Festa del lavoro significa guardarsi intorno e fare un po' di conti,
fare il punto della situazione, cercare di capire la contingenza in cui
ci muoviamo. Il lavoro è un buon termometro o barometro dello
stato della nostra società, soprattutto se si parte dal
presupposto che è la fonte di reddito e quindi di sostentamento
dei più. Centrale, essenziale, a livello di sopravvivenza dei
singoli, il lavoro è pure luogo di realizzazione individuale o
di frustrante ripetizione quotidiana: certo non indifferente. Il lavoro
è problema sia quando c'è che, ancor più, quando
manca, quando è scarso, quando è di cattiva
qualità. Nel bene e nel male, la maggior parte del tempo di
ciascuno è assorbita dal lavoro o dalla sua ricerca,
finché avremo bisogno di lavorare per campare. Se quindi
è giocoforza che per i singoli il lavoro abbia un posto centrale
nella vita, collettivamente la centralità del lavoro si stempera
ed anzi scompare a fronte della centralità dell'altro polo della
dialettica lavoro/capitale, cioè l'impresa. Nel sentire politico
comune, è l'impresa il vero motore della società,
all'impresa vanno offerte le migliori condizioni di sviluppo
perché possa creare ricchezza per sé e per la
società, per l'insieme dei consociati. La tutela collettiva
degli interessi dei lavoratori si muove all'interno di un orizzonte di
compatibilità con la centralità dell'impresa e,
soprattutto, all'interno di un orizzonte di compatibilità
giuridica, avendo ormai introiettato una modalità di azione che
fa del diritto, della norma giuridica, il mezzo e il fine dell'azione
sindacale. Non solo si cerca tutela sul piano giuridico per i diritti
dei lavoratori violati o negati, ma si annichila ogni obiettivo nella
sfera del diritto, vietandosi in partenza ogni prospettiva di
superamento del diritto stesso. L'ordinamento giuridico non è
solo il diritto del lavoro, ma l'insieme delle norme con cui
quotidianamente si ha a che fare. Ma stante la natura relazionale della
norma giuridica, accettare che il conflitto prenda forma solo sul piano
giuridico significa impedirgli ogni chance di rottura dell'ordine
esistente che nel diritto trova il suo custode. Una lotta per i
diritti, se si limita a questo, conseguirà certo miglioramenti
per le condizioni materiali di vita dei lavoratori, ma al prezzo
altissimo di dar per accettato il perimetro entro cui i diritti stessi
sorgono e trovano tutela, cioè quello dell'ordinamento
giuridico. Non si tratta di negare la valenza positiva
dell'attività sindacale sulla vita dei lavoratori. Si vuol solo
dire che l'attività sindacale che si privi di uno sguardo
ironico sul proprio agire rischia di sprecare l'aspetto centrale e
positivo di questo agire stesso, cioè la capacità di
creare un sentire comune tra i soggetti che il capitale vuole
parcellizzati e divisi. La risposta meramente difensiva, di tutela, da
parte del sindacato, da occasione di contatto con i lavoratori, di
aggregazione, di conoscenza, rischia di monopolizzare l'azione stessa
del sindacato, che trova ragione e scopo nella tutela, terminata la
quale si resta soli fino alla prossima occasione. Da tempo i sindacati
di stato CGIL-CISL-UIL hanno deciso di muoversi all'interno delle
compatibilità giuridico-economiche del sistema, facendosi
mediatori tra capitale e lavoro, rinunciando a qualsiasi ruolo
conflittuale, di parte. Del resto, l'autonomia del lavoro dal capitale
passa attraverso l'autonomia della prassi, degli obiettivi a breve,
degli orizzonti. E l'autonomia non è qualcosa che già
costitutivamente, di base, il lavoro possegga in quanto tale.
Piuttosto, l'autonomia è l'unico sentiero percorribile dal
lavoro se vuole emanciparsi sul serio e far pendere dalla sua parte e
poi ribaltare la bilancia del rapporto di forza nel conflitto con il
capitale. In questo senso, non basta che il sindacalismo sia di base
perché sia anche autonomo, se per autonomo si intende capace di
pensare e poi realizzare la rottura con l'esistente e con la forma che
esso assume, cioè con l'ordinamento giuridico. Ma non con questo
ordinamento giuridico per creare nuovo diritto: piuttosto, per farla
finita con il diritto, inteso come unica forma relazionale, mezzo e
scopo dell'agire conflittuale del lavoro. Anarchia possiamo chiamare
questa forma della relazione che fa i conti con la dialettica dello
scambio e del conflitto tra capitale e lavoro. Giacché
l'orizzonte del diritto è un orizzonte di scambio per
equivalente ed è superabile solo a condizione di un eccesso o di
una mancanza, cioè per sottrazione o per iperrealizzazione.
Libertà è quel di più (o di meno) rispetto al
diritto ed è lì che abita la giustizia, che, per
definizione, non coincide mai con il diritto. L'azione sindacale che si
attesti nel solo spazio del diritto rinuncia quindi alla libertà
e alla giustizia, a quell'infondato che è l'anarchia.
W.B.