Giusto quarant'anni fa, si consumava una delle guerre più rapide
e cruciali negli effetti che siano mai state combattute nella seconda
metà del secolo scorso: ci riferiamo alla Guerra dei sei giorni,
che nel giugno del 1967 vide nel già martoriato Medio Oriente lo
scatenamento preventivo da parte di Tsahal, l'esercito israeliano, di
un conflitto armato contro gli stati vicini dell'Egitto, a cui
sottrasse la penisola del Sinai e la striscia di Gaza; della Giordania,
a cui sottrasse buona parte del territorio in cui vivevano i
palestinesi (privi di una loro terra, scacciati dal 1948 e sudditi del
re Hussein) detto appunto Cisgiordania (West Bank), a ovest del fiume
Giordano che divenne e resta la frontiera naturale e arcipresidiata tra
i due stati; e della Siria, a cui sottrasse le alture del Golan da cui
controllare tanto le vie di comunicazione con la capitale Damasco,
raggiungibile addirittura con i tiri di artiglieria, quanto le sorgenti
d'acqua dolce da cui origina il fiume Giordano.
In appena sei giorni il mondo fu messo a fronte dello strapotere
militare israeliano, supportato da una decina d'anni dal gendarme
dell'area (gli Stati Uniti che avevano estromesso sin dal 1956 il ruolo
di protettore d'area al Regno Unito), rischiando un conflitto tra
potenze nucleari (l'Unione Sovietica appoggiava infatti, ma
blandamente, le pretese arabe sia finanziando parte degli armamenti,
sia contrastando puntualmente le risoluzioni filoisraeliane al
Consiglio di Sicurezza dell'ONU, paralizzato dai veti incrociati). Il
governo laburista di Golda Meir e del suo fidato Ministro della difesa
Moshe Dayan, con a capo dell'esercito il futuro premio Nobel Itzhak
Rabin, fece la prima mossa decisiva occupando terre e territori
dell'antica Giudea e Samaria, espandendo la stella di David, emblema
dello stato ebraico di Israele, dal Mediterraneo al Giordano per come
figura la sua bandiera, simbolo di Eretz Israel, e scatenando un
conflitto più o meno sommesso che si prolunga appunto da
quarant'anni sino ai giorni nostri.
L'occupazione della Cisgiordania e di Gerusalemme est sotto
sovranità giordana, unitamente al Golan e a Gaza (il Sinai venne
restituito all'Egitto dopo la guerra del Kippur del 1973, ossia con gli
Accordi di pace tra Egitto e Israele siglati a Camp David nel 1977),
rappresentò il bottino militare e politico di una guerra lampo,
non metabolizzata dagli arabi colti di sorpresa e, soprattutto, non
accettata dal mondo intero, che ancora oggi, a livello legale di
diritto internazionale, non riconosce l'annessione di territori
occupati (violazione dello ius ad bellum e delle Convenzioni di Ginevra
relative, giusto per fare un esempio attuale, allo spostamento forzato
di popolazioni, tanto in uscita per quanto riguarda i palestinesi ivi
residenti, quanto in entrata per quanto riguarda i coloni a cui
affidare terre militarmente occupate ma di proprietà altrui) e
nemmeno Gerusalemme intera quale capitale dello stato ebraico.
Studiando la storia a scuola, abbiamo sempre pensato con distacco a
guerre di trent'anni o di cent'anni come qualcosa relegate ad un
passato ormai sepolto dal progresso della civiltà illuminata.
Tuttavia la questione palestinese in Medio oriente è la prova
vivente di tale illusione storica, giacché il conflitto
innescato nel 1948 (con responsabilità differenziate ma diffuse
di tutti i protagonisti dell'epoca, la neonata Onu, gli europei,
inglesi intesta, che dovevano farsi perdonare la Shoah, gli ebrei
sionisti e gli stati arabi) dura sino ad oggi da quasi sessant'anni,
martoriando generazioni intere di palestinesi e degradando la stessa
civiltà ebrea e lo stesso concetto (pratico e non solo teorico)
di cittadinanza democratica che dovrebbe contraddistinguere la nazione
(mista) israeliana, unico caso di stato religioso non teocratico.
Vivere infatti per decenni da potenza occupante, innovando tecnologie
politiche di governance su popoli e terre e territori e risorse comuni
(acqua in testa), militarizzando la vita civile nella Cisgiordania in
perenne emergenza sicuritaria, amministrando l'occupazione militare
come se fosse analogo alla gestione di una provincia ma priva del
minimo rispetto e tutela di diritti civili e umani per l'intera
popolazione residente, è un costo esistenziale e politico sempre
meno sopportabile per tutte le parti coinvolte nel conflitto, che ormai
sono arrivate al limite, indubbiamente non estremo, in cui hanno tutto
da perdere e nulla da guadagnare proseguendo lungo tale percorso di
morte e odio reciproci (ma asimmetrici: ogni 5 morti, 4 sono
palestinesi e 1 è israeliano).
E tuttavia le ragioni di stato fanno premio anche e persino sul
semplice buon senso: le élite drenano privilegi e risorse per
sé in questa condizione di degrado disumano in cui la guerra
permanente di questi ultimi quarant'anni abilita assuefazione,
rassegnazione, disperazione, senza far percepire una luce in fondo al
tunnel. Eppure solo una generazione che sappia ritrovare altrove le
ragioni di una convivenza civile e pacifica tra popoli, anche lacerati
dall'odio ma costretti a vivere insieme o, per lo meno, accanto,
sarà in grado di riscattare dal conflitto un progetto di vita
che neutralizzi le élite guerrafondaie e assassine che si sono
succedute su ogni versante. L'ipotesi di due popoli, due stati sembra
sempre meno praticabile, mentre per l'idea originaria di uno spazio
comune arabo-ebraico entro una medesima cornice di comunità
libera e democratica sembra non ci siano le condizioni umane ed emotive
necessarie. Certamente, lo stillicidio continuo non è la
soluzione per coloro che amano l'unica vita che ci tocca vivere e
l'urgenza di non sprecarla dietro le mire egemoniche di cricche al
potere. Da qui la necessità di una soluzione libertaria che
affondi le speranze in ciascuna delle rispettive culture, elaborando un
progetto di convivenza che rinsaldi le forze della cooperazione
emarginando stabilmente la violenza politica che alimenta se stessa
stritolando tutto ciò che osi resisterla.
Massimo Tessitore