Forse il gioco di parole non è subito percepibile: quel che
vorrei comunicare è il timore che la neonata entità
palestinese di Hamasland corre il rischio di fare la fine dei topi,
accerchiata, strangolata, asfissiata. Da qui il titolo Hamausland (in
inglese "topo" si scrive "mouse" ma si legge "maus"...). Ma andiamo con
ordine.
La conquista della striscia di Gaza da parte di Hamas, con la
conseguente espulsione di Fatah, segna una svolta da sempre auspicata
dagli israeliani: l'innesco di una guerra civile infrapalestinese.
Quando Arafat sembrava essere l'unico in grado di unificare le diverse
fazioni politiche che si contendevano l'onere della rappresentanza
ufficiale della "nazione" palestinese (un tempo malvista persino dalla
leadership dei paesi fratelli arabi della regione, e tuttora precaria
in quanto tale, al punto che alcuni hanno rispolverato l'ipotesi di
considerare la Giordania la terra della popolazione arabo-palestinese),
Israele nel corso della I Intifada si mise a "finanziare" sottobanco
Hamas, che acquistò così credito anche grazie ad un
rigido controllo della spesa pubblica caritatevole di natura religiosa,
indirizzata verso servizi sociali a basso profitto (pertanto disdegnata
dai ceti emergenti laici di Fatah, ambiziosi di godere privilegi tipici
di un qualsiasi ceto politico) ma dall'alto investimento politico.
Quando Hamas ha capitalizzato la sua strategia di accaparramento di
consenso, anche grazie alla corruzione diffusa del sistema laico di
Arafat & soci, conquistando così la maggioranza nelle
elezioni politiche del 2006, imponendo prima un governo
semi-monocolore, poi costretto a subire una coabitazione mediata dalla
Mecca, Israele (sostenuta questa volta sottobanco da parte di Fatah) ha
orientato il Quartetto e le istituzioni finanziarie a congelare gli
aiuti allo pseudo-governo di una pseudo-Autorità Palestinese
(nata da Oslo per gentile concessione revocabile di Israele, nei cui
documenti non compare mai il termine "governo" né tanto meno
l'aggettivo "nazionale"), mentre gli Usa autorizzavano il riarmo a Gaza
di Fatah tramite la Forza 17 del colonnello Dahlan, l'ex-uomo forte
della leadership laica palestinese, autoricoveratosi (prudentemente?
miracolosamente?) al Cairo nelle settimane di scontri civili a Gaza.
La sconfitta di Dahlan è bruciante con tutte le armi ricevute
(Hamas ha potuto godere di armamenti probabilmente acquistati presso i
pasdaran iraniani e fatti affluire tramite i tunnel sotterranei di
Refah, al confine egiziano, forse con la benevolenza israeliana che
controlla una striscia intermedia tra terra egiziana e striscia di
Gaza). Corre il sospetto che l'avvio di una bilaterale pulizia politica
all'interno della "nazione" palestinese sia il preludio della classica
tattica americana di confinare gli avversari di turno in un territorio
delimitato per poi contenerli a tempo determinato, ossia finché
fanno comodo prima di sterminarli o di catapultarli da un'altra parte.
Del resto, calza il paragone con il brutale decennio algerino degli
anni '90 - anche lì nato da una interruzione di un processo
elettorale democratico invocato da tutti per obbligare gli islamisti a
piegarsi al gioco democratico, salvo poi invalidarlo ad Algeri
militarmente, a Gaza economicamente, quando sono gli islamisti a
vincerlo, come a dire: la democrazia vale se chi vince è gradito
in anticipo, in caso contrario non funziona più.
Certo, le battute sui "due popoli, tre stati" stanno a testimoniare
come la questione palestinese sia sepolta per i prossimi decenni,
consapevoli alcuni eminenti protagonisti del "risorgimento"
palestinese, venendo integrata nella War on terror voluta dai neocon
bushiani e molto facilmente accettata dalla dirigenza israeliana che
deve ancora risolvere la successione a Sharon. La spaccatura dentro
Hamas tra una leadership in esilio a Damasco che controlla i cordoni
della borsa senza poter far arrivare se non gli spiccioli alla
dirigenza pragmatica di Hamas sulla striscia verrà giocata al
massimo in quanto è e sarà sempre più difficile
gestire una popolazione di 1.4 milioni di palestinesi disperati e
armati, con redditi pro-capite tra 1 e 2 dollari giornalieri, senza
fondi da utilizare per i servizi pubblici di prima necessità,
con cui conquistare il consenso degli anni passati (lo spirito
aggregante della fede religiosa non basta, lo si è già
registrato nelle ultime elezioni all'Università di Bir Zeit,
vicino a Ramallah, nella West Bank, dove la lista di Hamas ha vinto ma
di strettissima misura, denunciando un pronunciato calo di consenso tra
le masse giovanili di quella parte di territori occupati, in cui sta
crescendo da qualche anno una parte politica volutamente esterna e al
limite contrapposta sia a Fatah che ad Hamas).
Anche se però arriveranno fondi a Mahmud Abbas, la groviera
della West Bank, priva di Gaza, non prelude ad un futuro stato
palestinese, e Gaza abbandonata a se stessa fungerà da
contenitore di infezioni che difficilmente Israele potrà
contenere blindandone le frontiere. Il n. 2 di Al Qaeda ha provato a
dichiararsi favorevole ad un califfato islamista a Gaza, nonostante i
rimbrotti alla dirigenza locale per "fare politica", ma Hamas finora
non è si è mai lasciata abbindolare dalle sirene
jihadiste, soprattutto perché Bin Laden dirige un marchio di
impresa buono per tutto tranne che per gestire un territorio, una
popolazione, risorse economiche pubbliche, servizi sociali, ecc. ossia
proprio ciò che un tempo aveva fatto la fortuna di Hamas tra i
palestinesi stufi delle villone al mare dei familiari seguaci dei clan
vincenti vicini ad Arafat ed ai "tunisini" della diaspora, mentre chi
aveva combattuto Israele in trincea veniva emarginato o addirittura
"denunciato" e "tradito".
La storia conosce l'ironia, specie se a posteriore e sulla pelle dei
popoli senza potere. Il tramonto di una realtà statuale
palestinese fa riemergere lo spettro israeliano: due popoli in un solo
stato, con un rapporto demografico a tutto vantaggio degli arabi che
popoleranno in maggioranza schiacciante, fra qualche decennio, il
tratto di terra che va dal mediterraneo al fiume Giordano. L'incubo
della leadership ebraica si materializzerà quando il futuro
stato israeliano supererà l'anomalia costituzionale attuale:
l'aggettivo "ebraico" designa infatti come cittadini non l'insieme
della popolazione leale alla Costituzione, ma solo una parte di essa
designata dalla fede religiosa, e non dalla nazionalità di
appartenenza.
Questa soluzione di pacificazione, invocata in tempi non sospetti da
Chomsky e Said, tra i tanti, e prevalente nell'immaginario sociale sino
alla nascita del nazionalismo palestinese di Arafat - per ovvi motivi:
un ceto politico in cerca di legittimazione e di privilegi non poteva
che cambiare l'agenda politica per obbligare la popolazione ad
adeguarsi ad essa, a prescindere l'interesse nazionale –
prenderà piede come surroga politica di una guerra civile a
bassa intensità che tutte le parti in causa proveranno a rendere
permanente, sulla carne, abbondantemente e da tempo ormai immemore
martoriata, di migliaia di palestinesi privi di speranza e prospettive
di libertà. La loro emancipazione avverrà nella forma che
potrà aprirsi nel campo del possibile geopolitico mondiale, che
per i prossimi decenni sembra segnato dal fetore di morte che si eleva
in ogni luogo del pianeta dove la violenta ricerca del potere per pochi
trova nello stato, nel quasi-stato, nello stato-fallito, nello
stato-protetto, una pedina del gioco di (ristrette) forze protese al
predominio planetario.
Riusciranno popoli inermi e indifesi, oppressi e martoriati, a rialzare
la testa e a sbarazzarsi di ogni elite assatanata di potere sui loro
corpi, cominciando ad auto-organizzarsi giorno dopo giorno, eludendo le
trappole della realpolitik per trasformare i sogni in
quotidianità? È la sfida che l'anarchia ha raccolto da
secoli e che rilancia giorno dopo giorno, anche quando, forse
soprattutto quando i tempi della storia militano decisamente contro la
fiducia nelle capacità dei popoli a reggersi da sé senza
servi e senza padroni, senza dio e senza stato. Proprio la sola ricetta
a lungo termine che servirebbe in Medio oriente oggi.
Massimo Tessitore