L'attentato, con relativa strage tra militari, contractor e civili,
contro la base militare di Bagram del 27 febbraio in occasione della
segretissima visita del vice presidente statunitense Dick Cheney,
appare a tutti gli effetti come la premessa dell'imminente primavera di
guerra, già annunciata dall'intensificarsi dei bombardamenti
aerei Usa e Nato.
Dopo sei anni di conflitto, la capacità operativa della
cosiddetta "insorgenza" afgana indica, senza equivoci, il fallimento
politico-militare dell'attacco all'Afganistan voluto
dall'amministrazione Bush.
Interessante rileggere, a distanza di tempo, il discorso pronunciato
dal presidente Usa il 21 settembre 2001, alla vigilia dell'aggressione.
Un discorso in cui si annunciava l'inizio della guerra infinita per il
"completo annientamento della rete globale del terrore", in cui non era
escluso l'impiego di "ogni capacità della polizia, ogni
influenza finanziaria e ogni arma da guerra", così come erano
comprese pure "operazioni coperte, segrete anche dopo che avessero
avuto successo".
Le parole conclusive avevano persino un tono profetico: "Qualcuno parla
dell'inizio di un'epoca di terrore: so che abbiamo davanti lotte e
pericoli, ma saremo noi, non altri, a definirne i tempi".
I tempi invece, ormai è chiaro, non sono certo dettati e scanditi da chi aveva troppo presto cantato vittoria.
Basta leggere e riflettere sul diverso tono delle più recenti dichiarazioni dei vertici della Nato.
Il segretario generale aggiunto, Martin Erdmann, ha ribadito che "La
comunità internazionale deve prepararsi a rimanere in Afganistan
per decenni… Penso che se guardiamo a teatri come quelli di
Bosnia Erzegovina e Kosovo, dove noi tutti siamo impegnati da oltre
dieci anni, allora per l'Afganistan ritengo che dobbiamo pensare anche
in termini più lunghi rispetto a questi due teatri europei".
Il segretario dell'Alleanza, Hoop Scheffer, durante una conferenza
stampa con il presidente afgano Karzai, da parte sua è giunto ad
usare toni da scontro finale: "l'Afganistan è la linea del
fronte nella guerra contro quella gente che vuole distruggere il
tessuto stesso delle nostre società".
Ancora lo scorso 7 settembre, ad Atlanta il presidente Bush assicurava
che i talebani stavano fallendo i loro sforzi "disperati" di riprendere
il controllo dell'Afganistan. Nel suo discorso sulla lotta al
terrorismo nel quinto anniversario dell'Undici Settembre, riferendosi
ai "talebani e ai resti di Al Qaeda", era giunto a prevedere che:
"Falliranno perché gli afgani hanno provato il gusto della
libertà. Falliranno perché la loro visione del mondo non
regge il confronto con una democrazia. Falliranno perché non
potranno resistere alle forze militari dell'Afganistan libero, della
Nato e degli Stati Uniti".
Dalla valle di Baghran, nell'estremo
nord della provincia di Helmand, verrà con ogni
probabilità lanciata l'offensiva delle forze talebane e, secondo
alcune indiscrezioni, vi si insedierà il comando della
guerriglia; infatti il terreno aspro e isolato ne fa una base perfetta,
con possibilità di ritirata attraverso i valichi di montagna
dell'Hindu Kush. [Vedi l'errata-corrige in fondo all'articolo]
Ma sarebbe comunque erroneo, ritenere che la guerra in corso è
soltanto tra imberbi marines e barbuti talebani, perché ormai i
comandi Usa e Nato devono affrontare una diffusa ostilità
popolare e un'eterogenea resistenza armata, con consistenti appoggi
esterni.
Basta leggere l'intervento di Miriam Rawi, 32 anni, esponente delle
donne rivoluzionarie del Rawa (pubblicato su Il Manifesto del 28
febbraio scorso) per comprendere la tragedia rappresentata
dall'occupazione militare: "Le politiche di Karzai e dei suoi padroni
occidentali hanno oggi portato l'Afganistan a una situazione molto
critica: il disastro è una bomba a orologeria che può
esplodere in qualunque momento. In questi cinque anni, sotto le insegne
della «democrazia» e della «libertà»,
sono stati usati con successo il tradimento e la beffa, e la situazione
in cui versano i diritti umani è l'effetto del doloroso inganno
di questo governo, guidato dai signori della guerra (…) Le
condizioni di sicurezza in Afganistan sono critiche: le donne e le
bambine sono le più colpite. Uomini armati dell'Alleanza del
Nord hanno preso parte a stupri, rapimenti, omicidi, saccheggi e ad
altre forme di violenza (…) Secondo l'Onu, l'Afganistan sta
affrontando disastri sanitari ancora peggiori dello tsunami del 2004
(…) L'America cerca di mantenere in Afganistan una
stabilità fragile e momentanea. Così facendo, spera di
far passare in tutto il mondo un'immagine di successo nella promozione
di un Afganistan «democratico», una «democrazia dei
B.52»".
Eppure, in Italia, c'è chi continua a sostenere o a subire le
ragioni dell'interventismo militare tricolore per fini "di pace".
U.F.
Il testo del paragrafo in corsivo è stato modificato in quanto presentava alcuni errori. Sul numero a stampa al suo posto compare la versione errata che qui riportiamo per completezza:
Invece, proprio dalla valle di Bagram, nell'estremo nord della provincia di Helmand, sede della più grande base militare Usa, così come lo fu per le armate sovietiche prima del loro ritiro, verrà con ogni probabilità lanciata l'offensiva delle forze talebane e, secondo alcune indiscrezioni, vi si insedierà il comando della guerriglia; infatti il terreno aspro e isolato ne fa una base perfetta, con possibilità di ritirata attraverso i valichi di montagna dell'Hindu Kush.