Umanità Nova, n.13 del 22 aprile 2007, anno 87

Milano. Rivolta a Chinatown


Inaspettata per chi non vive in quella zona, inaspettata per chi ha sempre considerato i cinesi, gente tranquilla, silenziosa, chiusa e discreta, perfino un po' sottomessa.
La Cina continua ad essere sempre di più un'incognita per molti di noi, sia che si parli del paese, sia della sua popolazione in giro per il mondo. In questo ci giocano diversi fattori: la nostra profonda ignoranza, la diversità culturale, ma anche il pregiudizio più o meno strisciante.
Giovedì mattina va in onda una scena che accade ormai da circa due mesi in via Paolo Sarpi (strada principale attorno al quale si sviluppa il quartiere cinese). Dei vigili notano una macchina in doppia fila, si fermano e multano la signora dell'autovettura che era in compagnia di sua figlia, piccola di due anni. Di cosa tratti la contravvenzione poco importa, il rilevante è che questa volta da vita ad una protesta ferma e decisa della malcapitata, soprattutto quando il vigile le vuole sequestrare i documenti. A quel punto è tutto un susseguirsi di eventi: la signora resiste, il vigile la colpisce, la gente del quartiere vede la scena e prontamente interviene in soccorso alla signora, c'è uno scontro fisico tra agenti, che agiscono nervosamente, picchiando chiunque si avvicini a loro, ed i ragazzi, che a quel punto circondano la macchina. In poco tempo, arrivano i poliziotti in assetto antisommossa e picchiano giù duro, caricando come fanno di solito. I ragazzi cinesi sono sgomenti, chiedono il perché di tutta quella violenza. Un poliziotto arriverà a rispondere che questo è il loro lavoro. Ma al contrario di ciò che comunemente gli italiani credono sul conto dei cinesi, la comunità reagisce in massa. Scendono in piazza, portano bandiere rosse stellate, striscioni improvvisati, la stoffa non manca certo in mezzo a centinaia di magazzini di vestiti, e parte un corteo numeroso in tutta via Sarpi, che risponde colpo su colpo a quegli italiani che passano ed insultano con improperi razzisti.
E dato che non si tratta di poveri disgraziati, ma di commercianti, e alcuni dei quali anche ben messi, si schioda dalla sua bella seggiola anche il console cinese, che in un battibaleno scende in piazza con loro e li difende, mettendosi in mezzo tra i ragazzi agitatissimi ed i vigili agguerriti.
Ma che cosa è che bolliva in pentola? Perché la giunta Moratti ha deciso di applicare in modo così miope una tattica repressiva unilaterale contro la comunità cinese che lavora, anche duramente, proprio nella città che si vanta di essere la più laboriosa?!
Facciamo un passo indietro. Nel quartiere la presenza cinese risale agli inizi del '900. I primi che arrivarono a Milano, si collocarono in questo quartiere, aprendo le proprie prime attività, costruendo qui le proprie famiglie, ed in alcuni casi anche mischiandosi con gli italiani, con matrimoni misti. La comunità cresce molto lentamente, rimanendo però più o meno stabile fino agli anni '90, quando l'immigrazione aumenta vertiginosamente, come in tutta Italia. Ovviamente, come già sappiamo dalle esperienze passate, quando una persona migra in un paese nuovo, va lì dove ci sono i suoi connazionali, per trovare un punto di appoggio e di rifugio. Così le prime attività di commercio cominciano a moltiplicarsi. Ma fin quando i cinesi non si vedono, perché sono chiusi in scantinati a lavorare e dormire attaccati alle macchina da cucire, a pochi importa. I razzisti rivolgono la propria attenzione a quelli che si notano di più, i neri, gli arabi, gli zingari, etc…
Ma negli ultimi 8-10 anni circa, le cose cominciano a cambiare nuovamente ed anche velocemente. La Cina cresce e cresce sempre di più economicamente. La laboriosità, mista a sfruttamento ed a oppressione, crea quella combinazione particolare per la crescita economica anche dei cinesi qui in Italia. La comunità di Via Sarpi è sempre più ricca. Comprano negozi, fondi, aprono locali, bar, ristoranti, tutto ciò che serve alla vita della propria comunità. In giro si cominciano a veder sempre di più (per il sottoscritto anche con gran piacere, oltre che stupore), tanti giovanissimi cinesi, vestiti come i propri coetanei italiani, in giro per locali e cinema.
Ma insieme a questo, crescono i disagi nel quartiere ed il razzismo nei loro confronti. Parlo di disagi e di razzismo, come due elementi che tengo ben distinti, perché è bene non confonder le due cose. Un conto è parlare del disagio che provocano in un quartiere centinaia di fondi, dove caricano e scaricano camion e macchine a qualsiasi ora della giornata, intasando il traffico in modo bestiale, bloccando gli androni o le uscite dei palazzi. Altro è il razzismo, il pregiudizio creato ed alimentato da una campagna politica, televisiva, nazionalista e revanscista ad opera di forze politiche ed economiche, che ormai da qualche tempo hanno la comunità cinese come obiettivo.
Mafiosi, copioni, corrotti, disonesti, incapaci di esprimere una propria cultura ed identità, e chi più ne ha, ne metta. In città siamo arrivati anche a sentire leggende sui morti cinesi. Questo razzismo è alimentato da una classe di piccoli e medi imprenditori che, non reggendo il confronto con l'industria cinese, sia essa in Asia o in Italia, vogliono imporre alle classi lavoratrici di questo paese condizioni e sacrifici maggiori e allo stesso tempo spingere il governo e le amministrazioni a prendere provvedimenti restrittivi nei loro confronti.
Ma dato che un po' tutti siamo rimasti spiazzati davanti a questa rivolta, sia le istituzioni sia noi rivoluzionari, cerchiamo un po' di capire ciò che ha mosso questa gente. Ovviamente rifiutiamo la tesi dei Vigili Urbani, che hanno al proprio interno veri e propri reparti di banditi picchiatori, che in varie occasioni si sono distinti a Milano, tesi in cui sostengono che la rivolta era premeditata. La dinamica di ciò che è accaduto, è ovviamente a noi abbastanza conosciuta: una scintilla da improvvisamente fuoco ad un malcontento che cova da tempo. La rivolta è spontanea, ma ciò non vuol dire che non abbia anche inciso l'organizzazione dei suoi protagonisti. I commercianti cinesi di quella zona sono da tempo organizzati sia collettivamente sia individualmente. Non è un caso che in piazza, quasi fin da subito, c'erano oltre al Console, anche i loro avvocati. La comunità è organizzata, ha una sua forza economica ed anche politica. E questo lo si può vedere da diversi segnali: il sindaco di Milano si dovrà sedere ad un tavolo di trattative con loro e con il console cinese, e certo non lo avrebbe fatto con gli zingari o i tunisini. Inoltre, il giorno successivo, interviene niente di meno che il Ministro degli Esteri cinese, che chiede chiarimenti sull'accaduto al governo italiano.
Ciò che muove i giovani cinesi di Sarpi a lasciare i loro affari per affrontare la polizia italiana, è però qualcosa di complesso. Ci sono diversi fattori che si possono riconoscere: la difesa del proprio commercio, perché i Vigili li stanno letteralmente vessando da due mesi (multano lo scarico irregolare, multano i carrelli, multano perfino chi, portando pacchi pesanti sulle spalle, li mette un attimo per terra per riposare), ma anche la reazione ad un clima crescente di razzismo, di cui parlavo prima, nei loro confronti.
Ma questa rivolta ci richiama alla nostra attenzione anche un altro tipo di problema, sempre più esplosivo nelle nostre metropoli, ma certamente non nuovo, se pensiamo ai paesi a vecchia immigrazione. La convivenza coatta di differenti comunità, la creazione di quartieri etnici o per soli immigrati, danno vita sempre di più a manifestazioni di intolleranza, razzismo, violenza, di scontro tra italiani ed immigrati o tra comunità immigrate diverse tra loro, ma anche danno vita a rivolte, proteste, più o meno spontanee, contro le forze dell'ordine ed i simboli del potere, proteste anche molto diverse tra loro. Saperle capire e distinguere, è per noi importante, ma lo è altrettanto anche capire che queste rappresentano una manifestazione di umanità e di riscatto, un atto di reazione di fronte alle molteplici contraddizioni che gravano sui moderni settori urbani delle classi lavoratrici e della società civile (come nel nostro caso). Ciò rappresenta per noi una molla importantissima, non sufficiente, ma indispensabile da rintracciare, per imparare e, allo stesso tempo, per diffondere l'idea della rivolta volontaria e libertaria. Questo a proposito del dibattito su anarchismo ed intervento politico.

Riccardo Bonelli

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