E magari si sentivano pure tra i più fortunati. Ad avere un
lavoro. Loro, Ionel Balam, Marin Ghiorghyta e Ionita Dumitru, migranti
comunitari rumeni in un'isola verde – "Ischia, paradive 'e
gioventù", come la canta Totò – da sempre votata al
turismo, alla bella vita, ad uno sfruttamento lavorativo intenso,
concentrato e senza orario. Per la "stagione", si capisce. Quella che a
Ischia si attende tutto l'anno: per vedere, farsi vedere e rimanere per
lo più e per i più invisibili sui posti di lavoro
(alberghi, ristoranti, parchi termali, beauty farm…) fino a
quando…
Fino a quando si schiatta lentamente, lentamente, dopo diciotto ore di
lavoro giornaliero, oppure si muore velocemente, rapidamente, volando
da un cornicione di un albergo che si sta ristrutturando con altri
compaesani, che da quel momento diventeranno ancor più
invisibili agli occhi della Guardia di Finanza, della Magistratura
inquirente, e dei giornalisti accorsi sul luogo della "disgrazia"
nell'illusione di raccontare ciò che non si può –
non si deve – raccontare: l'ipocrisia degli organi pubblici,
l'intrallazzo dei privati, l'indifferenza degli abitanti.
Ma la morte, si sa, non fa sconti. E soprattutto e difficile metterla a
tacere. Così, l'ennesimo omicidio sul lavoro che ha avuto come
vittime i due rumeni "fortunati", mentre il terzo giace nel letto di
una corsia d'ospedale con lo schiacciamento di un polmone, un'emorragia
interna e diverse fratture, ha nuovamente posto all'attenzione il
problema dei morti sul lavoro. Problema, ovviamente, per chi è
congiunto del morto. Non certo per chi quella morte l'ha direttamente e
indirettamente causata, dal momento che – stando a quanto
riferiscono i dati ufficiali – dall'inizio dell'anno in Italia si
registra una media di 4 morti al giorno a causa del lavoro, anzi della
sua organizzazione. Meglio dei suoi organizzatori.
Organizzatori, datori di lavori, manager, imprenditori, armatori, che
il lavoro risulta al centro dei loro interessi, al punto che se non ci
fossero loro, non ci sarebbe neppure il lavoro. Già
perché il lavoratore – rispetto al lavoro – è
un'accidente e forse per questo se ne parla e se ne discute solo quanto
si trasforma in un incidente. Del resto ciò che conta è
il prodotto. No, il suo costo. Più è basso, più
è un prodotto interessante. Più ci si interessa al modo
in cui è stato prodotto, al suo risparmio di tempo, di
denaro, che le lungaggini burocratico-legislative certo non
favoriscono. Come ben ha detto Luca Cordero di Montezemolo a chi gli ha
chiesto se alla scadenza del mandato di presidenza della Confindustria
si sarebbe impegnato in politica: che bisogno c'è, già la
sto facendo.
Certo, è un modo di far politica che per comprenderla ed
analizzarla non occorre osservare i dati elettorali delle
amministrative, delle politiche o delle europee. Altri e ben più
concreti sono i risultati che più che uscire dalle cabine
elettorali, escono dai cantieri, dalle industrie, dai trasporti. Dati
scarni, approssimativi, ma incontrovertibili. Come il fatto che
dall'inizio dell'anno ci sono stati 149 lavoratori morti sul lavoro,
139.972 infortuni. Niente male a fronte di un 2006 che si è
chiuso con 1280 vittime e 935.000 incidenti. Quello che rimane da
capire è se sono tutti qui. O se la proverbiale ritrosia degli
imprenditori, non li renda restii a comunicare i dati reali dei morti e
degli infortuni sul lavoro. Per non strafare, sia ben chiaro, ma
soprattutto per attenersi all'argomento: il lavoro. Perché dei
lavoratori è il paradiso. Da morti.
Non è infatti la vita, rispetto al lavoro, anch'essa un accidente?
gianfranco marelli