L'emergenzialismo non ha necessariamente bisogno di emergenze. I grandi
mezzi di informazione e la grande politica lo testimoniano
continuamente.
La scorsa settimana, qualcuno ha tentato di rilanciare "l'emergenza
sicurezza sul lavoro", dopo l'incidente accaduto alla fonderia Anselmi
di Camposampiero, in provincia di Padova, che ha provocato la morte di
due operai ed ha ricevuto l'attenzione dei mass media. Si è
sottolineato anche l'aumento degli infortuni e delle morti sul posto di
lavoro in Veneto nel 2006 rispetto all'anno precedente. Ma, nello
stesso giorno, non ci sono stati solo i morti della provincia di Padova.
Forse, un valido motivo per parlare di "emergenza" potrebbe essere
costituito dal fatto che vi sono episodi che emergono, nel senso che
hanno l'onore di essere offerti al grande pubblico, assieme,
naturalmente, alle rassicuranti e retoriche dichiarazioni di politici e
funzionari dei sindacati di stato. "Ci stiamo lavorando". Qualcuno dice
anche "Bisogna lavorarci di più" – si deve pur tendere la
mano a certi malumori del buon popolo lavoratore, soprattutto se si ha
la pretesa di parlar per esso.
Ma il termine "emergenza" non viene utilizzato nel suddetto senso.
Risulta dunque ingiustificato utilizzarlo, dato che si tratta di una
situazione che non è certo sorta improvvisamente, né di
un problema che viene affrontato tempestivamente. Sembra piuttosto che
vi sia una soglia oltre la quale ci si sente autorizzati a parlare di
emergenza. Una soglia indefinita che viene varcata quando un trend
peggiorativo eccede una media statistica, nei pressi della quale si
trova una zona grigia di sopportabilità corrispondente alla
"normalità" o, meglio, a ciò che per abitudine si
considera normale. Non è dato sapere, in quanto vi sono in gioco
troppe e imprevedibili variabili, in che punto il normale potrebbe non
essere più percepito come tale, dove il sopportabile potrebbe
divenire drammaticamente insopportabile.
Da questa prospettiva, si comprende che se vi sono "incidenti" sul
lavoro (mortali o meno) straordinari ed altri normali, ma che
generalmente essi non hanno alcunché di straordinario. Allora,
forse il problema principale sta proprio qui, nella
non-straordinarietà di questi episodi.
Quando si parla di emergenza, in molti si affrettano a chiedere
maggiori controlli affinché vengano rispettate le norme
prescritte. Pur rimanendo implicito, è chiaro che vi sono motivi
per i quali la sicurezza di chi lavora viene considerata una questione
di poca o minore importanza rispetto ad altre. Tra questi, non ultimo
viene il profitto, con la necessaria minimizzazione dei costi. Costi in
denaro che si traducono in costi materialissimi sui corpi e sulle vite
di chi lavora. Costi e rischi che quando si ha bisogno di un lavoro si
possono accettare. E qui si trovano altri problemi, assai rilevanti: i
livelli ricattabilità dei lavoratori, i loro stati di
necessità, il loro debole o inesistente potere di negoziazione;
fattori che spingono ad accettare lavori e svolgere mansioni in
condizioni rischiose, e che colpiscono più della media
soprattutto i lavoratori migranti costretti in situazioni di
subalternità – quindi maggiore ricattabilità e
debolezza – in quanto non-nazionali, non-cittadini.
Sentir parlare di condizioni inaccettabili suona a volte tragicamente ironico.
Se sulle ultime questioni citate è chiaro che si può
sviluppare conflittualità sociale, ben si comprende allora per
quali ragioni chi si preoccupa della pace sociale invochi innanzitutto
maggiori controlli, anziché preoccuparsi primariamente di
lottare affinché per i lavoratori in carne ed ossa certe
condizioni possano risultare materialmente, concretamente e realmente
inaccettabili.
Silvestro