La morte sul lavoro, morire sul lavoro, fa parte della nostra
quotidianità, se le statistiche ci dicono che nel nostro paese,
nel triennio 2003-2005, ci sono stati 1.328 morti in media all'anno,
cioè tre al giorno. Ma nelle statistiche troviamo anche il
numero degli infortuni annui, quasi 1.200.000 tra quelli denunciati e
quelli non denunciati; oppure dei morti per malattie professionali, 300
all'anno. Le conseguenze degli infortuni possono essere lievi o
gravissime (paraplegia, perdita di arti, ecc.) e finiscono nella stessa
contabilità. Ora, sarebbe arduo negare che queste sono cifre da
conflitto bellico. Conflitto che va analizzato in tutte le sue
componenti. In primo luogo, ci sono settori produttivi dove è
altissima l'incidenza di infortuni, altri dove è bassissima. Tra
i lavoratori subordinati ci sono abissi, in termini di condizioni di
lavoro e sicurezza: il settore edile e l'autotrasporto, sono quelli
dove più alto è il numero di infortuni e di morti; segue
l'industria, mentre nel terziario e nei servizi i rischi sono minimi.
Non è solo questione dell'intrinseca pericolosità di
certe attività lavorative. La polverizzazione delle imprese e
gli appalti a cascata sono la maggior ragione a base della
pericolosità del settore edile: microaziende di due-tre addetti
che a prezzi stracciati assumono lo svolgimento di pezzi di appalto e
magari ne girano persino una parte al singolo artigiano/partita IVA/di
fatto dipendente. Nell'autotrasporto, gli autisti sono sottoposti a
turni di guida massacranti per star dentro ai tempi di consegna delle
merci e spesso la loro morte non entra a far parte delle statistiche
degli infortuni perché considerati tra i normali incidenti
stradali. Incidenti che spesso e volentieri sono causati dalla troppa
stanchezza di autisti di TIR che perdono il controllo del loro mezzo.
Ma non c'è solo questo. Mentre le grandi aziende sono più
facilmente controllabili, le microaziende edili o i piccoli laboratori
sparsi sul territorio sono meno visibili ed in essi è
praticamente impossibile che entri il sindacato. Meno controlli e meno
spese per la sicurezza da parte del padrone significa scaricare il
costo della sicurezza sulla vita dei lavoratori e sulla società
(secondo l'INAIL il costo della mancata prevenzione è di 41
miliardi di euro l'anno, pari al 3% del PIL).
Il fatto è che non è possibile ridurre la questione della
sicurezza sul lavoro ad un problema di prevenzione. Questa è
assolutamente fondamentale, ci mancherebbe. Ma dobbiamo dirci che
l'esposizione della vita e dell'incolumità fisica del lavoratore
al pericolo è una componente di quella subordinazione che lega
il lavoro vivo al capitale. E la morte o l'infortunio sul lavoro sono
l'icona della trasformazione del lavoro vivo in lavoro morto e quindi
capitale, nel senso che il lavoratore qui muore davvero, non è
solo la sua forza lavoro che si astrattizza. Nella morte sul lavoro si
cristallizza una condizione che è la normale vita quotidiana dei
subordinati. Allora è questo il nodo. Lo sfruttamento e la
massimizzazione del profitto sono la legge del capitale e la vendita
del tempo di vita che i subordinati sono costretti a fare in cambio del
salario ha come massima espressione la perdita della vita stessa. Di
tutta la vita, in un colpo solo. Anziché perderla, giorno dopo
giorno, nello scambio con il capitale. Non è sufficiente,
quindi, agire aumentando la prevenzione sui posti di lavoro. È
cosa sacrosanta, va bene. Ma è solo rompendo il meccanismo dello
scambio lavoro vivo/capitale che è possibile negare
l'esposizione al pericolo, coessenziale alla subordinazione, e
riappropriarsi del proprio tempo e del proprio corpo.
W.B.