Umanità Nova, n.11 del 25 marzo 2007, anno 87

Lavorare per vivere
Forse... Una normale emergenza


L'emergenzialismo non ha necessariamente bisogno di emergenze. I grandi mezzi di informazione e la grande politica lo testimoniano continuamente.
La scorsa settimana, qualcuno ha tentato di rilanciare "l'emergenza sicurezza sul lavoro", dopo l'incidente accaduto alla fonderia Anselmi di Camposampiero, in provincia di Padova, che ha provocato la morte di due operai ed ha ricevuto l'attenzione dei mass media. Si è sottolineato anche l'aumento degli infortuni e delle morti sul posto di lavoro in Veneto nel 2006 rispetto all'anno precedente. Ma, nello stesso giorno, non ci sono stati solo i morti della provincia di Padova.
Forse, un valido motivo per parlare di "emergenza" potrebbe essere costituito dal fatto che vi sono episodi che emergono, nel senso che hanno l'onore di essere offerti al grande pubblico, assieme, naturalmente, alle rassicuranti e retoriche dichiarazioni di politici e funzionari dei sindacati di stato. "Ci stiamo lavorando". Qualcuno dice anche "Bisogna lavorarci di più" – si deve pur tendere la mano a certi malumori del buon popolo lavoratore, soprattutto se si ha la pretesa di parlar per esso.
Ma il termine "emergenza" non viene utilizzato nel suddetto senso. Risulta dunque ingiustificato utilizzarlo, dato che si tratta di una situazione che non è certo sorta improvvisamente, né di un problema che viene affrontato tempestivamente. Sembra piuttosto che vi sia una soglia oltre la quale ci si sente autorizzati a parlare di emergenza. Una soglia indefinita che viene varcata quando un trend peggiorativo eccede una media statistica, nei pressi della quale si trova una zona grigia di sopportabilità corrispondente alla "normalità" o, meglio, a ciò che per abitudine si considera normale. Non è dato sapere, in quanto vi sono in gioco troppe e imprevedibili variabili, in che punto il normale potrebbe non essere più percepito come tale, dove il sopportabile potrebbe divenire drammaticamente insopportabile.
Da questa prospettiva, si comprende che se vi sono "incidenti" sul lavoro (mortali o meno) straordinari ed altri normali, ma che generalmente essi non hanno alcunché di straordinario. Allora, forse il problema principale sta proprio qui, nella non-straordinarietà di questi episodi.
Quando si parla di emergenza, in molti si affrettano a chiedere maggiori controlli affinché vengano rispettate le norme prescritte. Pur rimanendo implicito, è chiaro che vi sono motivi per i quali la sicurezza di chi lavora viene considerata una questione di poca o minore importanza rispetto ad altre. Tra questi, non ultimo viene il profitto, con la necessaria minimizzazione dei costi. Costi in denaro che si traducono in costi materialissimi sui corpi e sulle vite di chi lavora. Costi e rischi che quando si ha bisogno di un lavoro si possono accettare. E qui si trovano altri problemi, assai rilevanti: i livelli ricattabilità dei lavoratori, i loro stati di necessità, il loro debole o inesistente potere di negoziazione; fattori che spingono ad accettare lavori e svolgere mansioni in condizioni rischiose, e che colpiscono più della media soprattutto i lavoratori migranti costretti in situazioni di subalternità – quindi maggiore ricattabilità e debolezza – in quanto non-nazionali, non-cittadini.
Sentir parlare di condizioni inaccettabili suona a volte tragicamente ironico.
Se sulle ultime questioni citate è chiaro che si può sviluppare conflittualità sociale, ben si comprende allora per quali ragioni chi si preoccupa della pace sociale invochi innanzitutto maggiori controlli, anziché preoccuparsi primariamente di lottare affinché per i lavoratori in carne ed ossa certe condizioni possano risultare materialmente, concretamente e realmente inaccettabili.

Silvestro

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