Fra i tanti avvenimenti che hanno contraddistinto la storia
dell'umanità, alcuni dei più ricorrenti e drammatici
vanno riferiti agli esodi forzati che hanno avuto per protagonisti
milioni e milioni di individui, costretti a lasciare i loro rispettivi
paesi d'origine per motivi politici, etnici e religiosi. Ancora oggi,
la frequenza con cui scoppiano i conflitti in molte aree del mondo
costringe migliaia di persone a fuggire. Perdere la casa, la famiglia,
tutto ma restare vivi. Scappare da guerre, violenze e persecuzioni e
arrivare in un paese straniero. In Italia, dopo aver cercato scampo
dalle rovine e dalle catastrofi della guerra, molti profughi restano in
una condizione assolutamente precaria, andando anch'essi incontro a una
clandestinizzazione forzata e provocata dalle normative vigenti.
Nel 2005 sono state presentate 9.350 domande. Nel 2006 i numeri sono
rimasti invariati, anche se non ancora ufficiali. Si tratta di un
progressivo crollo: negli ultimi 5 anni si è registrato un calo
del 40% della presentazione delle domande di asilo nel mondo,
percentuale che sale al 46% in Europa (ad eccezione dei nuovi stati
membri). I rifugiati nel nostro paese sono circa 20 mila. Ma a fronte
di numeri così piccoli, la questione dell'accoglienza rimane un
tabù.
Per i richiedenti asilo che non possono vantare un'adeguata rete di
relazioni e di sostegno (in buona sostanza la maggior parte di loro) i
tempi sono molto incerti e, soprattutto, chi entra illegalmente deve
passare da un centro di identificazione, una variante del Centro di
permanenza temporanea, nel quale l'immigrato è costretto a
restare in attesa del pronunciamento della Commissione competente per
territorio a rilasciare il permesso di soggiorno per motivi umanitari o
il vero e proprio status di rifugiato. Ma l'esperienza ci dice che
questi centri d'identificazione costituiscono delle zone grigie usate a
discrezione delle prefetture come surrogati dei CPT. Vale la pena
ricordare che in Italia manca una legge organica sul diritto d'asilo e
questa lacuna viene in qualche modo tamponata da un sistema di
accoglienza per i rifugiati e i richiedenti asilo basato sulla
capacità di integrare risorse provenienti da fondi diversi
(nazionali e europei) e sulla collaborazione tra associazioni, enti
locali e stato centrale. Questo Sistema nazionale per la protezione dei
rifugiati (Sprar) funziona a macchia di leopardo e con
discontinuità soprattutto per la mancata erogazione di fondi che
richiedono anche una certa puntualità. Nel 2005 quasi il 70% dei
beneficiari (su un totale di 4.564 persone) erano africani,
prevalentemente somali, etiopi e eritrei, mentre il 17,6% proveniva
dall'Europa orientale. Seguivano Asia (12,4%) e America Latina. Chi
riesce ad accaparrarsi un posto, non trova soltanto vitto e alloggio,
ma spesso servizi integrati, che vanno dall'orientamento legale,
all'inserimento scolastico dei minori, all'inserimento lavorativo e
alla formazione. Nel 2005 il 51% è stato dimesso dal progetto
Sprar dopo aver raggiunto un sufficiente grado di integrazione, il 22%
se ne è andato volontariamente (spesso per spostarsi in altri
territori), mentre il 19,9% se ne è andato per scadenza dei
termini. In un centro dello Sprar si può stare, infatti, per sei
mesi al massimo. E non tutti riescono a trovare casa, lavoro e a
imparare la lingua in così poco tempo.
Bisogna sempre tenere presente che accedono ai servizi solo quei pochi
fortunati che si vedono riconosciuta la domanda di asilo. Le
Commissioni territoriali infatti attuano procedure di identificazione e
di controllo che in più dell'80% dei casi danno esiti negativi a
causa della difficoltà che hanno gli immigrati di portare
documentazioni e prove inoppugnabili. Il principio da cui si parte per
il conferimento dello status di rifugiato è la valutazione della
condizione strettamente personale e difficilmente si ha
un'interpretazione "estensiva" del pericolo di persecuzione nel proprio
paese. Inoltre, il dibattito è piuttosto acceso anche sulla
definizione stessa di rifugiato. Per molti, infatti, anche la semplice
precarietà economica sofferta da chi proviene da un paese in via
di sviluppo può essere considerata di per sé motivo di
fuga. Ciò implicherebbe un allargamento del ventaglio di
soggetti che a buon diritto potrebbero avanzare richiesta di asilo e,
ovviamente, i legislatori italiani ed europei non sembrano voler
recepire questo approccio per non pregiudicare gli interessi che stanno
dietro alla chiusura delle frontiere. L'immigrato che riceve il diniego
della propria richiesta di asilo può sicuramente fare ricorso,
ma i tempi sono sufficientemente lunghi da farlo piombare nella
clandestinità e, dunque, nelle maglie della repressione
istituzionale fatta di CPT, espulsioni e deportazioni.
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