Non è vero che in Italia non cambi mai nulla.
Non mi sto, ovviamente, riferendo alle facce dei politici. Quelli sono
sempre gli stessi, espressione autoreferenziale di un mondo di 150.000
persone tra parlamentari (1.029), consiglieri regionali (1.118),
comunali (119.046), provinciali (3.039), di comunità montane
(12.820) e circoscrizionali (12.541).
Non sto parlando neanche delle facce dei capitalisti. Anche quelli sono
sempre gli stessi. Su 279 società per azioni quotate in borsa,
227 sono collegate tra loro attraverso 585 consiglieri
d'amministrazione che hanno un incarico in più di una
società.
Sono questi consiglieri che fanno il bello ed il cattivo tempo sul
mercato e che decidono tutti gli affari delle società da loro
amministrate. Immaginate quali interessi, oltre ai propri, abbia
tutelato Tronchetti Provera nella cessione dei 900 immobili costituenti
il patrimonio immobiliare della Telecom (di cui era presidente del
consiglio d'amministrazione) a Pirelli Real Estate (di cui era sempre
presidente del consiglio d'amministrazione, ma azionista con una quota
più grossa): per la cronaca, li ha venduti a 790 milioni di euro
(meno di un milione a palazzo, praticamente nulla).
Mi riferisco invece agli stipendi dei manager. Quelli cambiano, ed al
rialzo. Lo stipendio medio dei 100 manager più pagati in Italia
è di 3,4 milioni di euro l'anno. Nel 2006 sono aumentati, in
media, del 17% sull'anno precedente. Il manager più pagato in
Italia è Carlo Buora, amministratore delegato della Telecom: nel
2006 ha guadagnato, per quella carica, 18,8 milioni di euro, gli stessi
soldi con cui campano 900 operai (e relative famiglie) della stessa
azienda.
Lo stipendio di Buora nel 2006 è stato arricchito, come quello
di molti top manager, dalla riscossione di stock option. Questo sistema
di remunerazione va molto di moda tra gli alti dirigenti perché
consente guadagni favolosi senza eccessiva pubblicità. In
pratica consiste nell'obbligo, da parte della società, a fornire
al dirigente un certo numero di azioni in una certa data ad un prezzo
prefissato. Cioè, per esempio, a dare a Buora il 31 dicembre
prossimo due milioni di azioni Telecom al prezzo di 1 euro ad azione.
Ora, siccome oggi la Telecom vale intorno ai due euro, è chiaro
che questo equivale all'aver dato a Buora un paio di milioni di euro.
Senza contare che gli stessi dirigenti possono influire (nel breve
periodo) sul corso azionario del titolo che amministrano. Se, tanto per
rimanere nell'esempio, Buora il 30 dicembre prossimo annunciasse un
utile record per Telecom, il valore dell'azione salirebbe il giorno
successivo, consentendogli un guadagno ulteriore. Poco gli importa che
la notizia possa essere smentita (ed il titolo ridiscendere) due giorni
dopo: ormai avrà già venduto le azioni e realizzato il
guadagno.
Nel 2005 il più pagato (senza considerare le stock option) era stato Tronchetti Provera, all'epoca presidente di Telecom.
D'altro canto fare l'alto dirigente in Telecom deve essere un lavoro
faticoso, visto che sono anni che i top manager Telecom guidano le
classifiche dei manager più pagati.
I manager Telecom devono essere talmente tanto convinti di questa cosa
da aver proposto nell'ultima assemblea societaria un ulteriore
attribuzione di 60 milioni di euro, attraverso le stock option, a loro
stessi.
Visto che i manager Telecom erano tutti dati in uscita, a causa
dell'attesa vendita del pacchetto azionario a AT&T e American
Movil, e sono, oltretutto, sotto inchiesta per le intercettazioni
telefoniche realizzate abusivamente da Telecom stessa risulterebbe
inspiegabile comprendere come possano, anche solo pensare, di avere una
buonuscita di 60 milioni di Euro.
Per capire come questa situazione sia potuta avvenire conviene
ripercorrere la storia di Telecom a cominciare da quella del suo
attuale padrone: Marco Tronchetti Provera.
Tronchetti è uno di quelli che, se facesse il politico,
metterebbe anche lui al centro la famiglia: se lo fanno Casini e
Berlusconi che di famiglie ne hanno due, figurarsi lui che ne ha tre.
E, da buon padre di famiglia, ha dato tutto ai tre figli, Giada, Ilaria
e Giovanni, che hanno ognuno il 33% della sua finanziaria: la Marco
Tronchetti Provera società in accomandita per azioni (in sigla:
MTP sapa). L'1% se l'è tenuto lui, tanto per non farli litigare.
Con questa finanziaria Tronchetti controlla il 61,43% del Gruppo di
Partecipazioni Industriali S.pA. (in sigla GPI). Le altre azioni di GPI
le hanno Puri Negri (vicepresidente della Pirelli), il cognato Alberto
Pirelli (altro vicepresidente della Pirelli) e il fratello povero Bruno
Tronchetti Provera.
La GPI non fa nulla ad eccezione della partecipazione, con il 52,1%
nell'impresa storica della famiglia Tronchetti Provera, la Camfin S.p.A.
Il Consorzio Approvvigionamenti Metallurgici e Meccanici è nato
nel 1915, ed operava nel settore siderurgico e metallurgico. Negli anni
trenta si è cominciato ad occupare anche di prodotti
petroliferi. Negli anni cinquanta Silvio Tronchetti Provera (il
papà) è entrato come amministratore e nel 1965 ne
è divenuto presidente prima e proprietario poi. Con una buona
dose di fortuna il papà ha scelto di buttarsi principalmente su
petrolio ed energia, diventando molto ricco con la crisi petrolifera
degli anni '70.
Per riorganizzare la società ha creato una struttura ad holding
(come andavano di moda negli anni '80) al centro la Camfin e sotto le
varie attività sul petrolio, immobiliare, gas, partecipazioni e
tecnologia.
Dal 1986 la parte del capitale non controllata da GPI è quotata
in borsa e, nello stesso anno, Marco Tronchetti Provera ha sposato la
sua prima moglie, Cecilia Pirelli.
Quando, pochi anni dopo, Leopoldo Pirelli ha coperto di debiti la
Pirelli fallendo il tentativo di acquisizione della società
tedesca Continental ed il figlio Alberto ha, successivamente,
indebitato anche la finanziaria di famiglia, è venuto il momento
di Tronchetti Provera che, grazie al petrolio, i soldi li aveva e,
messosi d'accordo con un po' di banche creditrici, si è preso la
Pirelli attraverso la Camfin.
La Camfin controlla il 19,63% della Pirelli ma, visto che ha un accordo
con Mediobanca e Benetton (che controllano il 4,45% ognuna) Fondiaria,
Ras e Generali (con il 4,26% ognuna), con Intesa e Capitalia (con il
1,56% ognuna) nonché con Moratti (1,15%) e Lucchini (0,61%)
riesce a controllare il 46,20% del capitale di Pirelli.
Nonostante la Pirelli sia una società oberata di debiti,
Tronchetti è riuscito comunque a tirarci fuori dei soldi,
vendendo nel 2000, con il mercato azionario in piena bolla speculativa,
la divisione cavi per telecomunicazioni Optical Technologies (OTI) alla
statunitense Corning e portando a casa seimila miliardi di lire che ha
poi usato per comprare la Telecom.
La Telecom, infatti, era stata privatizzata nel 1997 proprio dal primo
governo Prodi e fu un regalo fatto agli Agnelli, cui fu consentito di
controllare la società con un pacchetto azionario di solo il
6,6% (tra l'altro posseduto in condominio con l'istituto bancario
Sanpaolo).
Telecom all'epoca si limitava a gestire, da monopolista, la rete fissa
e ad incassare la quota che gli versava (e gli versa) chiunque abbia un
telefono fisso.
All'epoca tutti pensavano che, nel futuro delle telecomunicazioni, gli
affari si sarebbero fatti solo con i cellulari e che la rete fissa
sarebbe scomparsa.
Telecom aveva creato TIM per gestire la telefonia mobile. La Olivetti
(all'epoca posseduta da Colaninno, un caro amico di D'Alema) aveva
creato Omnitel e di lì a poco, ENEL avrebbe creato la Wind.
Colaninno, grazie ai buoni uffici di D'Alema e della Banca d'Italia,
con l'appoggio di Mediobanca e della Hopa di Gnutti riuscì a
fare il colpo gobbo di far fuori gli Agnelli e prendersi Telecom senza
tirare fuori una lira.
Per capire l'assurdità dell'operazione si pensi che l'acquisto
di azioni fu fatto da una sua società, la Tecnost, che aveva 80
miliardi di capitale e che, per poter procedere dovette varare un maxi
aumento di capitale di 37mila miliardi. Tutta l'operazione (di 61 mila
miliardi) fu garantita da banche che, era ovvio fin d'allora, si
sarebbero riprese i soldi svendendo la società a pezzi non
appena concluso l'acquisto.
Così nel 1999 Tecnost riuscì a prendersi il 51% della
Telecom che cominciò, da allora, a riempirsi di debiti: nel 1999
(prima dell'acquisizione di Colaninno) aveva un debito di 5.000
miliardi di lire (2,5 miliardi di euro), al momento della vendita di
Colaninno aveva un debito di 38 miliardi di Euro ed oggi ha un debito,
valutato da Standard & Poor's (che considera anche le garanzie, gli
obblighi previdenziali, le operazioni di leasing e di
cartolarizzazione) di 56,7 miliardi di Euro.
Oltre che Telecom, Colaninno indebitò anche la Olivetti. Dovette
fonderla con la Tecnost per annullarne parte dei debiti. Poi cedette
Omnitel e Infostrada ai tedeschi della Mannesman (successivamente
acquisita dagli inglesi di Vodafone).
Nonostante questo non riuscì a risolvere il problema dei debiti
e così la cedette nel 2001 a Tronchetti Provera, che, in quel
momento aveva i soldi della cessione della OTI.
Colaninno così è riuscito ad uscire da questa impresa
senza metterci una lira di suo e guadagnando i soldi che gli hanno
consentito di prendersi la Piaggio.
Tronchetti Provera, per prendersi il 23% di azioni Telecom possedute da
Colaninno e Gnutti ha creato una società, la Olimpia, posseduta
per l'80% dalla Pirelli e per il 20% dai Benetton.
Per quel 23% di azioni Telecom (che poi sarebbero diminuite fino
all'attuale 18%) Tronchetti pagò uno sproposito: 4,125 Euro a
azione.
Questa operazione è avvenuta nell'estate del 2001, Tronchetti
è divenuto presidente di Telecom nel settembre di quell'anno.
Settembre è un mese un po' strano, finisce l'estate e succedono
tante cose. L'11 settembre, poi, di cose ne sono avvenute anche di
importanti: è l'anniversario del tentativo di Lucetti di
giustiziare Mussolini (che se fosse riuscito avrebbe risparmiato
guerra, sterminio e lutti agli italiani), è l'anniversario del
colpo di stato in Cile e quello della strage di Sebrenica. L'11
settembre è anche l'anniversario delle torri gemelle e (per
quello che ci interessa in questo articolo) del conseguente crollo
della borsa mondiale.
Tronchetti aveva pagato molto di più del prezzo di mercato di
allora (che era di 2,25 euro ad azione) convinto che la borsa sarebbe
ulteriormente salita, come aveva fatto negli anni precedenti, e lui
sarebbe riuscito comunque a guadagnarci sopra.
Messo alle strette dal crollo del mercato Tronchetti è stato
costretto ad inventarsi una serie di operazioni per tranquillizzare le
banche. Prima ha fuso Olivetti e Telecom (facendo sparire Olivetti).
Poi ha portato TIM sotto Telecom. Ha venduto, infine, quasi tutte le
partecipazioni estere di Telecom per 15 miliardi di Euro.
Nonostante tutte queste vendite il debito è aumentato fino agli
attuali 56,7 miliardi ed il prezzo delle azioni non è mai salito
molto sopra i 2 euro. Olimpia è riuscita a svalutare, nel
proprio bilancio, le azioni Telecom solo da 4,6 a 4,2 euro per azione e
Pirelli si è dovuta pure ricomprare le azioni possedute dalla
Hopa di Gnutti (e per farlo ha dovuto vendere la storica divisione
pneumatici) ed il 9,5 % posseduto in Olimpia da Unicredit e Banca
Intesa tirando fuori 985 milioni di Euro.
Questo è il motivo per cui, nel settembre scorso, ha pensato di
uscirne fuori vendendo TIM Brasile, scorporando TIM Italia e la rete
telefonica, da cedere allo stato e cercando un accordo con Murdoch per
vendere contenuti (film, programmi) sfruttando la banda larga.
Prodi ha fatto finta di non sapere che il piano era concordato e che,
addirittura, quello sulla cessione della rete era stato addirittura
elaborato da un suo consigliere, Rovati
Senza voler rifare la storia recente, Tronchetti uscì sconfitto
da quel braccio di ferro e fu costretto a dimettersi e a nominare Guido
Rossi alla presidenza di Telecom.
Un'altra rogna di Tronchetti è data dal progredire
dell'inchiesta sulle intercettazioni telefoniche, dove sta diventando
sempre più difficile sostenere la tesi difensiva secondo cui lui
non sapeva nulla di cosa facessero, alle sue dirette dipendenze,
Tavaroli e lo staff di 500 persone incaricate della security Telecom.
Insomma per Tronchetti è sempre più importante levarsi da Telecom.
Per poter recuperare parte dell'investimento fatto l'unica via che
resta a Tronchetti è farsi pagare un cospicuo premio di
maggioranza per la cessione del proprio pacchetto di azioni Telecom.
Nel mercato azionario si paga, infatti, un sovrapprezzo rispetto alla
quotazione di borsa, talvolta anche considerevolmente maggiore, quando
invece di una singola azione, si acquista il controllo della
società quotata.
Per questo motivo Tronchetti, a febbraio, si è accordato con gli
spagnoli di Telefonica per vendergli una parte di Olimpia (non gliela
può vendere tutta perché è vincolato da diversi
accordi con Benetton, Mediobanca e Generali).
Il prezzo che gli spagnoli avrebbero pagato è tra i 3 e i 3,4
euro ad azione, ben oltre quello di mercato e con la prospettiva di
comprarsi, nel tempo, tutto il pacchetto a quel prezzo.
Guido Rossi non era d'accordo con Tronchetti e, nel piano industriale
che ha presentato al consiglio d'amministrazione, l'8 marzo scorso, non
ha considerato per niente (neanche come possibilità) i risparmi
che Telecom e Telefonica avrebbero potuto realizzare da un'eventuale
alleanza. È, di fatto, una bocciatura dell'accordo fatto da
Tronchetti. La cosa più grave, per Tronchetti, è che il
piano viene approvato da consiglio d'amministrazione: è la prima
volta, da quando è diventata il principale azionista che Pirelli
viene messa in minoranza in Telecom. Questo significa anche
l'impossibilità di far pagare un premio di maggioranza se
Olimpia dovesse mettere in vendita le azioni. Alla cosa non viene dato
troppo risalto, i consiglieri più vicini a Tronchetti si
astengono, e non viene più dato spazio sui media alla mancata
intesa con Telefonica e Tronchetti si mette a cercare altri compratori.
Si fanno avanti quelli di banca Intesa, offrendogli 2,7 Euro per azione.
Tronchetti non si accontenta e si rivende l'offerta informale ai
nordamericani di AT&T e American Movil che gli arrivano ad offrire
2,82 Euro ad azione per prendersi ognuno il 33,33% di Olimpia.
I motivi per cui vorrebbero sbarcare in Italia sono diversi come
diverso è stato il comportamento nelle trattative a fronte delle
resistenze del governo italiano.
American Movil e TelMex (l'offerta è stata fatta da entrambe le
compagnie) sono di proprietà di Carlos Slim Helu, che, da fine
marzo, è il secondo uomo più ricco del mondo (con 53,1
miliardi di dollari) con un patrimonio pari al reddito dei 55 stati
più poveri del pianeta.
Slim è diventato ricco con le privatizzazioni in Messico. Ha
comprato per 1,7 miliardi di dollari dall'amico Carlos Salinas
(all'epoca presidente del Messico) la Telefonos de Mexico (che era
stimata valere intorno ai 12 miliardi di dollari). Attualmente gestisce
il 90% delle linee di telefonia fissa messicane con la TelMex e l'80%
di quelle mobili con la TelCel. Oltre ad essere un quasi monopolista
dei telefoni messicani, la sua compagnia è presente
massicciamente in quasi tutti i paesi dell'America Latina. In questa
veste conobbe Tronchetti.
Era interessato all'acquisto di TIM Brasil, controllata da Telecom in
Brasile. Per comprarla avrebbe sborsato 8 miliardi di Euro. È
chiaro il suo interesse nell'affare Telecom: tirando fuori solo 2,7
miliardi ne diventa lo stesso il padrone.
Più complessa è la partita giocata da AT&T. Questa
multinazionale non va confusa con la ITT, finanziatrice di Pinochet e
proprietaria della rete telefonica cilena all'epoca del golpe.
La AT&T è una storica multinazionale USA. Anticamente si
chiamava Bell Telephone Company e, di fatto, deteneva il monopolio del
mercato telefonico statunitense. Nel 1984 fu smembrata in 7
società. Una di queste, quella che originariamente era la
più piccola, la SBC, è riuscita a crescere al punto di
ricomprare tutte le altre, divenendo il più grande operatore
mondiale in telecomunicazioni. Ha deciso quindi di riprendere il
vecchio nome di AT&T pur mantenendo la sede in Texas. Texano
è infatti Edward Whitacre, padre padrone della nuova AT&T.
La strategia della AT&T è duplice. Da un lato vuole sbarcare
in Europa, e questo allarma le altre compagnie telefoniche continentali
(in prima fila Telefonica, France Telecom e Deutsche Telecom).
Dall'altro lato Whitacre è uno che non fa sconti. Ritiene che
chi utilizza la sua rete debba pagare in base ai profitti che ricava.
Tanto per capirci se Google fa i soldi su Internet, ne dovrà
versare una parte a lui, come gestore della rete. Questa prospettiva
allarma moltissimo tutti quelli che immettono i contenuti nella rete,
non ultime le società radiotelevisive. E, in Italia, quando si
parla di televisioni si parla di Berlusconi, che ha immediatamente
fatto intervenire il presidente dell'autorità garante delle
telecomunicazioni (Agcom) Corrado Calabrò.
Calabrò infatti non è uno qualsiasi. È stato capo
della segreteria tecnico giuridica di Aldo Moro. È stato
presidente del TAR del Lazio. Era ancora presidente del TAR del Lazio
la mattina che la lista della Mussolini venne esclusa dalle elezioni
regionali per aver depositato firme false, su ricorso presentato da
Storace (attualmente indagato proprio per questo). Il pomeriggio di
quello stesso giorno, il governo Berlusconi lo scelse come garante
delle Comunicazioni.
Fin dalla nomina di Rossi, Calabrò, che era stato prima
fortemente osteggiato da Tronchetti, ha cercato di ritagliarsi un ruolo
trattando con Telecom la possibilità di uno scorporo della rete
dal resto delle attività del gruppo.
Con l'offerta di acquisto dell'AT&T questo processo è accelerato e si sono aggiunti alcuni elementi nuovi.
Il primo è stato l'intervento di Calabrò che ha fissato
il termine per lo scorporo della rete al prossimo 31 dicembre. Il
secondo è stato l'intervento della commissione europea
(probabilmente su pressione delle altre compagnie telefoniche
continentali) che ha suggerito di scorporare la rete, purché lo
facesse l'autority e non il governo ed ha invitato il governo italiano
a non emanare decreti legge su una materia in cui erano in corso
trattative commerciali.
Il governo ha preso la palla al balzo ed ha annunciato che avrebbe
inserito in un disegno di legge di sicura, prossima, approvazione un
emendamento che conferiva all'autorità per le comunicazioni il
potere di imporre la separazione della rete.
Quest'attenzione per la rete telefonica va spiegato meglio.
Fino a qualche anno fa si riteneva che la rete telefonica fissa
fosse residuale, come quella telegrafica e le stazioni di posta per i
cavalli. Si pensava che il futuro sarebbe stato nella telefonia mobile
e nelle fibre ottiche.
La scoperta della tecnologia ADSL, che consente la trasmissione di
grandi quantità di dati attraverso il doppino telefonico ha, di
colpo, fatto riacquistare un'importanza strategica alla vecchia rete.
Senza fare grossi investimenti infrastrutturali ci si ritrovava con un
supporto adeguato a gestire la "convergenza", quel processo che vede
convergere nello stesso mezzo il computer, la televisione, il telefono,
internet, dvd, satellite.
In questo contesto è nato l'ultimo progetto relativo al destino
di Telecom: quello portato avanti dall'accoppiata Berlusconi Colaninno.
Colaninno è il primo imprenditore beneficiato dal costituendo
Partito Democratico. È un amico di D'Alema, ma non avendo un
soldo, è costretto a farsi prestare i soldi per l'eventuale
acquisto di Telecom da Banca Intesa, controllata da Bazoli, amico di
Prodi.
In questa partita stanno inciuciando per farci entrare anche
Berlusconi. Berlusconi i soldi li ha, ha interesse alla rete e
garantirebbe l'acquiescenza dell'opposizione sull'operazione. L'unico
ostacolo è che, per la legge Gasparri, non potrebbe entrare
nell'azionariato di controllo di Telecom. A parte che una legge si
può sempre cambiare; il divieto sulle telecomunicazioni non
è assoluto: senza fare modifiche legislative potrebbe comunque
comprare TIM.
Una prospettiva verosimile potrebbe essere quella della divisione tra
Telecom, TIM Italia e TIM Brasile gestite rispettivamente da Colaninno,
Berlusconi e Slim.
Vedremo nei prossimi giorni come andrà questa partita. Intanto
registriamo il consueto disinteresse, da parte di chiunque, verso il
destino dei lavoratori Telecom.
Fricche