Provincia di Kapisa, 4 marzo 2007: ancora orrore. Due ordigni da 900
kg. sganciati da un bombardiere B.1 della "coalizione antiterrorismo"
colpiscono una povera abitazione civile: nove i morti, tra i quali
cinque donne, tre bambini e un anziano. Il maggiore William Mitchell,
portavoce delle forze Isaf-Nato, ha cinicamente spiegato che non
è stato possibile accertare quante persone siano realmente
perite, per cui è stato accettato il bilancio fornito dalle
autorità locali, ritenuto "in linea con le stime". Appena il
giorno prima, un altro massacro era stato compiuto sulla strada di
Jalalabad da soldati Usa che avevano sparato indiscriminatamente; le
foto delle vittime - almeno una decina - sono state distrutte dagli
stessi militari.
Fin dal gennaio 2002, considerato l'elevato numero di vittime civili,
le pur asservite autorità governative afgane avevano
ufficialmente richiesto ai comandi statunitensi di Enduring Freedom
l'interruzione dei bombardamenti aerei. Da allora questi non solo sono
continuati, ma nell'ultimo anno sono aumentati per numero e
intensità, toccando la media giornaliera di circa 50 incursioni
Usa e Nato, sia con cacciabombardieri che bombardieri pesanti, inclusi
i micidiali B.1 e B.52. Inutili le ricorrenti proteste delle
autorità governative e dello stesso Karzai che, dopo l'ennesima
strage, il 27 ottobre scorso aveva dichiarato ai giornalisti: "Il
terrorismo non può essere eliminato con operazioni militari nei
nostri villaggi. Le radici del terrore non sono in Afganistan ". Il 30
ottobre 2006, la Wolesi Jirga, la camera bassa del parlamento afgano,
aveva quindi incaricato sette dei suoi membri di visitare Panjwayi e
compilare un rapporto sulle vittime civili.
Una parlamentare del suo stesso governo, Noorzia Atmar, ha però
contestato Karzai per aver conferito il 29 ottobre la medaglia
nazionale Ghazi Amanullah Khan al generale Usa James L. Jones,
comandante supremo delle forze alleate Nato per l'Europa.
Gruppi per i diritti umani e la Missione di assistenza dell'Onu in
Afganistan hanno ripetutamente condannato gli eccidi di civili. In una
dichiarazione rilasciata alla stampa, i membri della Missione Onu hanno
ribadito che le vittime civili sono inammissibili, senza eccezione.
Secondo Sam Zarifi, direttore della ricerca per l'Asia di Human Rights
Watch, "La condotta della Nato mette sempre più a rischio quei
civili che dovrebbe proteggere, attirando su di sé la rabbia
della popolazione".
Ma se la contabilità delle missioni aeree di guerra, sia Usa che
Nato, appare quotidianamente aggiornata nei siti e nei bollettini
ufficiali, quella riguardante gli "effetti collaterali" rimane coperta
prima ancora che dal segreto dall'incuranza militare. Secondo alcune
fonti mediche, soltanto nel 2006, sono stati seimila i morti civili in
Afganistan (contro i duemila del 2005 e i 700 del 2004), di cui
soltanto la metà sono stati considerati "presunti combattenti
talebani": formula questa, come è stato da più parti
denunciato, utilizzata sistematicamente per nascondere i civili vittime
di rastrellamenti, rappresaglie, attacchi aerei.
Ormai, come da tempo previsto, la situazione appare in caduta
verticale, sempre più dentro una guerra ormai senza sbocco e la
cosiddetta offensiva preventiva delle forze occidentali è
destinata, così come avveniva negli anni Ottanta, alle continue
campagne sovietiche, a non debellare la guerriglia. Così,
neanche l'ultima tanto propagandata operazione, denominata "Achille",
potrà conseguire effetti risolutivi: la guerra non risolve la
guerra.
Ad ammetterlo ormai sono anche i sostenitori dell'intervento: l'8 marzo
scorso, l'inviato speciale delle Nazioni Unite in Afganistan , Tom
Koenigs, in un'intervista all'emittente radiofonica tedesca Ard, ha
avvertito che la finestra di possibilità per la presenza di
truppe straniere in Afganistan "si sta chiudendo" e che la
massiccia presenza di forze Nato non sarà sostenibile a lungo
"né per noi, né per gli afgani".
In Italia, invece, le trasversali responsabilità politiche in
questa guerra, contrabbandata come missione umanitaria sotto bandiera
Onu, continuano invece a sfuggire davanti alla realtà;
raggelanti in tal senso le "preoccupazioni" di D'Alema all'indomani
delle ultime stragi o per il reporter Mastrogiocomo preso in ostaggio.
Mentre in Afganistan si muore ogni giorno, ogni ora, in parlamento si
discute, si polemizza, si contrattano voti per il rifinanziamento delle
missioni militari all'estero. Questa volta, il decreto copre un anno
(circa 1 miliardo e 200 milioni di euro lo stanziamento, di cui 915
milioni per la parte militare ed il resto per discutibili progetti di
ricostruzione) onde non mettere in difficoltà l'esecutivo ad
ogni semestre. Per i circa 2000 militari italiani c'è persino
chi, da destra, reclama più truppe, più carri armati,
nonché regole d'ingaggio più aggressive e illimitato
impiego secondo gli ordini Usa. In realtà i reparti italiani
dislocati a Kabul ed Herat si trovano già "in prima linea", con
alcune centinaia di appartenenti alle truppe speciali in zona di
combattimento sul fronte sud. Conferma di ciò viene, oltre che
dai ricorrenti attacchi contro le pattuglie italiane, dal direttore del
Sismi, Bruno Branciforte: "Le operazioni militari in corso delle truppe
Usa ci preoccupano perché hanno innestato un'escalation di
violenza che non può non coinvolgere i nostri soldati".
Lo stesso Prt di Herat, il "team di ricostruzione provinciale" a guida
italiana, non ha compiti diversi da quelli assegnati a tali proiezioni
operative della missione Isaf-Nato, ossia "penetrare nel territorio,
raccogliere informazioni e guadagnare la cooperazione delle
autorità locali nella lotta agli avversari", tanto che la stessa
rivista Stars and Stripes ha definito i Prt come "la faccia pubblica
delle operazioni speciali".
Intanto, per ottenere il consenso per la guerra Nato e il voto
favorevole anche di quella che un tempo veniva definita "sinistra
pacifista", il governo continua a ventilare la realizzazione a Roma di
un'improbabile quanto macabra Conferenza internazionale per la pace in
Afganistan: una conferenza con troppi assenti e troppi nemici
dell'umanità seduti al tavolo della presidenza.
U. F.