Umanità Nova, n.1 del 14 gennaio 2007, anno 87

Letture
Da pochi a pochi. Appunti di sopravvivenza

 
Goffredo Fofi, Da pochi a pochi. Appunti di sopravvivenza, Elèuthera, Milano 2006, pp. 15I

È il titolo stesso a proclamarlo: si tratta di un libro per pochi. Meglio: così pochi che necessitano d'altri pochi affinché ciò che fra loro vien detto non sia un semplice comunicare, ma un condividere esperienze. Esperienze che Goffredo Fofi ha maturato nel corso del tempo – "cercando di resistere allo spirito del tempo" – attraverso la specialità della sua professione di critico letterario e cinematografico: fondare riviste al fine di "riuscire a far scrivere le cose giuste alle persone giuste e al momento giusto".
A tutta prima il libro si presenta come un florilegio di scritti che l'autore ha pubblicato su riviste e giornali in stesure diverse e più affrettate; pure si tradirebbe lo spirito con cui è stato pensato il libro: uno spazio dove racchiudere non grandi teorie e neppure analisi importanti, semplicemente "degli sfoghi, delle domande a cui si cerca di dare faticosamente risposta, talvolta delle indignazioni.". Allora diamo sfogo a queste domande, ad incominciare dalla più inquietante: perché siamo diventati tutti così stupidi?
Certo: ciò non significa che prima, "ieri", non eravamo stupidi o lo eravamo soltanto un po' meno. La mutazione, come sostiene Fofi, rimarcando il pensiero pasoliniano, è avvenuta quando in Italia ci si è sbarazzati dei valori ancestrali, contadini, della nostra società, abbagliati dallo sviluppo economico che – liberandoci dalle ristrettezze, dalle miserie, dalle ignoranze – ci ha permesso di istruirci (imparando l'italiano televisivo) e di essere felici (consumando e non pensando). Uno sviluppo, però, senza progresso; a meno di non considerare progresso il fatto di esserci sociologicamente trasformati da individui a consumatori (meglio: utenti). O detto à la Fofi: da proletari scontenti a schiavi felici.
Pure, rispetto a "ieri" , non sembra esser cambiato gran ché nel quadro della "produzione degli stupidi". Ma è proprio qui che – secondo Fofi – ci si sbaglia, poiché "si assiste oggi nei media e altrove (per esempio nelle scuole e nelle università) a un salto di qualità: parafrasando Sraffa, alla 'produzione di stupidi per mezzo di stupidi'" (p.108). Del resto in un'Italia per niente "aristocratica" e per niente "popolana", non può che prevalere la mediocrità e i mediocri di una classe politica "che dice A e fa B e pensa C". Perché la politica non è più un progetto, una tensione verso il futuro, ma semplicemente un'occupazione del "centro", campo di battaglia di interessi privati, lobby, sindacati, gruppi di potere palesi e gruppi di potere nascosti. Di Destra, e di Sinistra.
Il vero problema, sostiene rammaricato l'autore, è che questa osmosi del tutti-dentro e del tutti-verso-il-centro si dimostra vincente poiché nessuno vuole più essere minoranza; neppure le minoranze stesse (quello che un tempo si chiamava volontariato, terzo settore), poiché "tutti hanno qualcosa da chiedere alla mamma-potere, alla mamma-politica che in cambio chiede loro moltissimo, con il risultato di un paese sfibrato, privo di minoranze robuste per quanto piccole e dotate di un'identità originale e forte, estranea al pastone collettivo del reciproco riconoscimento e delle prebende" (p.140).
Ma allora, in questo inferno che è il mondo, non è più possibile riconoscere ciò che inferno non è? Se le menti migliori della nostra generazione – per dirla con Ginsberg – non hanno sciolto il loro cervello in droga ma in sottogoverno, sottopotere, servizio al potere? Se l'opportunismo rampante di coloro che aspirano ad incidere sui processi di trasformazione sociale li conduce a preferire il "quasi centro" dove finiscono per dimenticarsi di chi è ai margini della società, sovrapponendo ad essi la "falsa coscienza di integrati e le loro astuzie di mediatori, di produttori di tranquillità per conto terzi"? Se tutti – per farla breve – vogliono sentirsi "vincenti"?
Forse è ancora possibile. Ma è faccenda di pochi. Di coloro che sono sì "perdenti", ma perché hanno scelto di non gareggiare, di dire "non ci sto", "non accetto"; non certo per rimanere fuori dalla mischia, in un rifiuto totale, perché rifiuto totale non esiste, se non nel suicidio. Al contrario, bisogna comunque dire sì alla vita, vivendo in questo mondo "a cui non ci si può adattare e a cui non si può rinunciare", con il presupposto – rincalza Goffredo Fofi – di farsi lucidamente perdenti, "cercando, con i poveri mezzi di cui si dispone, di trovare, di proporre, di imporre, altre strade per l'opposizione, con regole del gioco che non siano le stesse del nemico". Da pochi a pochi, per l'appunto. 

gianfranco marelli

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