Milano, 17 maggio 1972. In via Cherubini risuonano colpi di rivoltella.
Fra due macchine si accascia e muore Luigi Calabresi, commissario della
squadra politica della questura del capoluogo lombardo.
Milano, 17 maggio 2007. Dopo 35 anni Milano e Roma commemorano
«questo servitore dello stato» ucciso, secondo una sentenza
della Cassazione del 22 gennaio 1997, da Ovidio Bompressi su mandato di
Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani, mentre per il complice di
Bompressi, Leonardo Marino, il reato è prescritto perché
«collaboratore di giustizia».
Commemorazioni come sono dovute a un poliziotto morto nell'adempimento
del suo dovere. E così a Milano vengono scoperte due targhe: una
del centrodestra che guida il comune di Milano e una del centrosinistra
a capo della provincia. Mentre il sindaco di centrosinistra di Roma
intitola a Calabresi un viale.
Tutti i commentatori ufficiali parlano di riconoscimenti tardivi. Anche
se va ricordato che dal 1973 a oggi i riconoscimenti a Calabresi non
sono stati fatti con avarizia: un monumento nel cortile della questura
di Milano, una medaglia, un francobollo. E poi una fiction in Tv
bloccata però dalla vedova e perfino l'ipotesi di una
beatificazione...
E questo mentre il figlio di Calabresi, Mario giornalista del
quotidiano la Repubblica veniva invitato, per la ricorrenza dei 35
anni, a diverse televisioni per parlare del suo libro Spingendo la
notte più in là.
Il tempo e la memoria
Tutti sanno che il passare degli anni rende nebulosi i ricordi e
permette riscritture degli avvenimenti. E poi la storia viene sempre
riscritta. Non è una novità. Però il
«distratto silenzio» sulla morte dell'anarchico Giuseppe
Pinelli illustra molto bene le dinamiche dello stato, sia se governato
dalle destre, sia se governato dalle sinistre. I morti dello stato
pesano e debbono pesare anche sulla scritture della storia, gli altri
morti, quando non calunniati, sono leggeri e non debbono spostare
nemmeno una virgola nel testo storiografico.
Purtroppo, per chi detiene il potere, non è sempre così.
Ed è proprio l'affanno, la corsa da destra e da sinistra a
commemorare questo «servitore dello stato ucciso mentre compiva
il suo dovere» a illuminare le zone nascoste (René Girard
direbbe «Delle cose nascoste sin dalla fondazione del
mondo») della criminalità del potere. Quella
criminalità che in nome della ragion di stato è disposta
a lasciare una sequenza di morti.
E così a quasi quarant'anni da quella che, giustamente, venne
definita strage di stato e i successivi vent'anni di una sorta di
guerra civile (in fa minore, beninteso) oggi i rappresentanti del
potere centrale e locale parlano di «pacificazione», di
«memoria condivisa»...
Ma quale memoria può essere condivisa se nelle aule dei
tribunali di questo stato ci sono soltanto assoluzioni e sentenze fatte
più per occultare che per rendere manifesti delitti e colpe?
E poi siamo proprio sicuri che tutte queste manifestazioni in onore di
Calabresi facciano completamente dimenticare le sue
responsabilità nella persecuzione contro gli anarchici accusati
per le bombe a Milano del 25 aprile 1969 e assolti nonostante la
montatura preparata dal commissario Calabresi? Siamo proprio sicuri che
il maldestro tentativo di incastrare Pinelli per gli attentati ai treni
della notte dell'8 agosto 1969 non verrà mai ricordato in
qualche onesto libro di storia? E, infine, siamo proprio sicuri che
tutti dimenticheranno le «oggettive responsabilità»
di Calabresi per la morte di Pinelli? E se, dunque, c'è sempre
qualche riottoso ad accettare le «verità di stato»,
la soluzione finale è una sola... la beatificazione di Calabresi.
Luciano Lanza