è più un progetto, una tensione verso il
futuro, ma semplicemente un'occupazione del "centro", campo di
battaglia di interessi privati, lobby, sindacati, gruppi di potere
palesi e gruppi di potere nascosti. Di Destra, e di Sinistra.
Il vero problema, sostiene rammaricato l'autore, è che questa
osmosi del tutti-dentro e del tutti-verso-il-centro si dimostra
vincente poiché nessuno vuole più essere minoranza;
neppure le minoranze stesse (quello che un tempo si chiamava
volontariato, terzo settore), poiché "tutti hanno qualcosa da
chiedere alla mamma-potere, alla mamma-politica che in cambio chiede
loro moltissimo, con il risultato di un paese sfibrato, privo di
minoranze robuste per quanto piccole e dotate di un'identità
originale e forte, estranea al pastone collettivo del reciproco
riconoscimento e delle prebende" (p.140).
Ma allora, in questo inferno che è il mondo, non è
più possibile riconoscere ciò che inferno non è?
Se le menti migliori della nostra generazione – per dirla con
Ginsberg – non hanno sciolto il loro cervello in droga ma in
sottogoverno, sottopotere, servizio al potere? Se l'opportunismo
rampante di coloro che aspirano ad incidere sui processi di
trasformazione sociale li conduce a preferire il "quasi centro" dove
finiscono per dimenticarsi di chi è ai margini della
società, sovrapponendo ad essi la "falsa coscienza di integrati
e le loro astuzie di mediatori, di produttori di tranquillità
per conto terzi"? Se tutti – per farla breve – vogliono
sentirsi "vincenti"?
Forse è ancora possibile. Ma è faccenda di pochi. Di
coloro che sono sì "perdenti", ma perché hanno scelto di
non gareggiare, di dire "non ci sto", "non accetto"; non certo per
rimanere fuori dalla mischia, in un rifiuto totale, perché
rifiuto totale non esiste, se non nel suicidio. Al contrario, bisogna
comunque dire sì alla vita, vivendo in questo mondo "a cui non
ci si può adattare e a cui non si può rinunciare", con il
presupposto – rincalza Goffredo Fofi – di farsi lucidamente
perdenti, "cercando, con i poveri mezzi di cui si dispone, di trovare,
di proporre, di imporre, altre strade per l'opposizione, con regole del
gioco che non siano le stesse del nemico". Da pochi a pochi, per
l'appunto.
gianfranco marelli