Attorno alla data del 25 aprile 1945, considerata e celebrata come
l'anniversario della Liberazione, permangono ancora molti equivoci e
rimozioni, dettate da un evidente utilizzo politico della storia. La
principale mistificazione, da un punto di vista storico, riguarda
proprio la data stessa del Venticinque Aprile con cui si vorrebbe far
iniziare e concludere l'insurrezione popolare contro il fascismo e
l'occupazione nazista, negando che quella guerra civile e sociale aveva
un "prima" e, soprattutto, che conobbe un "dopo" tutt'altro che
composto e riconciliato sotto la bandiera della cosiddetta
pacificazione nazionale.
Uno dei fatti che contraddicono palesemente questa rassicurante
ricostruzione del passato è l'esperienza, comune a migliaia di
partigiani, che, a più riprese e in numerose località,
tornarono sugli stessi monti dai quali erano discesi nell'aprile del
'45. Nacquero così estesi movimenti di rivolta armata contro il
governo espressione dei partiti che, durante la resistenza, avevano
fatto parte del Comitato di Liberazione Nazionale.
Le ragioni di tale ribellione erano molte: dalla mancata epurazione dei
fascisti all'amnistia nei loro confronti firmata dal guardasigilli
Togliatti (Decreto presidenziale del 22 giugno 1946), dalla
criminalizzazione dei reduci partigiani e antifascisti alla loro
emarginazione sociale, dalla mancanza di provvedimenti legislativi a
favore degli ex-internati nei lager al deludente clima di restaurazione
capitalistica ancora una volta a danno della classe lavoratrice.
Il primo e più consistente episodio scoppiò nell'agosto
del 1946 nell'astigiano, a seguito della destituzione del capitano
Carlo Lavagnino, già comandante partigiano entrato nella polizia
ausiliaria. Infatti, nell'intento di normalizzare una situazione per
molti aspetti fuori controllo, sin dagli inizi di maggio del '45, era
stato emanato un decreto per l'inquadramento di circa 8 mila partigiani
nelle forze di polizia ma il ministro dell'Interno, il democristiano
Mario Scelba, aveva fatto celermente annullare tale provvedimento.
Contro la discriminazione di Lavagnino, una trentina di suoi ex
compagni "garibaldini" non disposti ad obbedire a un ex ufficiale della
polizia fascista, occuparono in armi, assieme ad altri duecento
partigiani solidali, il paese di Santa Libera, impervia frazione nel
comune di Santo Stefano Belbo, tra le province di Cuneo e Asti.
Poche settimane prima, proprio ad Asti, era stato diffuso un volantino
a firma del Comando 1° GAP, da cui era rilevabile il clima
esistente in ampi settori partigiani: "Se i diritti del popolo, i
sacrosanti diritti di chi ha sempre sofferto, di chi altro non chiede
che di poter lavorare e vivere in un mando fatto di giustizia, di
eguaglianza, di libertà non verranno immediatamente
riconosciuti, noi riprenderemo le armi per la seconda guerra di
liberazione".
Appena cinque giorni dopo il 20 agosto, quando il gruppo guidato da
Armando Valpreda, ex partigiano di Giustizia e Libertà, si era
stabilito a Santa Libera, la sollevazione risultava in rapida
estensione. Sui monti di Asti si erano raccolti almeno 400 partigiani,
mentre altre bande stavano ridandosi alla macchia con le armi mai
riconsegnate alle autorità, oltre che in Piemonte (Val Pellice,
Bagnolo, San Secondo, Pinerolo, Monastero di Lanzo), anche in Liguria,
Lombardia e Veneto.
A La Spezia, il movimento insurrezionale, guidato da Paolo Castagnino,
un graduato ausiliario della Ps, sarebbe durato sino 3 settembre. Al
confine tra le province di Alessandria e Pavia, al Brallo, prendeva
posizione un gruppo di circa 130 uomini, dotati di armi pesanti e
persino di un autoblindo che, a storia finita, pare sia finito nel Po.
Manifestazioni di solidarietà si svolsero in piazza a Cuneo, Alessandria, Torino, Aosta, Sondrio, Genova, Pavia.
Scontri e incidenti avvennero, secondo la testimonianza del socialista
Pietro Nenni, a Dozza Imolese, Piacenza e Mantova, dove 200 partigiani
avevano ripreso le armi tornando alla macchia. A Genova un reparto
della milizia ferroviaria, composto in larga parte da ex partigiani, si
era impadronito delle armi mentre a Milano Lambrate avevano fatto la
loro comparsa camion carichi di partigiani armati.
Per le autorità di polizia, al 29 agosto, erano circa 1.300 i
partigiani che avevano ripreso le armi in varie province del Nord
(Asti, Cuneo,Torino, Pavia, Sondrio, Verona); ma tale numero appare
inferiore alla realtà, dato che in successivi rapporti si
segnalavano ulteriori bande armate in altre province non menzionate in
precedenza (Alessandria, Brescia, Massa Carrara, Modena, Varese,
Vercelli).
Il governo De Gasperi, allarmatissimo, faceva circondare le zone
ribelli dalle forze di polizia e ordinava l'arresto dei capi partigiani
per "insurrezione armata". Il PCI condannava sui propri giornali
l'agitazione come una trama eversiva di destra ad opera di "ignoti
provocatori", pur se il dirigente comunista Scoccimarro ebbe ad
affermare che tale movimento era guidato da "trotzkisti e
spartachisti". Intanto, per mediare con gli insorti si attivavano gli
esponenti socialcomunisti più rispettati quali, oltre a Nenni,
Pietro Secchia e Davide Lajolo. Il 27 agosto a Milano si radunarono i
comandanti di 77 formazioni partigiane per solidarizzare con la
ribellione in atto e per negare fiducia alla politica conciliatoria e
subalterna dell'ANPI. Su proposta dei militanti della Federazione
Libertaria Italiana (raggruppamento effimero, nato da una scissione
della FAI) e dell'Unione Spartaco (organizzazione socialista
indipendente romana, guidata da Carlo Andreoni), fu quindi dato vita ad
un autonomo Movimento di Resistenza Partigiana.
Dopo questa presa di posizione, 28 formazioni presero posizione sulle
Prealpi, diffidando carabinieri ed autorità da eventuali
tentativi repressivi, mentre anche la Federazione nazionale combattenti
e reduci dei campi di sterminio dichiarava il suo appoggio al movimento.
In una riunione del 28 agosto il governo era quindi costretto a
prendere provvedimenti a favore dei partigiani, tra i quali la
libertà provvisoria per gli antifascisti detenuti in seguito ad
azioni armate compiute sino al luglio '45 e l'accettazione degli ex
combattenti della resistenza negli organici della polizia. Per
comunicare tali decisioni al movimento partigiano, l'esecutivo inviava
a Milano il ministro della difesa Facchinetti. Ma l'entusiasmo
durò poco dato che entrambe le concessioni si dimostrarono
presto una beffa: vennero soddisfatte solo alcune rivendicazioni
normative a favore dei combattenti, dei reduci e dei familiari dei
caduti; ma quelle più politiche quali la contestata amnistia ai
fascisti, la soppressione del movimento dell'Uomo Qualunque, divenuto
una copertura per molti fascisti, e il controllo dal basso dell'operato
dei prefetti, restarono lettera morta, così come restava
irrisolto il problema della disoccupazione.
Gli ultimi gruppi di resistenti smobilitarono solo in settembre, tra
cui un gruppo nel viareggino, comandato da Antonio Canova, salito
tardivamente in montagna. Ma non era finita: attorno al 18 ottobre, su
iniziativa del M.R.P. una quarantina di ex partigiani della Divisione
Cesare Battisti si concentrò a San Bononio, frazione montana del
comune di Curino (Vc) contestando ancora una volta l'amnistia Togliatti
e l'emarginazione dei combattenti antifascisti. Motivazione ufficiale
dell'iniziativa: ricostruire autonomamente una strada locale e
realizzare opere di rimboschimento nella zona. La protesta si concluse
dopo una settimana, con la repressione: il 24 la polizia chiudeva la
redazione del giornale del M.R.P., mentre una colonna motorizzata si
recava a Curino arrestando Carlo Andreoni e altri presunti capi del
movimento con l'imputazione di "rivolta contro lo Stato" che, dopo una
decina di giorni, vennero rilasciati per non innescare nuove
sollevazioni.
Verso gli organizzatori di quest'ultimo tentativo e i partigiani che vi
avevano partecipato, l'atteggiamento del PCI fu di totale avversione,
giungendo ad utilizzare accuse infamanti, quali quelle di
"neofascisti", "provocatori", "banditi di strada", "agenti della
monarchia" (come testimoniato dagli articoli pubblicati in quei giorni
su «l'Unità»), tanto che a difesa
dell'identità degli insorti, tra cui molti partigiani di
tendenza socialista, intervenne pubblicamente Sandro Pertini.
L'ostilità del PCI arrivò persino all'aperto
collaborazionismo con i carabinieri nella repressione dei gruppi
partigiani dissidenti nelle province di Bologna, Modena e Reggio
Emilia. Emblematiche di tale volontà repressiva le parole di
Osvaldo Salvarani, comunista ed ex comandante partigiano nel reggiano:
"Il compromesso deve cessare, i partigiani-briganti neri debbono essere
arrestati e imprigionati".
Episodi analoghi di ribellione, pur di minore entità, sarebbero
stati registrati ancora nel maggio e nell'ottobre del '47 nelle
province di Novara e Biella, con la mobilitazione di centinaia di ex
partigiani ed il loro ritorno sui monti. Tali focolai di rivolta,
puntualmente sconfessati dall'ANPI e dal PCI, furono isolati dalle
forze della repressione statale, mentre la Resistenza veniva condannata
a vivere solo nel mito.
Emmerre
Bibliografia utilizzata:
- Pier Giuseppe Murgia, Il Vento del Nord, Sugarco, Milano, 1975;
- Maurizio Lampronti, L'altra resistenza, l'altra opposizione, Lalli, Poggibonsi 1984;
- Massimo Storchi, Combattere si può vincere bisogna, Marsilio, Venezia 1998;
- Mirco Dondi, La lunga liberazione, Editori Riuniti, Roma 2004;
- Mimmo Franzinelli, L'Amnistia Togliatti, Mondadori, Milano 2006;
- Silvia Grossi e Roberto Lodigiani, I ribelli di Santa Libera, nella rivista "Storia e dossier", n. 164.