Umanità Nova, n.14 del 29 aprile 2007, anno 87

Primo Maggio sul fronte del lavoro: l'urgenza della rivoluzione
Anarchia o barbarie


Festa del lavoro significa guardarsi intorno e fare un po' di conti, fare il punto della situazione, cercare di capire la contingenza in cui ci muoviamo. Il lavoro è un buon termometro o barometro dello stato della nostra società, soprattutto se si parte dal presupposto che è la fonte di reddito e quindi di sostentamento dei più. Centrale, essenziale, a livello di sopravvivenza dei singoli, il lavoro è pure luogo di realizzazione individuale o di frustrante ripetizione quotidiana: certo non indifferente. Il lavoro è problema sia quando c'è che, ancor più, quando manca, quando è scarso, quando è di cattiva qualità. Nel bene e nel male, la maggior parte del tempo di ciascuno è assorbita dal lavoro o dalla sua ricerca, finché avremo bisogno di lavorare per campare. Se quindi è giocoforza che per i singoli il lavoro abbia un posto centrale nella vita, collettivamente la centralità del lavoro si stempera ed anzi scompare a fronte della centralità dell'altro polo della dialettica lavoro/capitale, cioè l'impresa. Nel sentire politico comune, è l'impresa il vero motore della società, all'impresa vanno offerte le migliori condizioni di sviluppo perché possa creare ricchezza per sé e per la società, per l'insieme dei consociati. La tutela collettiva degli interessi dei lavoratori si muove all'interno di un orizzonte di compatibilità con la centralità dell'impresa e, soprattutto, all'interno di un orizzonte di compatibilità giuridica, avendo ormai introiettato una modalità di azione che fa del diritto, della norma giuridica, il mezzo e il fine dell'azione sindacale. Non solo si cerca tutela sul piano giuridico per i diritti dei lavoratori violati o negati, ma si annichila ogni obiettivo nella sfera del diritto, vietandosi in partenza ogni prospettiva di superamento del diritto stesso. L'ordinamento giuridico non è solo il diritto del lavoro, ma l'insieme delle norme con cui quotidianamente si ha a che fare. Ma stante la natura relazionale della norma giuridica, accettare che il conflitto prenda forma solo sul piano giuridico significa impedirgli ogni chance di rottura dell'ordine esistente che nel diritto trova il suo custode. Una lotta per i diritti, se si limita a questo, conseguirà certo miglioramenti per le condizioni materiali di vita dei lavoratori, ma al prezzo altissimo di dar per accettato il perimetro entro cui i diritti stessi sorgono e trovano tutela, cioè quello dell'ordinamento giuridico. Non si tratta di negare la valenza positiva dell'attività sindacale sulla vita dei lavoratori. Si vuol solo dire che l'attività sindacale che si privi di uno sguardo ironico sul proprio agire rischia di sprecare l'aspetto centrale e positivo di questo agire stesso, cioè la capacità di creare un sentire comune tra i soggetti che il capitale vuole parcellizzati e divisi. La risposta meramente difensiva, di tutela, da parte del sindacato, da occasione di contatto con i lavoratori, di aggregazione, di conoscenza, rischia di monopolizzare l'azione stessa del sindacato, che trova ragione e scopo nella tutela, terminata la quale si resta soli fino alla prossima occasione. Da tempo i sindacati di stato CGIL-CISL-UIL hanno deciso di muoversi all'interno delle compatibilità giuridico-economiche del sistema, facendosi mediatori tra capitale e lavoro, rinunciando a qualsiasi ruolo conflittuale, di parte. Del resto, l'autonomia del lavoro dal capitale passa attraverso l'autonomia della prassi, degli obiettivi a breve, degli orizzonti. E l'autonomia non è qualcosa che già costitutivamente, di base, il lavoro possegga in quanto tale. Piuttosto, l'autonomia è l'unico sentiero percorribile dal lavoro se vuole emanciparsi sul serio e far pendere dalla sua parte e poi ribaltare la bilancia del rapporto di forza nel conflitto con il capitale. In questo senso, non basta che il sindacalismo sia di base perché sia anche autonomo, se per autonomo si intende capace di pensare e poi realizzare la rottura con l'esistente e con la forma che esso assume, cioè con l'ordinamento giuridico. Ma non con questo ordinamento giuridico per creare nuovo diritto: piuttosto, per farla finita con il diritto, inteso come unica forma relazionale, mezzo e scopo dell'agire conflittuale del lavoro. Anarchia possiamo chiamare questa forma della relazione che fa i conti con la dialettica dello scambio e del conflitto tra capitale e lavoro. Giacché l'orizzonte del diritto è un orizzonte di scambio per equivalente ed è superabile solo a condizione di un eccesso o di una mancanza, cioè per sottrazione o per iperrealizzazione. Libertà è quel di più (o di meno) rispetto al diritto ed è lì che abita la giustizia, che, per definizione, non coincide mai con il diritto. L'azione sindacale che si attesti nel solo spazio del diritto rinuncia quindi alla libertà e alla giustizia, a quell'infondato che è l'anarchia.

W.B.

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