Sembra che in questo paese il buon senso sia definitivamente naufragato
e, con esso, la capacità di analizzare i fatti con quel po' di
lucidità necessaria a non cadere negli eccessi della retorica o
del qualunquismo. È per questo che vogliamo dire la nostra sui
fatti di Catania e su tutto ciò che ne è scaturito,
perché quello che è successo è emblematico se si
vuole provare a capire quello che sta succedendo nella nostra
società. Gli scontri che si sono consumati tra tifosi e polizia
a Catania, venerdì 2 febbraio prima durante e dopo
Catania-Palermo, sono stati pesantissimi: una vera e propria guerriglia
in cui, inutile tergiversare, le forze dell'ordine sono state sconfitte
militarmente.
Più di cento feriti, trentaquattro arrestati in una settimana e
– soprattutto – un morto: l'ispettore capo del reparto
mobile di Catania, Filippo Raciti. Tutto quello che è successo
in seguito fa parte di una cronaca urlata e surreale che ha riempito le
pagine dei giornali con una violenza speculare a quella che era
divampata nelle strade intorno allo stadio di Catania.
Sulla ricostruzione della dinamica della morte del Raciti si sono
affastellate diverse versioni, tutte abbastanza parziali e
contraddittorie. Eppure, quando ancora a Catania bruciavano le auto, le
agenzie di stampa diffondevano le dichiarazioni incrociate di medici e
funzionari di polizia secondo cui l'agente era stato ucciso dallo
scoppio di una bomba carta lanciata da un anello dello stadio e finita
quasi dentro l'auto di servizio a bordo della quale si trovava il
Raciti. Dopo due giorni la versione è stata modificata con la
precisazione che a uccidere il poliziotto era stato un corpo
contundente, forse un masso.
Nel frattempo, la classe dirigente politica e sportiva del paese si
univa in un coro di unanime sdegno. Il commissario della Figc Pancalli
disponeva immediatamente l'interruzione di tutte le competizioni
calcistiche di ogni categoria, e i rappresentanti del governo, della
maggioranza e dell'opposizione stigmatizzavano la degenerazione
teppistica.
Il 6 febbraio, il ministro dell'interno Amato riferiva alla Camera dei
deputati di non conoscere la dinamica dell'uccisione dell'agente Raciti
dicendo di non sapere "nemmeno quando è accaduto ciò che
ha provocato la morte". Dopo due giorni, la magistratura catanese in
un'affollata conferenza stampa serviva la sua verità sbattendo
l'assassino in prima pagina: con un disegnino su un foglio A4 tratto
dalle immagini registrate da una telecamera posta fuori dallo stadio,
gli inquirenti hanno sostenuto la colpevolezza di un diciassettenne,
filmato mentre reggeva una grossa lamiera usata come un ariete e con la
quale avrebbe colpito l'ispettore Filippo Raciti. Il condizionale
è d'obbligo, visto che i magistrati hanno ammesso di non
disporre di immagini del ragazzo accusato nell'atto di colpire a morte
il Raciti. Il padre del tifoso rossazzurro è stato categorico:
suo figlio – che si dichiara estraneo all'omicidio – non ha
ammazzato nessuno, dai filmati della polizia non si evince la sua
colpevolezza e, anzi, le responsabilità dell'inferno di Catania
vanno addebitate in gran parte alla polizia che ha provocato gli
incidenti. E ha aggiunto: "Mi sento di difendere quei ragazzi che erano
allo stadio in quella situazione – ha affermato l'uomo –
una cosa voluta dalla polizia che non si può permettere di
lanciare lacrimogeni contro le persone. Mio figlio è un capro
espiatorio".
A una settimana da quei drammatici eventi, il gotha del calcio italiano
è tornato rapidamente sui propri passi stabilendo di concerto
con il governo la ripresa delle gare di campionato già dal
successivo weekend ma a porte chiuse in tutti quegli stadi non ritenuti
in regola con le norme di sicurezza, e questo ci fa capire quanto il
calcio sia in Italia un elemento strutturale sul quale si reggono da un
lato gli interessi trasversali del capitalismo italiano e dall'altro le
esigenze di controllo che le istituzioni applicano alla società
italiana. La macchina del campionato non può essere fermata e se
per il momento non si potrà andare allo stadio per la partita,
c'è sempre la televisione con i suoi canali a pagamento, i suoi
introiti, il suo baraccone mediatico e il pubblico incollato alla
poltrona.
Gli incidenti di Catania mettono a nudo molte cose, ma molte altre le
sapevamo bene da tempo. Le curve degli stadi sono diventate negli
ultimi venti anni un territorio in cui è cresciuta una
generazione plasmata sul culto esasperato dell'identità e
dell'imposizione. Violenza e affermazione di sé contro tutto
ciò che è altro, a partire dalle tifoserie avversarie,
sono stati elementi che – non a caso – hanno permesso al
neofascismo di spadroneggiare negli stadi facendo di molte (ma non di
tutte) tifoserie organizzate dei serbatoi di manovalanza politica buona
per ogni occasione. E lì dove ci sono i fascisti si innestano
spesso collusioni con ambienti criminali e infiltrazioni degli stessi
apparati repressivi, in un gioco delle parti che viaggia molte volte
sul filo del rasoio.
Nel caso specifico, quanto successo a Catania va considerato alla luce
del clima che la città vive da alcuni anni. Le periferie sono
state abbandonate a loro stesse e le amministrazioni cittadine hanno
praticamente interrotto qualsiasi intervento sociale nei quartieri
più disagiati. Così come in molti altri centri della
Sicilia, e non solo, gli investimenti pubblici sono stati dirottati su
operazioni di maquillage urbano utili solo alle classi dirigenti di
governo ma devastanti per i ceti popolari da un punto di vista
dell'impatto sociale. È cresciuto un grosso malessere
soprattutto nelle fasce più deboli della popolazione cittadina e
questo disagio è stato intercettato con precisione capillare dai
fascisti che con il tempo hanno allargato il loro consenso attingendo
soprattutto fra i giovanissimi. A Catania i rapporti tra tifo
organizzato e polizia erano stati sostanzialmente buoni fino
all'introduzione del decreto Pisanu contro la violenza negli stadi. Poi
qualcosa si è rotto, e proprio la polizia ha cominciato ad
assumere atteggiamenti e condotte particolarmente aggressive e
provocatorie fuori e dentro lo stadio. Un astio reciproco e sempre
più corrosivo ha scavato un solco profondo tra polizia e giovani
dei quartieri. Come dimenticare, in questo senso, il caso di Peppe
"sucamorvo" anarchico catanese pestato brutalmente dalla polizia in un
commissariato qualche settimana fa e già fatto oggetto di
angherie e intimidazioni da parte delle forze dell'ordine? Fatta salva
l'assoluta estraneità e distanza di questo episodio dagli
scontri di Catania-Palermo, quello che ci interessa è
focalizzare l'attenzione sull'atmosfera che si respira in questa
città e sulla strategia della tensione che vi viene attuata
ormai da diverso tempo.
Detto questo, resta assolutamente sconcertante il peso che il calcio ha
nel tessuto sociale di questo paese. Ci riesce difficile comprendere il
perché così tante energie vengano scaricate nelle
battaglie domenicali con la polizia o con le tifoserie avversarie
quando tutto questo impegno potrebbe essere profuso per una ribellione
duratura e permanente che metta in discussione il ruolo stesso delle
società calcistiche, dei loro padroni e dei loro padrini
istituzionali che hanno voluto scientificamente la morte del calcio e
della sua natura popolare e socializzante attraverso il sistematico
foraggiamento del tifo organizzato e con l'allontanamento della gente
dagli stadi a suon di abbonamenti televisivi e disintegrazione dei
calendari delle gare per onorare gli sponsor e gli interessi miliardari
del pianeta calcio. Per non parlare poi della corruzione come elemento
fondante di uno sport che ai suoi livelli di vertice è stato
condizionato fino a ieri da frodi e illeciti sportivi molto gravi.
Nella sua delirante follia, il venerdì sera di Catania fa parte
di un canovaccio inquietante e disperato che ci disgusta ma non ci
sorprende. Il risultato più naturale dell'anomia in cui sta
sprofondando questo paese in cui le idee e le relazioni umane vengono
seppellite giorno per giorno dal rumore assordante del vuoto culturale
e sociale. Tutto ingoiato e frullato in un disordine indistinto fatto
di mercificazione della vita e dei rapporti, nella banalizzazione
dell'esistenza, nella perdita progressiva del senso della misura delle
cose. Una società implosa, che cerca nei suoi feticci la
risposta alle sue paure. Non ci sorprende la morte di un agente di
polizia negli scontri di un dopo partita. Ne siamo amareggiati,
così come lo siamo per la morte di chiunque. A onor del vero,
l'ispettore Raciti era un professionista della repressione di piazza.
Pur essendo stato trasferito dietro una scrivania, aveva insistito per
tornare a riprendere servizio al reparto mobile.
Descritto come un uomo generoso, donatore di sangue e di organi, marito
di una volontaria della Croce rossa, è stato definito da tutti
come un eroe. Di certo, era un uomo di azione come a molti poliziotti
piace essere. Filippo Raciti era, tra le altre cose, una guardia
d'onore alle reali tombe del Pantheon (l'istituzione nata per "fornire
con i propri iscritti una Guardia d'Onore alle Tombe dei Sovrani
d'Italia, quale tributo di riconoscenza per l'Augusta Casa Savoia che
portò all'unità e alla grandezza della Patria; esaltare,
custodire e tramandare le glorie e le tradizioni militari della Patria"
e altre amenità di questo tipo) tanto che lo stesso Emanuele
Filiberto ha preso parte ai funerali. E per cosa è morto,
dunque, il Raciti? Per cosa è morto un poliziotto che aveva
prestato giuramento di fedeltà alla costituzione repubblicana e
che era allo stesso tempo un attivo militante monarchico? Per servire
lo stato e i suoi interessi, per difendere i privilegi e i
privilegiati, per mantenere l'ordine di una società che si fonda
sul vuoto. Raciti è morto affinché domenica prossima si
torni a giocare e, possibilmente, ad ammazzarsi ancora di botte in
curva mentre stato e capitale ci affamano ogni giorno.
Forse, piuttosto che aspettare un intervento impossibile che dall'alto
possa guarire questo calcio malato, sarebbe molto meglio che
poliziotti, carabinieri e ultrà arrivassero a una soluzione
più radicale e definitiva, a una rigenerante e liberatoria
diserzione dagli ingranaggi perversi del sistema: gli uni dovrebbero
rifiutare il ruolo omicida/suicida che spetta a tutti quelli che
servono lo stato e il capitale indossando una divisa; gli altri
dovrebbero rifiutare il ruolo da picchiatori e violenti che spetta a
tutti quelli che, indossando in curva una sciarpa colorata, non fanno
altro che servire anch'essi lo stato e il capitale.
Nucleo "Giustizia e Libertà" della Federazione Anarchica Siciliana