In Afganistan si avvicina una stagione di guerra totale. Dopo
l'annunciata escalation militare statunitense, incentrata sull'impiego
massiccio dei bombardieri, che lo stesso Bush ha dato come imminente,
anche in Italia i giornalisti hanno dovuto riferirne; basti citare, su
versanti opposti, gli articoli di Piero Ostellino e Giuliana Sgrena.
Ben altri osservatori, prevedevano da tempo che la prossima primavera
afgana non sarà rossa solo per il fiorire del papavero;
soprattutto dopo aver constato come, quest'anno, neppure l'inverno ha
significativamente rallentato la guerriglia.
Gli Stati Uniti hanno da tempo pianificato la loro controffensiva, in
primo luogo incrementando le loro forze sul campo: con un ulteriore
distaccamento di oltre 3.200 soldati, il numero complessivo è
salito da 23 mila a 27 mila (cifra record dal 2002), con l'impiego
anche della 173ma brigata aerotrasportata di stanza a Vicenza,
dirottata dall'Iraq all'Afganistan. Oltre a maggiori dislocamenti di
truppe e al mantenimento della guida esclusiva dei reparti di Enduring
Freedom, i comandi Usa si sono assicurati per sei mesi pure il diretto
controllo delle truppe di 36 paesi, collegate alla missione Isaf a
guida Nato, così da non dover correre il rischio di equivoci o
divergenze tattiche.
Il governo britannico, a sostegno di tale strategia, dopo aver
annunciato per bocca dello stesso Blair la riduzione delle proprie
truppe in Iraq da 7.100 a 5.500, ha a sua volta disposto il
trasferimento di 1.500 militari in Afganistan , dove ne ha già
impegnati 5.200.
Dopo sei anni, così, l'Afganistan non solo non risulta
conquistato, ma quella che doveva essere la prima vittoria della guerra
globale "contro il terrorismo", ricorda ormai la disfatta subita dalle
armate sovietiche negli anni Ottanta. Non solo il Sud, infatti,
è off limits per le forze d'occupazione occidentali, ma ormai,
come ammesso da un alto ufficiale della Nato, il generale olandese Ton
van Loon, "vi sono alcune aree in questa provincia (quella di Uruzgan),
così come in altre zone nel sud, e persino nell'est, nel nord e
nell'ovest, su cui non abbiamo il pieno controllo, su cui neanche il
governo ha ancora il pieno controllo".
Ad est, nella provincia di Herat, sono dislocati circa 800 dei 2 mila
militari italiani, nell'ambito di uno dei team di ricostruzione
provinciale dell'Isaf , già oggetto di attentati - anche mortali
- negli scorsi mesi, a dimostrazione che la zona affidata al comando e
ai reparti con lo scudetto tricolore sulla divisa non è
così tranquilla come si è cercato di far credere. La
recentissima morte di una soldatessa spagnola, facente parte di un
convoglio con mezzi italiani, lo conferma. Come riportato da Enrico
Piovesana di Peacereporter, già dallo scorso settembre "la
situazione è critica anche fuori di Herat, nelle altre province
occidentali (Farah e Ghor) che rientrano nella zona di competenza
militare italiana".
E, dato che di zona di guerra si tratta, ad Herat fa parte del
distaccamento Isaf-Nato anche una task-force di reazione rapida,
comprendente una compagnia di parà spagnoli e 220 militari
italiani dei reparti speciali (parà del Col Moschin, commandos
del Comsubin e truppe aviotrasportate della brigata Friuli, con mezzi
corazzati Puma e autoblindo Lince). Il loro invio, avvenuto tacitamente
nella scorsa estate - proprio mentre si discuteva il rifinanziamento
della missione, e il governo di centrosinistra spergiurava sulla natura
umanitaria e di pace della stessa - è stato definitivamente
svelato dopo che un attentato aveva coinvolto alcuni di questi
militari. La presenza di truppe speciali rimane una questione su cui
nessuno si sofferma abbastanza, neppure durante la recente polemica
parlamentare, eppure il loro impiego di guerra è ovvio,
così come è ormai risaputa la loro attiva partecipazione
ad azioni belliche nel distretto di Balabaluk (bilancio: 8 presunti
talebani uccisi) nello scorso dicembre.
U.F.