Il 21 e 22 giugno è cominciato nella baraccopoli di via
Barzaghi-Triboniano a Milano, l'ennesimo sgombero ai danni della
comunità rom-rumena, da quasi dieci anni al centro delle
cronache cittadine (e non solo).
Una situazione, quella di Barzaghi-Triboniano, che, pur collocandosi
nel quadro di una guerra senza fine e senza confini verso i rom che
caratterizza tutte le aree metropolitane italiane, non è
così "facilmente" gestibile. Da una parte l'ingresso nella
comunità europea della Romania ha reso impossibile l'utilizzo
della deportazione di massa come sbocco principale delle operazioni di
sgombero. Dall'altra il numero degli abitanti dell'immensa baraccopoli,
(si supera abbondantemente il migliaio di persone), e i complessi
legami parentali interni, costituiscono una matassa difficile da
sbrogliare per coloro che intendono semplicemente portare a compimento
operazione di selezione e sfoltimento.
E così anche questa operazione, largamente preannunciata e
costruita in oltre 9 mesi di preparativi (censimenti divisionisti,
operazioni di allestimento di nuove aree "attrezzate", definizione di
criteri di gestione, individuazione di soggetti politici adibiti al
controllo, ecc) ha finito, come già in altre occasioni, per far
esplodere il conflitto. In questo caso sono state le 60 famiglie
destinate ad abbandonare l'area (per lo più lavoratori,
residenti nell'area e con figli regolarmente iscritti a scuola da molti
anni) a scatenare la bagarre dopo la distruzione delle loro abitazioni.
Prima hanno tentato di occupare l'area destinata alle famiglie
più "fortunate", poi barricandosi in una struttura adiacente
(che fu allestita per i regolari sfuggiti alla deportazione dopo lo
sgombero di via Adda nel 2004) hanno fronteggiato per diverse ore
vigili, carabinieri e poliziotti al fine di non farsi allontanare e di
rivendicare una soluzione abitativa per tutti. I rom sono riusciti a
resistere ai tentativi di carica e, pur non essendo riusciti per il
momento a ottenere una soluzione abitativa degna di questo nome, hanno
comunque respinto i piani repressivi e restano nell'area, spina nel
fianco dei piani istituzionali attuali. Dopo il sostanziale fallimento
dell'obiettivo di ridurre il numero delle presenze, la palla rimbalza
nuovamente alle istituzioni che dovranno conciliare l'ipotesi della
tolleranza zero con l'utopia dell'integrazione dei rom alle logiche
produttivistiche della società attuale. Ben consapevoli di non
poter fare i conti senza l'oste.
Oltre alla capacità di resistenza dimostrata dai rom, l'altro
elemento politicamente significativo che è emerso riguarda il
rifiuto di farsi rappresentare da Don Colmegna nelle trattative con le
istituzioni.
La figura di Don Colmegna, direttore della Casa della Carità
(frutto di una scissione interna alla Caritas e sostenitrice della
coalizione di centro-sinistra in città) è centrale nella
definizione delle nuove politiche milanesi rispetto alla questione rom.
Il pezzo forte di questa politica è il cosiddetto "Patto per la
legalità e la sicurezza", un accordo bipartisan che ha messo
insieme la Moratti e Penati, e che ha definito l'obiettivo del numero
chiuso per i rom e nella prospettiva di un improbabile integrazione
coatta della comunità stessa. Anche la destinazione degli
stanziamenti (in totale circa 3 milioni di euro) mostra chiaramente il
contenuto della strategia messa in campo: per due terzi destinati alle
forze dell'ordine e operazioni di carattere militare, per il resto
destinati alle casse di chi riuscirà a farsi garante del
controllo diretto sulla comunità.
Il patto per la legalità ha avuto anche ricadute interne alla
comunità. È stato lo stesso Don Colmegna, nei mesi
scorsi, a promuovere uno statuto, sottoposto alla firma di ogni singola
famiglia rom, come condizione necessaria per avere accesso alle
strutture destinate a sostituire la vecchia baraccopoli, in cui vengono
enunciate una serie di obblighi e restrizioni per le famiglie rom.
Alcuni esempi per capire: l'ingresso nelle strutture è
quotidianamente sottoposto al controllo degli organi di polizia,
è vietato ospitare persone esterne, parenti di primo grado
compresi, senza autorizzazione scritta, l'allontanamento per più
di un mese dalla propria dimora comporta la perdita del posto,
così come il non rispetto del silenzio notturno e del divieto di
fare elemosina. Misure che, nel loro insieme, definiscono chiaramente
il carattere coercitivo del patto e l'esigenza di controllo assoluto
sulla sub-società zingara. Chi, tra i rom, ha osato nei mesi
scorsi contrapporsi al diktat ha potuto assaggiare la vera natura del
"buonismo" della Casa della Carità: espulsi dal campo di Parco
Lambro, dichiarati cittadini indesiderati dalla Prefettura e infine
accompagnati in maniera coatta in Romania, dove verranno "assistiti" da
strutture sotto il controllo di… Don Colmegna. Ecco il vero
senso dell'abbattimento delle frontiere con la Romania.
La battaglia, ancora in corso, nel luogo che ancora una volta si
dimostra il più caldo della città, va quindi ben oltre il
futuro di 60 famiglie. È in gioco un'ipotesi politica che,
mentre sbandiera demagogicamente la necessità di comprensione e
solidarietà, cerca di ribadire la supremazia della
"civiltà" occidentale, della sua politica, delle sue
verità intoccabili, del suo intimo e profondo razzismo.
Un'ipotesi che cozza in maniera inconciliabile con la
possibilità che la sorte di un intero popolo, da sempre vittima
di discriminazioni e persecuzioni etniche, possa congiungersi con
quella di milioni di proletari a partire dalla rivendicazione degli
stessi diritti fondamentali, a cominciare da quello ad un'abitazione
degna e sicura.
Fabio Zerbini