Quello sulla prossima costituzione del Partito democratico è un
dibattito di maniera che tradisce l'assoluta artificiosità di un
progetto politico che appare debole ancor prima della sua
realizzazione. Eppure, la candidatura di Walter Veltroni a leader del
nuovo soggetto politico sembra aver riacceso un qualche interesse su un
argomento che, fino a pochi giorni fa, si era arenato anche
mediaticamente nelle dispute di bottega tra funzionari dei Ds e della
Margherita.
Oggi, con la discesa in campo (sic!) dell'attuale sindaco di Roma, la
classe dirigente del paese gioca la carta della visibilità
presentando Veltroni, non senza un certo afflato messianico, come
l'homo novus del centrosinistra capace di ridare linfa alla coalizione
e una identità moderna e accattivante al futuro Partito
democratico. Tant'è che lo stesso Veltroni, facendo finta di
schermirsi con il solito irritante atteggiamento da
bravo-ragazzo-con-la-testa-sulle-spalle, ha rivelato che i sondaggi
darebbero il nuovo partito al 35% proprio in virtù della sua
candidatura e, soprattutto, della scelta di ricorrere alle primarie per
l'elezione del segretario e dell'assemblea costituente. Una ventata di
novità che porta con sé il tanfo della solita vecchia,
vecchissima politica. Perché ci vuole davvero un bel coraggio a
spacciare Veltroni per un volto nuovo: dall'impegno politico negli anni
'70 nella Fgci, della quale è stato segretario romano e membro
della direzione nazionale, Veltroni ha scalato le posizioni più
alte nel Pci-Pds-Ds (è stato anche direttore de l'Unità)
passando per importanti cariche istituzionali del primo governo Prodi
fino all'attuale sindacatura (già al secondo mandato) del Comune
di Roma. Una carriera certamente brillante i cui elementi più
innovativi possono senz'altro ricondursi all'impostazione tutta
mediatica dell'agire politico: predilezione per i temi della cultura,
dell'arte, dell'immagine, buoni sentimenti a go go e un culto
abbastanza provinciale del kennedysmo e del liberal-ismo americano con
una singolare macedonia pop a base di Bob Kennedy, Martin Luther King,
Gandhi, Madre Teresa di Calcutta e John Lennon. Abbiamo ragione di
credere che tutti questi personaggi si rivoltino nella tomba, chi per
un motivo chi per un altro, ogni volta che Veltroni li evoca.
L'operazione che sta dietro al Partito democratico è un incubo a
occhi aperti: le due culture politiche che hanno dominato per quasi un
secolo la società italiana - quella cattolica e quella del PCI -
si fondono in un soggetto che raccoglierà in sé il peggio
del peggio degli epigoni del cattocomunismo di casa nostra. Al di
là della faccia paciosa di Veltroni, il Partito democratico
è figlio di una nomenklatura vecchia non tanto anagraficamente
quanto nella cultura e nell'approccio alla gestione del potere. La
presunta democraticità che dovrebbe derivare al nuovo partito
dall'investitura "dal basso" del leader attraverso le primarie è
invece la riproposizione trita e ritrita del meccanismo della delega,
dell'incoronazione di un ceto politico che - a ben guardare - è
quello di sempre. Dal 15 ottobre alla guida del Pd non ci saranno
né volti nuovi né dilettanti allo sbaraglio, ma solo i
volponi di sempre che avranno soltanto cambiato casacca. Inoltre, si ha
la netta sensazione che i giochi siano ormai fatti e che le candidature
"alternative" a quella di Veltroni servano solo a dare una parvenza di
competitività e dialettica interne a un partito nel quale si
ridefiniranno influenze e sottopoteri nella più classica
tradizione del correntismo all'italiana. Proprio come nel Pci, proprio
come nella Dc.
Il nuovo che avanza del Partito democratico è, in definitiva,
l'ennesimo colpo di coda di una politica vecchia che, ancora una volta,
ricicla se stessa pur di stare sempre a galla.
TAZ laboratorio di comunicazione libertaria