L'intenzione ormai operativa degli Stati Uniti di schierare 10 missili
intercettori in Polonia e un sistema radar in Repubblica Ceca, quali
primi tasselli del nuovo progetto di scudo spaziale anti-missilistico,
e la ventilata ritorsione russa di mettere l'Europa di nuovo sottotiro,
hanno messo a nudo una rinnovata tensione tra Usa e Federazione Russa,
con toni che hanno fatto parlare di un ritorno alla guerra fredda.
Qualche testata giornalistica ha attribuito tale progetto alla Nato, in
realtà Washington ha scavalcato la stessa Alleanza Atlantica e
il sottosegretario Usa alla difesa Eric Edelman ha precisato che
"è un sistema statunitense e il suo comando e controllo
rimarrà nelle mani degli Stati Uniti".
Anche senza essere degli strateghi, appare comunque evidente il
carattere pretestuoso e provocatorio della motivazione statunitense per
tale atto, ossia una funzione "puramente difensiva" contro eventuali
minacce missilistiche da parte dell'Iran che, notoriamente, non dispone
di armi balistiche con portata tra i 5 e gli 8 mila chilometri.
In realtà, ben altro s'intravede dietro il paradossale scambio
di accuse tra i due rispettivi presidenti, Bush e Putin, impegnati a
mettere in discussione la democraticità dei rispettivi sistemi
politici, erigendosi entrambi a improbabili difensori dei diritti
umani.
Siamo infatti di fronte ad un passaggio critico dello scontro tra
disegni imperialisti che vede coinvolti non solo Usa e Russia, ma anche
Europa e Cina, con al centro la contesa strategica delle fonti di
energia e dei suoi principali corridoi nell'area del Caucaso.
Riguardo l'importanza e la complessità di questo scontro, senza
alcuna pretesa di produrre un'analisi globale, basterà ricordare
alcuni recenti fatti.
Il 13 luglio 2006 veniva inaugurato, quasi in segreto, l'oleodotto
Ceyhan-Tblisi-Baku (BTC), che collega il Mar Caspio al Mediterraneo
orientale. L'oleodotto BTC evita del tutto il territorio della
Federazione Russa: parte dalla Turchia e transita lungo le ex
repubbliche sovietiche dell'Azerbaijan e della Georgia, entrambe le
quali sono diventate "protettorati" degli Stati Uniti, fortemente
integrate in un'alleanza militare con gli Usa e la Nato. Inoltre, sia
l'Azerbaijan che la Georgia hanno accordi di cooperazione militare a
lungo termine con Israele. L'inglese BP (British Petroleum) guida il
consorzio dell'oleodotto BTC col 30,1%, quindi seguono la Socar (25%,
Azerbaijan), Unocal+AmerdaHess+ConocoPhillips (13,8%, Usa), Statoil
(8,7%, Norvegia), Tpao (Turchia), Itochu+Inpex (5,9%, Giappone), Total
(5%, Francia), Eni (5%, Italia).
L'intento di tale realizzazione appare evidente: indebolire il ruolo
della Russia in Asia Centrale, tagliando fuori la Cina dalle riserve
petrolifere della regione ed isolando l'Iran. Infatti, deviare i flussi
del petrolio e del gas dell'Asia Centrale verso il Mediterraneo
orientale (sotto la protezione militare israeliana che, guarda caso, si
spinge sino al Libano) per il re-export all'Asia serve a minare il
mercato energetico interasiatico, che è basato sullo sviluppo di
corridoi petroliferi diretti che collegano l'Asia Centrale alla Russia
e all'Asia del Sud, la Cina e l'estremo Oriente.
D'altra parte, non è un mistero che da tempo Gazprom, la
più grande compagnia energetica russa, persegue l'obiettivo di
divenire il numero uno nel mondo per fornitura di energia. Il gigante
statale (posseduto dal governo russo al 51%) sta consolidando nuove
partnership e futuri sbocchi di mercato dalla Cina all'Europa (a cui
fornisce circa la metà del fabbisogno), con l'ambizione di
conquistare anche il 10% del mercato statunitense entro il 2010.
Elemento centrale della strategia di Gazprom, e della nomenclatura
russa, è il Turkmenistan, col quale esistono accordi esclusivi
per quanto riguardo la fornitura di gas sino al 2025: lungo le linee
russe passano qualcosa come 45 miliardi di metri cubi di metano
turkmeno, ossia il 90% dell'export, nonché l'intera fornitura
che Gazprom vende all'Ucraina.
Al disegno israelo-turco legato BTC, il governo russo ha quindi risposto con alcune contromosse di tipo politico e militare.
Sul piano politico, spinge nella prospettiva di un'Unione statale tra
Russa e Bielorussia. Infatti, nonostante gli apparenti contrasti, il
padre-padrone Aleksander Lukashenko è e rimane l'alleato
più fidato di Putin così come il governo di Minsk resta
di fatto un vassallo economico di Mosca. D'altro canto il potere di
Lukashenko e il consenso popolare di cui gode ancora il suo "piccolo
miracolo economico" si reggono interamente sul supporto russo: quasi
tutto l'export bielorusso finisce verso la Russia, così come le
industrie nazionali funzionano grazie al combustibile fornito a prezzi
di favore e gli scambi commerciali privilegiati col Cremlino.
Sul piano militare, invece, la Russia ha stabilito una propria base
navale presso il porto siriano di Tartus (a soli 30 km dal confine
libanese), dotata di sistema di difesa aereo in grado di fornire
protezione sia alla base stessa che ad una parte consistente del
territorio siriano.
Inoltre i vertici di Mosca mesi stanno tornando a giocare un ruolo di
primo piano in Afganistan, riarmando i signori della guerra dell'ex
Alleanza del Nord impegnati a contrastare l'avanzata talebana anche nel
nord del Paese.
Gli ex-comandanti dell'Alleanza del Nord da tempo sono corsi ai ripari,
ignorando le forze armate di Karzai e della Nato. Dopo aver
rispolverato a febbraio la vecchia Alleanza del Nord (aggiungendo al
nome ufficiale di allora, Fronte Unito, l'aggettivo Nazionale), a marzo
hanno ripreso ad armarsi in grande stile, rivolgendosi al loro vecchio
fornitore: la Russia, smaniosa da parte sua di tornare a giocare un
ruolo di primo piano sullo scacchiere afgano, al fine di contrastare la
crescente egemonia Usa e Nato sui confini dell'ex impero sovietico, ma
anche perché in Afganistan da tempo si parla di un rilancio da
parte degli Stati Uniti del progetto di gasdotto che fu dell'Unocal,
notoriamente naufragato durante il regime talebano.
In un simile contesto euro-asiatico, appare chiaro come ormai non si
esita a ricorrere ad ogni mezzo: conflitti locali, colpi di stato,
guerriglie, sedicenti rivoluzioni democratiche, terrorismo, riarmo
convenzionale e nucleare.
Lo Stato italiano, che nello scorso febbraio ha già segretamente
firmato un accordo quadro di adesione al progetto dello "scudo", appare
coinvolto pienamente in tale contesto di guerra e, con ogni
probabilità, anche il nostro territorio si appresta ad ospitare
installazioni avanzate facenti parte del sistema, quali radar e
missili, magari all'interno di esistenti basi Usa o Nato.
E, per assurdo, potrebbero esserci già, coperti dall'eterno segreto militare.
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