La partita che si gioca a Vicenza ha una posta alta. Altissima. Una
città ha detto no, ha detto no al ruolo di portaerei per le
guerre che oggi insanguinano l'Iraq e l'Afganistan, ieri erano i
Balcani, domani, chi sa? L'Iran. Un no forte, forse inaspettato. Certo
capace di scompaginare gli equilibri di un governo il cui programma
base è l'ipocrisia elevata a sistema di relazione, il governo
del forse, del domani, della guerra e della pace, della pace che sa di
guerra e della guerra che si veste arcobaleno.
Il governo sa che se non doma Vicenza potrebbe non controllare i molti
luoghi dove tanti esigono di riscuotere il credito elettorale dato lo
scorso anno. La delega in bianco, il triste rito della democrazia, che
ogni cinque anni finge la partecipazione, presenta delle crepe. Crepe
pericolose per chi siede in parlamento, sia che stia nei banchi della
maggioranza sia in quelli dell'opposizione. Sono crepe che mettono in
discussione un intero sistema, non una singola compagine governativa.
Berlusconi lo scorso anno in Val Susa lo capì benissimo e, dopo
la rivolta, ritirò le sue truppe e le sue trivelle e
mollò la patata bollente al suo successore.
Oggi Prodi si trova di fronte un problema più difficile.
Perché il raddoppio della base USA di Vicenza non è solo
questione di lucrosissimi affari per i soliti amici degli amici, ma
investe le scelte di politica estera dell'intero paese. Un paese che,
sebbene si comporti come se così non fosse, dopo la sconfitta
nella seconda guerra mondiale è stato costretto ad accettare la
presenza di truppe statunitensi sul proprio territorio. Che fanno
quello che meglio gli aggrada. Senza troppi complimenti, come ogni
truppa d'occupazione che si rispetti. Chi può dimenticare che il
pilota che uccise una ventina di persone tranciando con il suo aereo i
cavi della funivia del Cermis ha goduto della stessa impunità di
cui godono i macellai di ogni guerra guerreggiata? Solo chi perde paga
pegno: una corda per Saddam, probabilmente un veleno discreto per
Milosevic.
Prodi non può permettersi di pestare i piedi troppo vistosamente
all'ingombrante ed arrogante alleato di oltreoceano. Ma non può
neppure permettersi di fare di Vicenza una Valsusa. Le contorsioni
della cosiddetta "sinistra radicale" al momento paiono solo giochi di
ruolo, nonostante l'indubbio malessere di alcuni settori del PRC. Il
vero problema è il protagonismo popolare, un protagonismo che
è esploso e non pare accennare a fermarsi, rompendo gli schemi e
gli schieramenti, mettendo in campo un desiderio e una pratica di
autonomia che si esprime nei comitati, nelle assemblee, nel presidio
permanente, in un farsi della politica che è immediatamente
decisionale, alieno alla mediazione istituzionale. Sovversivo. Poche
balle.
Il governo tra scoccando le frecce del suo arco: criminalizzazione
preventiva a mezzo stampa, utilizzo degli apparati sindacali amici per
spezzare alla base il fronte degli oppositori. Frecce spuntate
perché il movimento le ha sinora schivate. È probabile
che, dopo la manifestazione del 17, la tattica sia quella del
logoramento e, prima o poi, l'uso, magari moderato, della forza.
Tuttavia in questi anni i movimenti popolari hanno dimostrato una
discreta capacità di resistere. Il presidio permanente non
è una fortezza assediata ma luogo della politica, della
città che ridisegna il suo spazio pubblico, un luogo di
socialità ed incontro. Un posto dove resistere è
esistere.
Intanto gli stadi, luogo dell'impolitica, recinto di una violenza che
imita la guerra, circo massimo per le marionette di una rivolta da
palcoscenico – anche se il sangue è vero - hanno messo la
sordina alla questione del raddoppio della base di Vicenza.
Spetta a noi tutti dimostrare che le cortine fumogene non servono: il
17 saremo in tanti a attraversare in corteo Vicenza, a dire no alla
guerra, al militarismo, ad ogni esercito qualunque sia la sua bandiera.
Sarà un'occasione importante. Ma non per il Palazzo e per i suoi
equilibri, per gli inevitabili tentativi di inventare un compromesso,
una "compensazione". Il 17 sarà importante perché la
gente di lì sappia che ci siamo.
Un giorno, forse tra un mese, forse tra molti, arriveranno le ruspe e
le truppe. Quel giorno in ogni dove saremo tutti vicentini: in piazza,
di traverso per le strade e sui binari, in sciopero e in lotta.
Una robusta tela solidale si sta tessendo per la penisola.
Sarà dura. Ma non solo per noi.
Maria Matteo