Umanità Nova, n.20 del 10 giugno 2007, anno 87

Israele
Sei giorni lunghi 40 anni


Giusto quarant'anni fa, si consumava una delle guerre più rapide e cruciali negli effetti che siano mai state combattute nella seconda metà del secolo scorso: ci riferiamo alla Guerra dei sei giorni, che nel giugno del 1967 vide nel già martoriato Medio Oriente lo scatenamento preventivo da parte di Tsahal, l'esercito israeliano, di un conflitto armato contro gli stati vicini dell'Egitto, a cui sottrasse la penisola del Sinai e la striscia di Gaza; della Giordania, a cui sottrasse buona parte del territorio in cui vivevano i palestinesi (privi di una loro terra, scacciati dal 1948 e sudditi del re Hussein) detto appunto Cisgiordania (West Bank), a ovest del fiume Giordano che divenne e resta la frontiera naturale e arcipresidiata tra i due stati; e della Siria, a cui sottrasse le alture del Golan da cui controllare tanto le vie di comunicazione con la capitale Damasco, raggiungibile addirittura con i tiri di artiglieria, quanto le sorgenti d'acqua dolce da cui origina il fiume Giordano.
In appena sei giorni il mondo fu messo a fronte dello strapotere militare israeliano, supportato da una decina d'anni dal gendarme dell'area (gli Stati Uniti che avevano estromesso sin dal 1956 il ruolo di protettore d'area al Regno Unito), rischiando un conflitto tra potenze nucleari (l'Unione Sovietica appoggiava infatti, ma blandamente, le pretese arabe sia finanziando parte degli armamenti, sia contrastando puntualmente le risoluzioni filoisraeliane al Consiglio di Sicurezza dell'ONU, paralizzato dai veti incrociati). Il governo laburista di Golda Meir e del suo fidato Ministro della difesa Moshe Dayan, con a capo dell'esercito il futuro premio Nobel Itzhak Rabin, fece la prima mossa decisiva occupando terre e territori dell'antica Giudea e Samaria, espandendo la stella di David, emblema dello stato ebraico di Israele, dal Mediterraneo al Giordano per come figura la sua bandiera, simbolo di Eretz Israel, e scatenando un conflitto più o meno sommesso che si prolunga appunto da quarant'anni sino ai giorni nostri.
L'occupazione della Cisgiordania e di Gerusalemme est sotto sovranità giordana, unitamente al Golan e a Gaza (il Sinai venne restituito all'Egitto dopo la guerra del Kippur del 1973, ossia con gli Accordi di pace tra Egitto e Israele siglati a Camp David nel 1977), rappresentò il bottino militare e politico di una guerra lampo, non metabolizzata dagli arabi colti di sorpresa e, soprattutto, non accettata dal mondo intero, che ancora oggi, a livello legale di diritto internazionale, non riconosce l'annessione di territori occupati (violazione dello ius ad bellum e delle Convenzioni di Ginevra relative, giusto per fare un esempio attuale, allo spostamento forzato di popolazioni, tanto in uscita per quanto riguarda i palestinesi ivi residenti, quanto in entrata per quanto riguarda i coloni a cui affidare terre militarmente occupate ma di proprietà altrui) e nemmeno Gerusalemme intera quale capitale dello stato ebraico.
Studiando la storia a scuola, abbiamo sempre pensato con distacco a guerre di trent'anni o di cent'anni come qualcosa relegate ad un passato ormai sepolto dal progresso della civiltà illuminata. Tuttavia la questione palestinese in Medio oriente è la prova vivente di tale illusione storica, giacché il conflitto innescato nel 1948 (con responsabilità differenziate ma diffuse di tutti i protagonisti dell'epoca, la neonata Onu, gli europei, inglesi intesta, che dovevano farsi perdonare la Shoah, gli ebrei sionisti e gli stati arabi) dura sino ad oggi da quasi sessant'anni, martoriando generazioni intere di palestinesi e degradando la stessa civiltà ebrea e lo stesso concetto (pratico e non solo teorico) di cittadinanza democratica che dovrebbe contraddistinguere la nazione (mista) israeliana, unico caso di stato religioso non teocratico.
Vivere infatti per decenni da potenza occupante, innovando tecnologie politiche di governance su popoli e terre e territori e risorse comuni (acqua in testa), militarizzando la vita civile nella Cisgiordania in perenne emergenza sicuritaria, amministrando l'occupazione militare come se fosse analogo alla gestione di una provincia ma priva del minimo rispetto e tutela di diritti civili e umani per l'intera popolazione residente, è un costo esistenziale e politico sempre meno sopportabile per tutte le parti coinvolte nel conflitto, che ormai sono arrivate al limite, indubbiamente non estremo, in cui hanno tutto da perdere e nulla da guadagnare proseguendo lungo tale percorso di morte e odio reciproci (ma asimmetrici: ogni 5 morti, 4 sono palestinesi e 1 è israeliano).
E tuttavia le ragioni di stato fanno premio anche e persino sul semplice buon senso: le élite drenano privilegi e risorse per sé in questa condizione di degrado disumano in cui la guerra permanente di questi ultimi quarant'anni abilita assuefazione, rassegnazione, disperazione, senza far percepire una luce in fondo al tunnel. Eppure solo una generazione che sappia ritrovare altrove le ragioni di una convivenza civile e pacifica tra popoli, anche lacerati dall'odio ma costretti a vivere insieme o, per lo meno, accanto, sarà in grado di riscattare dal conflitto un progetto di vita che neutralizzi le élite guerrafondaie e assassine che si sono succedute su ogni versante. L'ipotesi di due popoli, due stati sembra sempre meno praticabile, mentre per l'idea originaria di uno spazio comune arabo-ebraico entro una medesima cornice di comunità libera e democratica sembra non ci siano le condizioni umane ed emotive necessarie. Certamente, lo stillicidio continuo non è la soluzione per coloro che amano l'unica vita che ci tocca vivere e l'urgenza di non sprecarla dietro le mire egemoniche di cricche al potere. Da qui la necessità di una soluzione libertaria che affondi le speranze in ciascuna delle rispettive culture, elaborando un progetto di convivenza che rinsaldi le forze della cooperazione emarginando stabilmente la violenza politica che alimenta se stessa stritolando tutto ciò che osi resisterla.

Massimo Tessitore

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