Lidia Menapace, ex pacifista convertita al militarismo "umanitario" ed
interventista, nel commentare le parole del signor Bertinotti sulla
Folgore, la "vetrina d'Italia", ha accusato il Presidente della Camera
di "maschilismo", ovvero lo ha attaccato sul lato "folkloristico" della
sue affermazioni, dicendo che bisogna insegnare a questi combattenti ad
essere, testuali parole, "cittadini in armi", magari sindacalizzati,
con divise un po' frikkettone, ma nella sostanza "Folgore!". Quello che
la Menapace non fa, ma questo da un po' di tempo, è chiamare le
cose con il proprio nome, ovvero la guerra guerra, la pace pace, i
militari militari, i fascisti fascisti, gli idioti idioti. Lidia
Menapace, attaccando in questo modo Bertinotti, lo salva nella
sostanza. Su Bertinotti ogni commento è superfluo tanta è
la voglia di vomitare ad ogni sua nuova affermazione su nonviolenza,
guerra, vetrine, abiti da sposa e quant'altro. Quello che la Menapace
non fa è ricordare i casi più recenti e gli attacchi,
questi sì non retorici, ai corpi di donne africane! Ed è
in questo che il maschilismo trova una sua traduzione pratica. È
il militarismo che non può essere edulcorato nella forma, come
se cambiando questa, la sostanza divenisse, come per incanto, buona.
Allora alcune cose ve le ricordiamo noi, riportandovi questa intervista
tratta dal sito di "NoiDonne": "Nel 1992, l'operazione "Restore hope",
sotto l'egida dell'Onu, coinvolse 12mila uomini, in gran parte
provenienti dalla Brigata paracatudisti Folgore. (...) In quegli anni,
per i servizi che produsse, Marco Gregoretti vinse anche il premio
giornalistico Saint-Vincent. "Magra consolazione, i colpevoli non sono
mai stati puniti, ed i fatti sono stati raccontati solo in minima
parte" commenta.
Difficile dimenticare le foto e le denunce riportate dalla stampa in quei giorni, erano secondo lei una montatura?
Posso rispondere per quel che riguarda il mio lavoro. Le foto mi furono
consegnate tutte da militari che avevano partecipato alla missione
Ibis. Una sequenza era particolarmente odiosa: una donna legata mani e
piedi a un veicolo militare veniva stuprata da cinque paracadutisti che
se la ridevano (tra loro c'era anche un sottoufficiale) con una bomba
illuminante cosparsa di marmellata. Stefano, il paracadutista autore di
quelle fotografie, nei giorni successivi a quello stupro scrisse una
lettera toccante e angosciata, direi piena di lacrime, ai genitori.
Scriveva delle urla della donna e dei suoi incubi che non lo hanno
più abbandonato. La commissione governativa presieduta da Ettore
Gallo, una commissione priva di poteri e di budget (non poterono andare
neanche in Somalia a fare delle verifiche con testimoni che aspettavano
di raccontare la loro verità) riconobbe che era tutto vero. E
che erano veri o verosimili anche altri episodi. La giustizia ordinaria
invece mise sotto processo Stefano perché aveva fatto il nome
del sottoufficiale che aveva fotografato. La procura militare, infine,
dopo le dichiarazioni del capo della procura Antonino Intelisano che
condannava le gesta dei soldati, non fece nulla. Ma proprio nulla.
Cosa intende con "I fatti sono stati raccontati in minima parte"?
Personalmente ho scritto tanti altri articoli su quelle vicende. Quando
la commissione Gallo stava per essere chiusa, un maresciallo del
Tuscania (il reparto che aveva in Somalia compiti di polizia militare)
decise di rendere noto al procuratore militare il suo memoriale. Si
facevano i nomi, oltre al resto, di alti ufficiali che avevano
partecipato a stupri collettivi usando il terribile gioco della
bottiglia. Uno di questi era un maggiore promosso a colonnello: lo
stesso che dirigeva le operazioni in piazza Alimonda a Genova quando fu
ucciso Carlo Giuliani. Nel memoriale si raccontavano anche i litigi di
Ilaria Alpi con il generale Loi, delle foto che Ilaria, di nascosto,
aveva realizzato di uno di quegli stupri con alti ufficiali, del fatto
che Ilaria fosse stata vista dagli stessi ufficiali e che dovette
scappare di corsa di notte dal porto vecchio di Mogadiscio...
Risultato? Alla fine quel maresciallo è stato messo in
condizione di uscire dall'Arma a cui era legato da almeno due
generazioni. In quel periodo in Somalia fu ucciso anche il maresciallo
Vincenzo Li Causi, uno dei migliori agenti del controspionaggio
italiano della rete Sty Behind. Era amico del maresciallo del Tuscania
autore del memoriale e di Ilaria Alpi. Morì ucciso in patria
anche il maresciallo del nono battaglione Col Moschin Mandolini che a
Mogadiscio era il capo scorta del generale Loi. Fu ucciso a Livorno.
Aveva contratto una malattia probabilmente causata dall'uranio
impoverito. Forse voleva denunciare il fatto che già in Somalia
venivano usati proiettili all'uranio impoverito. Una notizia confermata
indirettamente dalle disposizioni della Nato che metteva in guardia i
militari impegnati in quella missione sui danni provocati dall'uranio
impoverito. E suggeriva i modi per evitare rischi e pericoli.
A turbare quella missione, ci fu pure l'attacco al chek-point "Pasta" durante il quale morirono tre militari italiani.
Era il due luglio. Il chek-point Pasta era controllato dai militari
italiani. Nei giorni prima gli emissari di un signore della guerra
portarono a un ufficiale italiano il cadavere di una donna a loro dire
stuprata e uccisa dai nostri soldati. Intimarono l'ufficiale di
lasciare il chek-point. L'invito non fu raccolto, anche perché
era un ricatto difficilmente accettabile. Allora scoppiò il
finimondo. Il chek point venne attaccato all'orientale: davanti donne e
bambini a tirare pietre, dietro uomini con Kalashnikov e razzi.
Morirono tre soldati italiani. Ci sono le registrazioni audio e i
racconti di chi era presente che descrivono una situazione di caos e di
disorientamento totale.
Hanno qualche senso per lei le operazioni di Peace keeping?
Come cronista e come giornalista devo soltanto raccontare, nella
maniera più completa possibile, cosa succede prima, durante e
dopo. Come cittadino credo, rafforzato anche dalle notizie conosciute
come giornalista, che la più grande ipocrisia, politica,
storica, diplomatica, finanziaria e militare sia chiamarle missioni di
pace."
Su una cosa soltanto si può convenire con il signor Bertinotti,
ma nel senso opposto a quello da lui inteso, e cioè quando ha
affermato che "se ci fosse qui una ONG, farebbe le stesse cose che fate
voi".
Per noi è chiara da un bel pezzo la funzione militare di molte
Ong presenti in territori di guerre e di conflitti militari
Pietro Stara