Umanità Nova, n.24 dell'8 luglio 2007, anno 87

Hamausland / Gaza. Una gabbia disperata


Forse il gioco di parole non è subito percepibile: quel che vorrei comunicare è il timore che la neonata entità palestinese di Hamasland corre il rischio di fare la fine dei topi, accerchiata, strangolata, asfissiata. Da qui il titolo Hamausland (in inglese "topo" si scrive "mouse" ma si legge "maus"...). Ma andiamo con ordine.

La conquista della striscia di Gaza da parte di Hamas, con la conseguente espulsione di Fatah, segna una svolta da sempre auspicata dagli israeliani: l'innesco di una guerra civile infrapalestinese. Quando Arafat sembrava essere l'unico in grado di unificare le diverse fazioni politiche che si contendevano l'onere della rappresentanza ufficiale della "nazione" palestinese (un tempo malvista persino dalla leadership dei paesi fratelli arabi della regione, e tuttora precaria in quanto tale, al punto che alcuni hanno rispolverato l'ipotesi di considerare la Giordania la terra della popolazione arabo-palestinese), Israele nel corso della I Intifada si mise a "finanziare" sottobanco Hamas, che acquistò così credito anche grazie ad un rigido controllo della spesa pubblica caritatevole di natura religiosa, indirizzata verso servizi sociali a basso profitto (pertanto disdegnata dai ceti emergenti laici di Fatah, ambiziosi di godere privilegi tipici di un qualsiasi ceto politico) ma dall'alto investimento politico.
Quando Hamas ha capitalizzato la sua strategia di accaparramento di consenso, anche grazie alla corruzione diffusa del sistema laico di Arafat & soci, conquistando così la maggioranza nelle elezioni politiche del 2006, imponendo prima un governo semi-monocolore, poi costretto a subire una coabitazione mediata dalla Mecca, Israele (sostenuta questa volta sottobanco da parte di Fatah) ha orientato il Quartetto e le istituzioni finanziarie a congelare gli aiuti allo pseudo-governo di una pseudo-Autorità Palestinese (nata da Oslo per gentile concessione revocabile di Israele, nei cui documenti non compare mai il termine "governo" né tanto meno l'aggettivo "nazionale"), mentre gli Usa autorizzavano il riarmo a Gaza di Fatah tramite la Forza 17 del colonnello Dahlan, l'ex-uomo forte della leadership laica palestinese, autoricoveratosi (prudentemente? miracolosamente?) al Cairo nelle settimane di scontri civili a Gaza.
La sconfitta di Dahlan è bruciante con tutte le armi ricevute (Hamas ha potuto godere di armamenti probabilmente acquistati presso i pasdaran iraniani e fatti affluire tramite i tunnel sotterranei di Refah, al confine egiziano, forse con la benevolenza israeliana che controlla una striscia intermedia tra terra egiziana e striscia di Gaza). Corre il sospetto che l'avvio di una bilaterale pulizia politica all'interno della "nazione" palestinese sia il preludio della classica tattica americana di confinare gli avversari di turno in un territorio delimitato per poi contenerli a tempo determinato, ossia finché fanno comodo prima di sterminarli o di catapultarli da un'altra parte. Del resto, calza il paragone con il brutale decennio algerino degli anni '90 - anche lì nato da una interruzione di un processo elettorale democratico invocato da tutti per obbligare gli islamisti a piegarsi al gioco democratico, salvo poi invalidarlo ad Algeri militarmente, a Gaza economicamente, quando sono gli islamisti a vincerlo, come a dire: la democrazia vale se chi vince è gradito in anticipo, in caso contrario non funziona più.
Certo, le battute sui "due popoli, tre stati" stanno a testimoniare come la questione palestinese sia sepolta per i prossimi decenni, consapevoli alcuni eminenti protagonisti del "risorgimento" palestinese, venendo integrata nella War on terror voluta dai neocon bushiani e molto facilmente accettata dalla dirigenza israeliana che deve ancora risolvere la successione a Sharon. La spaccatura dentro Hamas tra una leadership in esilio a Damasco che controlla i cordoni della borsa senza poter far arrivare se non gli spiccioli alla dirigenza pragmatica di Hamas sulla striscia verrà giocata al massimo in quanto è e sarà sempre più difficile gestire una popolazione di 1.4 milioni di palestinesi disperati e armati, con redditi pro-capite tra 1 e 2 dollari giornalieri, senza fondi da utilizare per i servizi pubblici di prima necessità, con cui conquistare il consenso degli anni passati (lo spirito aggregante della fede religiosa non basta, lo si è già registrato nelle ultime elezioni all'Università di Bir Zeit, vicino a Ramallah, nella West Bank, dove la lista di Hamas ha vinto ma di strettissima misura, denunciando un pronunciato calo di consenso tra le masse giovanili di quella parte di territori occupati, in cui sta crescendo da qualche anno una parte politica volutamente esterna e al limite contrapposta sia a Fatah che ad Hamas).
Anche se però arriveranno fondi a Mahmud Abbas, la groviera della West Bank, priva di Gaza, non prelude ad un futuro stato palestinese, e Gaza abbandonata a se stessa fungerà da contenitore di infezioni che difficilmente Israele potrà contenere blindandone le frontiere. Il n. 2 di Al Qaeda ha provato a dichiararsi favorevole ad un califfato islamista a Gaza, nonostante i rimbrotti alla dirigenza locale per "fare politica", ma Hamas finora non è si è mai lasciata abbindolare dalle sirene jihadiste, soprattutto perché Bin Laden dirige un marchio di impresa buono per tutto tranne che per gestire un territorio, una popolazione, risorse economiche pubbliche, servizi sociali, ecc. ossia proprio ciò che un tempo aveva fatto la fortuna di Hamas tra i palestinesi stufi delle villone al mare dei familiari seguaci dei clan vincenti vicini ad Arafat ed ai "tunisini" della diaspora, mentre chi aveva combattuto Israele in trincea veniva emarginato o addirittura "denunciato" e "tradito".
La storia conosce l'ironia, specie se a posteriore e sulla pelle dei popoli senza potere. Il tramonto di una realtà statuale palestinese fa riemergere lo spettro israeliano: due popoli in un solo stato, con un rapporto demografico a tutto vantaggio degli arabi che popoleranno in maggioranza schiacciante, fra qualche decennio, il tratto di terra che va dal mediterraneo al fiume Giordano. L'incubo della leadership ebraica si materializzerà quando il futuro stato israeliano supererà l'anomalia costituzionale attuale: l'aggettivo "ebraico" designa infatti come cittadini non l'insieme della popolazione leale alla Costituzione, ma solo una parte di essa designata dalla fede religiosa, e non dalla nazionalità di appartenenza.
Questa soluzione di pacificazione, invocata in tempi non sospetti da Chomsky e Said, tra i tanti, e prevalente nell'immaginario sociale sino alla nascita del nazionalismo palestinese di Arafat - per ovvi motivi: un ceto politico in cerca di legittimazione e di privilegi non poteva che cambiare l'agenda politica per obbligare la popolazione ad adeguarsi ad essa, a prescindere l'interesse nazionale – prenderà piede come surroga politica di una guerra civile a bassa intensità che tutte le parti in causa proveranno a rendere permanente, sulla carne, abbondantemente e da tempo ormai immemore martoriata, di migliaia di palestinesi privi di speranza e prospettive di libertà. La loro emancipazione avverrà nella forma che potrà aprirsi nel campo del possibile geopolitico mondiale, che per i prossimi decenni sembra segnato dal fetore di morte che si eleva in ogni luogo del pianeta dove la violenta ricerca del potere per pochi trova nello stato, nel quasi-stato, nello stato-fallito, nello stato-protetto, una pedina del gioco di (ristrette) forze protese al predominio planetario.
Riusciranno popoli inermi e indifesi, oppressi e martoriati, a rialzare la testa e a sbarazzarsi di ogni elite assatanata di potere sui loro corpi, cominciando ad auto-organizzarsi giorno dopo giorno, eludendo le trappole della realpolitik per trasformare i sogni in quotidianità? È la sfida che l'anarchia ha raccolto da secoli e che rilancia giorno dopo giorno, anche quando, forse soprattutto quando i tempi della storia militano decisamente contro la fiducia nelle capacità dei popoli a reggersi da sé senza servi e senza padroni, senza dio e senza stato. Proprio la sola ricetta a lungo termine che servirebbe in Medio oriente oggi.

Massimo Tessitore




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