Umanità Nova, n.23 del 1 luglio 2007, anno 87

Ischia: Paradiso dei lavoratori


E magari si sentivano pure tra i più fortunati. Ad avere un lavoro. Loro, Ionel Balam, Marin Ghiorghyta e Ionita Dumitru, migranti comunitari rumeni in un'isola verde – "Ischia, paradive 'e gioventù", come la canta Totò – da sempre votata al turismo, alla bella vita, ad uno sfruttamento lavorativo intenso, concentrato e senza orario. Per la "stagione", si capisce. Quella che a Ischia si attende tutto l'anno: per vedere, farsi vedere e rimanere per lo più e per i più invisibili sui posti di lavoro (alberghi, ristoranti, parchi termali, beauty farm…) fino a quando…
Fino a quando si schiatta lentamente, lentamente, dopo diciotto ore di lavoro giornaliero, oppure si muore velocemente, rapidamente, volando da un cornicione di un albergo che si sta ristrutturando con altri compaesani, che da quel momento diventeranno ancor più invisibili agli occhi della Guardia di Finanza, della Magistratura inquirente, e dei giornalisti accorsi sul luogo della "disgrazia" nell'illusione di raccontare ciò che non si può – non si deve – raccontare: l'ipocrisia degli organi pubblici, l'intrallazzo dei privati, l'indifferenza degli abitanti.
Ma la morte, si sa, non fa sconti. E soprattutto e difficile metterla a tacere. Così, l'ennesimo omicidio sul lavoro che ha avuto come vittime i due rumeni "fortunati", mentre il terzo giace nel letto di una corsia d'ospedale con lo schiacciamento di un polmone, un'emorragia interna e diverse fratture, ha nuovamente posto all'attenzione il problema dei morti sul lavoro. Problema, ovviamente, per chi è congiunto del morto. Non certo per chi quella morte l'ha direttamente e indirettamente causata, dal momento che – stando a quanto riferiscono i dati ufficiali – dall'inizio dell'anno in Italia si registra una media di 4 morti al giorno a causa del lavoro, anzi della sua organizzazione. Meglio dei suoi organizzatori.
Organizzatori, datori di lavori, manager, imprenditori, armatori, che il lavoro risulta al centro dei loro interessi, al punto che se non ci fossero loro, non ci sarebbe neppure il lavoro. Già perché il lavoratore – rispetto al lavoro – è un'accidente e forse per questo se ne parla e se ne discute solo quanto si trasforma in un incidente. Del resto ciò che conta è il prodotto. No, il suo costo. Più è basso, più è un prodotto interessante. Più ci si interessa al modo in cui  è stato prodotto, al suo risparmio di tempo, di denaro, che le lungaggini burocratico-legislative certo non favoriscono. Come ben ha detto Luca Cordero di Montezemolo a chi gli ha chiesto se alla scadenza del mandato di presidenza della Confindustria si sarebbe impegnato in politica: che bisogno c'è, già la sto facendo.
Certo, è un modo di far politica che per comprenderla ed analizzarla non occorre osservare i dati elettorali delle amministrative, delle politiche o delle europee. Altri e ben più concreti sono i risultati che più che uscire dalle cabine elettorali, escono dai cantieri, dalle industrie, dai trasporti. Dati scarni, approssimativi, ma incontrovertibili. Come il fatto che dall'inizio dell'anno ci sono stati 149 lavoratori morti sul lavoro, 139.972 infortuni. Niente male a fronte di un 2006 che si è chiuso con 1280 vittime e 935.000 incidenti. Quello che rimane da capire è se sono tutti qui. O se la proverbiale ritrosia degli imprenditori, non li renda restii a comunicare i dati reali dei morti e degli infortuni sul lavoro. Per non strafare, sia ben chiaro, ma soprattutto per attenersi all'argomento: il lavoro. Perché dei lavoratori è il paradiso. Da morti.
Non è infatti la vita, rispetto al lavoro, anch'essa un accidente?

gianfranco marelli



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