Ormai, per noi con i capelli grigi, non è certamente una
novità. Ma non riusciamo comunque ad abituarci, e soprattutto a
rassegnarci. Ancora una volta un organo dello Stato, la magistratura,
assolve vergognosamente un altro organo dello Stato, il corpo militare,
in nome della ragion di Stato e del sacro principio che lo Stato non
condanna, né può condannare se stesso. E ancora una volta
per una delle più gravi tragedie che abbia colpito l'Italia
repubblicana, in questo caso l'abbattimento, in tempo di pace, di un
aereo civile sul cielo di Ustica, non solo non si trovano colpevoli e
fiancheggiatori, ma si offendono, volutamente e cinicamente, le vittime
innocenti, i loro famigliari e quanti ancora credono che il senso della
giustizia debba avere diritto di cittadinanza in un paese che pretende
di definirsi civile.
Come si sa, il 27 giugno 1980, la bellezza di 27 anni orsono, un DC9
dell'Itavia proveniente da Bologna e diretto a Palermo precipitava in
mare causando la morte di 81 persone, fra equipaggio e passeggeri. Tra
questi 13 bambini. Frettolosamente attribuito a un cedimento
strutturale (cosa che fra le tante conseguenze portò al
fallimento dell'incolpevole compagnia aerea), l'incidente sembrava
ormai chiuso, se non fosse stato che una serie di circostanze, e
soprattutto la tenacia dei famigliari delle vittime e di alcuni
giornalisti, riuscì a impedire che prevalesse la ragion di stato
e ad imporre nuove indagini.
Erano anni, quelli, nei quali una forte e diffusa coscienza civile,
allenata a non credere alle verità ufficiali sulle innumerevoli
stragi di stato che venivano continuamente smascherate da un lavoro di
controinformazione serrato ed efficace, creò attorno alla
Associazione dei Famigliari delle vittime di Ustica una fitta trama di
solidarietà popolare, in grado, a tratti, di sfiorare anche
pezzi di istituzioni. Solidarietà che consentì ai parenti
di non cedere alla rassegnazione ma di intraprendere un tenace percorso
di denuncia e informazione che permise, anche se faticosamente e a
bocconi, di arrivare alla verità. Non certo alla verità
dei tribunali o a quella "ufficiale" del governo, ma a quella che
descriveva con esattezza la dinamica della tragedia: una battaglia in
piena regola tra aerei della Nato, americani e francesi, e Mig libici
per intercettare un aereo di linea sul quale si supponeva viaggiasse
Gheddafi, allora principale nemico del libero occidente. Il DC9,
seguendo correttamente la propria rotta, commise l'errore di
"disturbare" le manovre di quei miserabili top-gun, e un missile
(l'unica incertezza rimasta è se fosse americano o francese)
tolse di mezzo l'incomodo. E pazienza per le vittime civili!
Come è facile immaginare, nessuno degli organi militari preposti
al controllo delle rotte aeree e alla sicurezza dei cieli italiani,
c'era. E se c'era dormiva. Dovevano dormire infatti i radaristi delle
varie stazioni radio, dovevano dormire gli ufficiali dell'aeronautica
responsabili di queste stazioni, dovevano dormire i generali e i capi
di Stato maggiore responsabili dei loro sottoposti, dovevano dormire
gli organismi parlamentari di controllo sulle attività militari,
dovevano dormire, infine, governo e ministri. Tutti, dal primo
all'ultimo di questa infame catena, mostravano, di fronte alle denunce
sempre più articolate e incontrovertibili, di cadere
letteralmente dalle nuvole. Insomma, un'ammucchiata di anime candide
preoccupate che un sonno collettivo facilitasse, così, il sonno
della verità.
Dicevamo che solo la tenacia dell'Associazione dei famigliari delle
vittime - e in particolare quella del suo presidente Daria Bonfietti
che nella tragedia ha perso il fratello e che da allora conduce una
coraggiosa battaglia di denuncia civile – ha impedito il
seppellimento della memoria non solo riportando continuamente
all'attenzione delle coscienze il ricordo della tragedia ma anche
svelando, una volta di più, i meschini e criminali meccanismi
messi in atto dai più alti vertici civili e militari per
preservare la ragion di Stato. È poca cosa, ma è pur
sempre una piccola consolazione, pensare che i ritardi cronici di una
magistratura che, salvo rare eccezioni, ha indolentemente portato
avanti processi per decenni, hanno, se non altro, impedito ai
responsabili dei depistaggi delle menzogne di Stato di dormire
finalmente sonni tranquilli. O almeno così speriamo.
Oggi, infatti, con la sentenza della Cassazione che assolve
definitivamente i vertici dell'aeronautica militare, gli ultimi
imputati di "attentato contro organi costituzionali", equivalente
all'alto tradimento, la partita, per quanto riguarda le loro
responsabilità di depistaggio e insabbiamento, sembra essersi
definitivamente chiusa. Opportunamente derubricato dal governo
Berlusconi tale reato a semplice turbativa, qualora non commesso con
violenza - e la menzogna non può essere considerata atto
violento – la logica conclusione di questa lunga catena di
vergognose menzogne è un'assoluzione perché il fatto non
sussiste. E in effetti, ci mancherebbe anche che la ragion di stato
fosse un reato perseguibile dal primo giudice che gli saltasse in mente
di farlo!
Ha ragione la presidentessa dell'Associazione dei famigliari delle
vittime quando afferma che "Ustica è un grande problema di
dignità nazionale con il quale dobbiamo continuare a fare i
conti". E infatti con questa tragedia, come con tutte le altre
irrisolte tragedie italiane che hanno visto lo Stato o protagonista, o
complice, o passivo osservatore, dobbiamo continuare a fare i conti.
Per inchiodare i responsabili alle loro colpe, per denunciare la natura
profondamente criminale della cosiddetta "ragion" di Stato. Anche
perché il reato di strage, almeno quello, non può cadere
in prescrizione né può essere "un fatto che non sussiste".
Massimo Ortalli