16 anni fa, la notte tra il 10 e l'11 aprile del 1991, la tragedia della nave traghetto Moby Prince.
La nave, della compagnia di navigazione privata Moby Lines (ex
NAVARMA), era in servizio di linea tra Olbia, in Sardegna, e Livorno.
Alle 22,03 del 10 aprile la Moby Prince inizia le manovre per uscire
dal porto di Livorno. A bordo del traghetto si trovavano 141 persone
tra passeggeri ed equipaggio, soltanto una sopravvivrà.
Se si vuole comprendere cosa è successo dopo che la nave
lasciò il porto di Livorno è necessario scavare a fondo,
infatti le notizie ufficiali tendono a coprire i vari responsabili e
non bastano a fare chiarezza su ciò che è realmente
accaduto.
Di certo sappiamo solo che alle 22,26 il marconista del Moby Prince
lanciò il May Day ed è intorno a quest'orario che il
traghetto entrò in collisione con la petroliera Agip Abruzzo, fu
però soltanto intorno alle 23,35 che venne individuato e
"raggiunto dai soccorsi".
In realtà nessuno dei soccorritori salirà a bordo del
traghetto fino alle 3,30, quando un marinaio viene fatto salire sul
traghetto ancora in fiamme solo per agganciare un cavo di traino.
Non si capisce per quale motivo i soccorsi a bordo del traghetto non
siano mai arrivati; infatti tutti i mezzi di soccorso si dirigono
inizialmente verso l'Agip Abruzzo, anche perché il comandante
della petroliera fa riferimento ad uno scontro con una piccola
imbarcazione, una bettolina, e non con il Moby prince. Non si capisce
neanche perché l'impianto antincendio non abbia impedito la
rapida propagazione dell'incendio a bordo del traghetto, provocato dal
greggio praticamente "spruzzato" sul Moby Prince al momento di impatto
con la petroliera.
Certo è che sarebbe stato possibile salvare molte vite se i
soccorsi fossero stati tempestivi, come testimoniano le prime parole
del mozzo Alessio Bertrand, che si era lasciato penzolare dal parapetto
di poppa della nave e che era stato salvato da due ormegggiatori giunti
sul posto per caso, ai quali egli conferma la presenza di numerosi
superstiti che potevano essere salvati.
La motovedetta della Capitaneria di Porto che giunge assieme agli
ormeggiatori indugia alle parole del mozzo del Moby Prince, lo prende a
bordo, resta sul posto per circa mezz'ora per poi tornare al porto,
essendosi aggravate le condizioni Bertrand; sceso a terra,
incomprensibilmente affermerà:"non c'è più nessuno
da salvare, tutti morti bruciati". Nessun altro soccorritore fino al
giorno seguente salirà a bordo della nave. Era dunque reale e
concreta, quella sera, la possibilità di salvare molte persone.
È questo il nodo principale che l'associazione dei familiari
delle vittime del Moby Prince, che non hanno accettato la somma di
denaro offerta loro dalla NAVARMA e dalla SNAM (raramente chi non ha
responsabilità è disposto a pagare un risarcimento...),
ha sempre cercato di sciogliere denunciando chi quella sera doveva
provvedere ai soccorsi e chi doveva invece assicurarsi della messa in
sicurezza della nave.
"In alto" però si è sempre cercato di proteggere i
responsabili; infatti, per diversi mesi dopo l'incidente, il relitto
del Moby Prince nonostante fosse stato posto sotto sequestro ed
ancorato al porto di Livorno, è rimasto accessibile al personale
della stessa NAVARMA subendo quindi manomissioni. Chi avesse voluto,
avrebbe potuto benissimo cancellare qualsiasi prova dato che per mesi
il relitto è stato visitato da tali personaggi.
A questo quadro già molto complesso si aggiunge il fatto che
quella stessa notte si trovavano in rada a Livorno cinque navi da
trasporto affittate dai Trasporti Militari statunitensi per riportare
nella base di Camp Darby numerosi carichi di munizioni non utilizzate
durante la Prima Guerra del Golfo. Pare anche che numerose bettoline
stessero, a luci spente durante la notte, effettuando misteriosi
trasporti in quel tratto di mare. Tra le imbarcazioni presenti quella
notte nel mare antistante Livorno c'era anche la 21 Octobar II, un
peschereccio che qualche anno dopo comparirà in un'inchiesta per
traffico d'armi con la Somalia (la stessa inchiesta alla quale lavorava
la giornalista uccisa Ilaria Alpi). Una testimone avrebbe assistito
dalla sua finestra all'attracco della 21 Octobar II nel porto di
Livorno proprio nella notte dell'incidente.
Questi traffici non solo complicano il quadro generale del caso, ma
lasciando ovviamente pensare ad un ruolo degli USA nella tragedia, sono
stati utilizzati come schermo e come diversivo da parte di coloro che
sono stati denunciati dai familiari delle vittime; questo per rendere
più difficile far luce, in ambito processuale, sulle
responsabilità effettive dei mancati soccorsi al Moby prince,
del funzionamento inefficace del sistema antincendio a bordo del
traghetto e sull'inquinamento delle prove a bordo della nave una volta
posta sotto sequestro.
In merito all'inquinamento di prove la Pretura giudicò due
posizioni: quella del nostromo Ciro Di Lauro, autoaccusatosi della
manomissione, sulla carcassa del traghetto, di un pezzo del timone, e
quella del tecnico alle manutenzioni della NAVARMA, Pasquale D'Orsi,
chiamato in causa da Di Lauro. I due erano accusati di frode
processuale, per aver modificato le condizioni del luogo del delitto,
ovvero per aver orientato diversamente la leva del timone in sala
macchine. Nel corso di un'udienza Di Lauro confessò, ma il
pretore di Livorno assolse entrambi gli imputati per "difetto di
punibilità"; la sentenza venne poi confermata sino in cassazione.
Invece il processo intentato dai familiari nei confronti di quattro
imputati responsabili di omissione di soccorso ed omicidio colposo,
iniziato in primo grado il 29 novembre 1995 termina nella notte tra il
31 ottobre e il 1° novembre 1997. La sentenza è tristemente
nota e non costituisce una novità in casi di questo tipo: in
un'aula presidiata da polizia e carabinieri, chiamati dal tribunale
"per tutelare l'ordine pubblico", il presidente Germano Lamberti legge
il dispositivo della sentenza con cui furono assolti tutti gli imputati
perché «il fatto non sussiste». La sentenza venne
parzialmente riformata in appello: la terza sezione penale di Firenze
dichiarò il non doversi procedere per intervenuta prescrizione
del reato.
Dario Antonelli