Umanità Nova, n.6 del 18 febbraio 2007, anno 87

Di.co: e se bastasse una raccomandata?
Niente diritti, più controllo


Parlare male dei "dico" è fin troppo banale.
Il decreto legge varato dal consiglio dei ministri che regola i "diritti e doveri dei conviventi" sembra non essere gradito a nessuno: né alla chiesa, né alla destra, né alle associazioni di gay e lesbiche, ma forse non è proprio così.
Guardiamo un po' che cosa prevede.
Il nome è stato cambiato e siccome il linguaggio non è neutro una ragione ci sarà: abolito il nome "pacs" inviso alla chiesa e a molti altri. Tra persone non ci sono "patti" che qualcuno potrebbe associare al termine "liberi e consenzienti", ma diritti e doveri sanciti dallo stato.
Qualsiasi termine che riguardi, anche da lontano, la sessualità è bandito, anche se è evidente che questa legge con i rapporti di coppia qualcosina c'entri.
I "diritti" sbandierati sono fasulli.
Di pensione non si parla ma le voci circolate sono indicative: si parla di una probabile reversibilità in percentuale minore di quella data al coniuge e solo dopo vari anni di convivenza.
L'eredità è possibile solo dopo 9 anni di convivenza (per essere sicuri che la convivenza non sia stata scelta per interesse…), in misura minore a quella dovuta al coniuge e comunque subordinata al diritto degli altri  parenti (non solo dei figli ).
Il decreto è ambiguo anche nella norma più semplice: il diritto all'assistenza ospedaliera del partner è demandato al regolamento di ogni singola struttura ospedaliera.
Il diritto ad un eventuale assegno di mantenimento scatta solo dopo 3 anni di convivenza e in misura proporzionata agli anni di convivenza. (come gli scatti di anzianità negli stipendi).
Tutti quindi "diritti" falsi, ambigui, precari.
Il decreto prevede anche impossibilità di accedere ai "di.co" a chi ha ucciso (o tentato di farlo) il coniuge o il convivente del partner (è chiaro che tra i conviventi albergano molti possibili assassini, perciò chiariamo bene!).
A me sembra che questo decreto, futura legge, sia solo un ulteriore affermazione della necessità del controllo statale.
Faccio un esempio banale. Ora il contratto di affitto della casa in cui abito è intestato a me. Se morissi il mio compagno dovrebbe richiedere il cambio di intestazione del contratto. Ciò di fatto ora già avviene: sia in base al buon senso sia in base ai rapporti di forza. Se il proprietario non lo facesse sicuramente il nostro paese sarebbe sommerso di cartelli che lo denunciano.
Dopo l'introduzione dei "di.co" (che non abbiamo intenzione di sottoscrivere), questo cambio sarà più difficile per noi. Se non abbiamo richiesto allo stato la tutela dei nostri diritti "sanciti" perché, secondo il pensiero comune, ora li rivendichiamo?
In questa ottica credo che una legge che regoli le unioni possa portare essenzialmente maggior controllo e omologazione a modelli prescritti.
E nello stesso modo credo che l'avversione mostrata dalla destra e dalla chiesa nei suoi confronti sia essenzialmente di facciata. È vero che la chiesa deve porsi come istituzione di controllo su tutti i comportamenti, ma l'apertura del papa verso i matrimoni civili, definiti "istituzione sociale che merita rispetto e tutela", indica che qualsiasi famiglia va bene purché sia una famiglia codificata e controllata da qualcuno, stato o chiesa, meglio se entrambi.
Questo decreto avrebbe potuto aver il merito di innescare un dibattito su cosa sia oggi la famiglia. Ma se di famiglia si è parlato in continuazione essa è però sempre relegata nel privato.
Le cronache e le inchieste che la descrivono come luogo di morte e di incidenti gravi, dove per la maggior parte le vittime sono donne e i carnefici gli uomini, vengono dimenticate nel giro di pochi giorni.
Nelle parole di chi difende "la famiglia" non ce ne è stata una che evidenziasse come essa diventi un luogo patogeno quando le relazioni sono di potere.
Una libera scelta nelle convivenze dovrebbe, quando meno, garantire un poco dall'attacco di questo virus.
Fino a quando la famiglia sarà ritenuta cellula primaria fondante della società (come dice l'art. 29 della Costituzione), qualsiasi riconoscimento giuridico delle unioni di fatto sarà discriminante perché sancirà la differenza di valore tra le convivenze.
Diverso sarebbe il riconoscimento che le differenze negli affetti e nelle unioni è giusto e naturale: ma per questo una lettera raccomandata spedita al partner può bastare?

R.P.

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