Mister Bush, dopo il "caldo" benvenuto ricevuto in Germania insieme ai
suoi partner, è in Italia per accoglierne un altro. Non sappiamo
quanto "caldo", ma sappiamo che sicuramente sarà partecipato.
Infatti, nonostante il boicottaggio delle ferrovie che continuano a
negare treni a prezzo sociale, migliaia di persone sono decise a
recarsi a Roma per manifestare la loro opposizione alla sua
amministrazione, a quanto rappresenta e alla guerra infinita da essa
ideata e pianificata. Una guerra espressione della volontà delle
classi dirigenti e possidenti di risolvere le proprie crisi
riaffermando un sistema di sfruttamento e di dominazione
insopportabile, imposto con la devastazione di intere aree geografiche,
il massacro e l'esodo delle popolazioni, la limitazione delle
libertà civili. E tutto questo in nome della "democrazia", della
"libertà" e della "pace".
A Roma il 9 giugno saranno in piazza due realtà, la prima
è quella costituita da quei partiti (PRC, PCdI, Verdi) parte
integrante della coalizione di governo intenzionati ad addossare a Bush
ogni responsabilità nella guerra globale permanente e a
sollevare Prodi (e loro stessi) da ogni coinvolgimento nei crimini e
negli orrori in corso; la seconda, animata da una miriade di
associazioni, sindacati di base, centri sociali, disobbedienti, ecc. si
pone invece l'obiettivo di sviluppare e guidare il movimento contro la
guerra, unendo nella critica Bush ed il "subordinato" Prodi. A questo
proposito viene da chiedersi che credibilità hanno di perseguire
questo obiettivo se non chiariscono fino in fondo le ambiguità
presenti, dovute a componenti che, fino a prova contraria, fanno ancora
parte del governo, sia pure criticamente; che hanno taciuto sull'invio
di truppe in Libano; che hanno sostenuto la logica del "forza ONU"
quando è ormai pienamente dimostrato che l'ONU è il luogo
della mediazione delle grandi potenze nella spartizione del mondo.
Nonostante questo molti anarchici saranno con loro per unirsi in questa
dimostrazione di ripulsa di una politica che fa della sopraffazione,
economica, politica e militare, il suo unico mezzo di espressione.
Saranno con loro non incentrando sulla persona Bush tutta la loro
critica, ma individuando in lui l'attuale massimo rappresentante della
guerra globale permanente, quella guerra che attraversa il mondo in un
sadico intreccio di alleanze, compromessi, falsità e
manipolazioni: dall'Iraq all'Afganistan, dal Libano alla Palestina,
dalla Cecenia al Darfur, dalla Somalia al Congo, ecc.
Ma non ci fermeremo a contestare Bush, il nostro dissenso sarà
anche per Prodi e tutto l'apparato di cui è espressione.
D'altronde Bush viene a Roma su invito del governo Prodi e nell'agenda
di discussione la partecipazione italiana alle operazioni militari
avrà sicuramente il primo posto: ormai la repubblica italiana
occupa una posizione di assoluto rilievo per il numero di militari
impegnati all'estero, per la fabbricazione di armi (soprattutto
leggere), per il suo impegno nella costruzione dell'esercito europeo di
pronto intervento. Nel contempo sul suolo italiano hanno sede basi USA
(anche con ordigni nucleari) che, per far fronte ai nuovi scenari
bellici, Bush vuole rafforzare ed ampliare, mentre si spostano sempre
più a est i confini delle alleanze militari. Nel ridisegnarsi
delle sfere d'influenza delle maggiori potenze mondiali, alle prese con
le dinamiche del mercato globale e del conflitto intercapitalistico,
gli USA si dimostrano sempre più aggressivi, anche se non
necessariamente efficaci, e spingono alle contromisure i concorrenti;
è di questi giorni la minaccia di Putin di puntare sull'Europa i
propri missili in risposta allo scudo e alle nuove basi in Polonia,
mentre il Giappone vuol gettare nel cestino la propria carta
costituzionale e riarmarsi senza più alcuna remora. In Italia
è da tempo che la carta costituzionale, in specifico l'articolo
11, è stata messa nel cestino, dai tempi almeno dei
bombardamenti sulla Serbia; ma per assicurarsi un posto al sole, per
meglio tutelare gli interessi del capitale nazionale nel nuovo quadro
internazionale contrassegnato da una parte dai ritardi del processo di
unificazione europea e dall'altro dall'emergere di nuove potenze
mondiali come la Cina, non ci si può aspettare altro, in una
continuità politica che unisce governi di destra e di sinistra.
Infatti se il governo Berlusconi aveva partecipato all'occupazione
dell'Iraq, quello di Prodi ha assunto la guida della missione Unifil 2
in Libano ed ha recentemente aumentato la presenza militare in
Afganistan dotandola di mezzi offensivi. Entrambi poi hanno
acconsentito all'allargamento della base di Vicenza.
La borghesia italiana, il ceto politico, non si smentiscono. Per
garantirsi commesse, forniture energetiche, manodopera a buon mercato,
assicurarsi la ricostruzione dei paesi distrutti, preservare ad ogni
costo il livello di benessere acquisito, non esitano a ricorrere alle
armi.
D'altronde il protagonismo militare ha sempre caratterizzato la vita
dello Stato unitario, dai tempi dei Savoia ad oggi, quasi che
l'istituzione militare, con la sua retorica patriottarda, i suoi riti,
le sue cerimonie, rappresenti l'unico cemento che unisca questo paese
fatto di tanti paesi. E quando sentiamo D'Alema affermare la
necessità di rimanere in Afganistan perché "se non ci
fossimo più non potremmo più avere diritto di esercitare
il nostro peso nella comunità internazionale" ci viene in mente
il Mussolini della necessità di un pugno di morti da gettare sul
tavolo della pace all'indomani della guerra alla Francia, e quando
vediamo Bertinotti spellarsi le mani alla sfilata del 2 giugno o lo
sentiamo dire – lui che si proclama nonviolento – che la
Folgore è la vetrina della nazione, pensiamo che non ci sia
più un minuto da perdere. Occorre andare oltre Bush, occorre
inchiodare il governo Prodi alle sue responsabilità: quelle
dell'aumento delle spese militari in una finanziaria che ha significato
sacrifici per i lavoratori e tagli ai servizi sociali, quelle delle
missioni "umanitarie e di pace" che nascondono politiche di guerra e di
rapina.
Contro la guerra ci si può e ci si deve opporre: ne va del
futuro dell'umanità. Ribellarsi è giusto, anzi
indispensabile. Se non ci si ribella all'apparente inesorabilità
dell'ingranaggio bellico, non ci sarà futuro per qualsiasi
prospettiva di liberazione umana e sociale.
Rifiutarsi alla guerra vuol dire rendere visibile il proprio rifiuto a
delegare a chiunque ogni aspetto della propria vita. Non si può
sconfiggere il mostro della guerra se non si distrugge quello che lo
genera: il potere codificato nella struttura statale e costruito sulla
gerarchia e sul principio di delega. Ogni azione contro la guerra
rimane sterile se non è costruita sull'antistatalismo e,
conseguentemente, sull'antimilitarismo. Non comprendere questo ha avuto
come conseguenza il sostegno di gran parte del movimento "contro la
guerra" all'elezione del governo Prodi, quello stesso governo che
mantiene 7700 soldati all'estero, che ha stanziato 12 miliardi e 400
milioni circa di euro per le forze armate e poco più di un
miliardo per le missioni all'estero, che partecipa alla costruzione di
nuove armi micidiali come gli F35, che acconsente alla costruzione di
nuove basi militari. Noi manifesteremo a Roma anche tutta la nostra
opposizione ad ogni logica elettoralista, compromissoria e
manipolatoria, che favorisce la sopraffazione di quanti chiedono pace e
ottengono solo demagogia ed immobilismo, così come affermeremo
la nostra ripulsa verso ogni riproposizione di soggetti politici che
cercano la propria legittimazione nei movimenti di lotta.
Sostenendo le lotte popolari e di base, dalla Val Susa a Vicenza, da
Scanzano a Serre, la nostra azione va in tutt'altra direzione, quella
delle lotte sociali e della loro autorganizzazione solidale, autonoma
da gerarchie ideologiche e stataliste. Contro tutti gli eserciti,
contro tutte le guerre. Questo diremo a Roma a mister Bush ed al signor
Prodi.
Max.Var.