Umanità Nova, n.21 del 17 giugno 2007, anno 87

Il governo e la "crisi" della politica
Più potere in poche mani


Le pagine dei quotidiani nazionali sono piene di articoli sulla crisi della politica, intesa come disaffezione di massa dalle istituzioni e dai partiti, costosi e famelici aggregati di professionisti che campano di quello che è ormai a tutti gli effetti un lavoro, cioè la gestione di un potere piccolo o grande che sia, utile a piazzare e mantenere famiglie e famigli. Della politica si denuncia il costo eccessivo, dovuto, si dice, al gran numero di soggetti facenti parte delle assemblee elettive, dal parlamento ai consigli di circoscrizione. Un poco in sordina si parla anche del gran numero di consigli di amministrazione di società partecipate con denaro pubblico, organi in cui siedono politici locali e famigli di politici locali: queste società dovrebbero gestire i servizi pubblici con criteri anche manageriali, dato che il pubblico, da solo, non sarebbe capace di efficienza ed il privato, si sa, è efficienza e profitto. I partiti e la politica sarebbero un gran baraccone costoso e autoreferenziale, così come tutto ciò che è pubblico. La ricetta è semplice: più potere ai soggetti che governano; meno pubblico, più privato. Su questa analisi e sulla diagnosi c'è convergenza tra vecchio governo e buona parte di quello nuovo. Tanto è vero che la riforma costituzionale già approvata dal governo Berlusconi e bocciata dal referendum popolare, piace al neonato Pd, perché consegna a chi governa enormi poteri. Se riuscisse il colpo di una legge elettorale in senso maggioritario a doppio turno che costringesse i partiti minori ad aggregarsi con un soggetto più consistente, a far convogliare i voti su candidati moderati capaci di raccogliere voti sia che stiano da una parte che dall'altra, il gioco sarebbe fatto. La democrazia rappresentativa sanziona la autonomia dei rappresentanti, ceto partitico-sindacale di tecnici cui è demandato il governo dell'esistente. Non c'è infatti orizzonte capace di offrire lo spazio per una progettualità che abbia come obiettivo la modifica dei rapporti di forza nella società e nel mondo. Meglio, l'unico orizzonte che ci si presenta è quello dei cosiddetti diritti universali, da esportare a mano armata, e dei diritti universali vengono privilegiati i diritti politici quali il voto che, preso in sé, senza alcuna rimessa in discussione dei rapporti tra capitale e lavoro e degli assetti di potere consolidati, resta un feticcio. Così non stupisce che centralità del voto e indifferenza dei ceti partitico-sindacali alla disaffezione da parte dei rappresentati vadano di pari passo. Maggiore è l'enfasi sulla libertà di scelta data dall'elezione diretta di chi governerà e maggiore è lo scollamento tra governanti e governati e l'irresponsabilità dei primi. Maggiore è l'ampiezza del potere delegato, maggiore è l'autonomia di questo dal delegante. Si vede bene, quindi, come il gran cianciare di crisi della politica sia il punto di passaggio mediatico ed ideologico per una maggior concetrazione del potere, nel momento in cui si fa la mossa di consegnare la scelta decisiva, appunto con il voto, agli elettori di un sistema ad elezione diretta del capo del governo. Non manca molto a che il modello di elezione di sindaci e presidenti di regioni e province sarà esteso alle elezioni per il governo nazionale, con svuotamento di tutte le assemblee legislative. Del resto, il difetto sta nel manico. Ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi non è un accidente ed una degenerazione del sistema rappresentativo, ma suo coerente sviluppo. La circostanza che un sindacato o un partito, un gruppo che comunque accumuli un potere tenda ad autoperpetrarsi con ogni mezzo e ad aumentare la propria potenza, non può stupire. I rappresentanti tendono ad autonomizzarsi, a divenire autoreferenziali, a costruire una rete di rapporti e di potere tale da consentire loro di essere indipendenti dai rappresentati, di vivere di vita propria. In questo modo potranno ridistribuire parte del potere accumulato in termini di servizi e sicurezza ed aumentare quindi la propria capacità di attrarre consenso e altro potere. Soprattutto in una congiuntura in cui la società si impoverisce ed è indotta a credersi più insicura. In questo senso, non è vero che una maggior distribuzione del potere con un espandersi delle assemblee rappresentative vada necessariamente nella direzione di una maggiore libertà, così come non è vero che a livello locale sia i più gestibile un rapporto con il potere rappresentativo perché esso sarebbe più vicino alla base della società. In discussione non c'è il fatto che una collettività si dia modi, luoghi, regole di funzionamento o che all'interno di questa collettività non tutti facciano tutto, ma ci sia una diversità di funzioni. Il problema è il potere della collettività e se esso resti tale o si concentri in alcuni dei suoi membri che hanno potere decisionale. Da questo punto di vista, il rapporto degli anarchici con le istituzioni rappresentative è necessariamente problematico. Per quanto infatti, gli organismi locali siano vicini alla base della piramide politico-istituzionale, in questione è proprio quel primo scarto, quella differenza, tra rappresentati e rappresentanti. E non certo quando si va tutti d'amore e d'accordo, ma nel momento in cui i rappresentanti, in quanto facenti parte della citata piramide politico-istituzionale, decidano di rispondere a chi sta loro sopra ed inizino a trattare i rappresentati come coloro che stanno sotto. Allora il cuore della faccenda sta nella possibilità o meno di decidere e mettere in pratica le decisioni, cioè nella forza che una collettività ha vuoi di essere soggetto di decisione, vuoi di impedire di diventare oggetto di decisione altrui. Una forza del genere non è una qualità intrinseca a qualsiasi collettività, ma frutto di un percorso o di un accidente, giacché la forza può accumularsi per lento sviluppo o improvvisamente concentrarsi: non c'è un solo modo attraverso il quale le donne e gli uomini prendono in mano il loro destino. Di certo questa è una scelta politica e di governo della propria esistenza ed è una scelta individuale e collettiva allo stesso tempo. Il posto degli anarchici è nei luoghi in cui questa politica e questo governo si fanno scelta quotidiana, maturano, crescono, lottano, si affermano.

W.B.

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