Si sta avviando alla conclusione il processo che vede alla sbarra 10
antifascisti torinesi accusati di devastazione e saccheggio per aver
partecipato ad un corteo il 18 giugno del 2005, indetto in
solidarietà alle vittime di una grave aggressione fascista. La
settimana precedente una squadraccia armata di coltelli e bastoni aveva
forzato la porta del cortile della casa occupata il Barocchio e aveva
ferito due anarchici. Uno di loro, l'intestino trapassato da un
fendente, era stato operato d'urgenza. Solo per un caso non c'era
scappato il morto. I media minimizzarono, trattando la faccenda come
uno "scontro" tra estremisti.
Al contrario poche sedie e qualche tavolino finiti in strada dopo la
breve carica con cui si concluse il corteo del 18 giugno divennero
occasione di una feroce campagna di criminalizzazione da parte dei
media e dei politici cittadini. Un PM particolarmente solerte nel
perseguire gli anarchici, Marcello Tatangelo, nel giro di un mese
formulò un'accusa gravissima nei confronti di 10 manifestanti.
Ai due arrestati in piazza e rilasciati dopo due settimane se ne
aggiunsero altri 8 che tra galera e domiciliari verranno privati della
libertà per sei mesi. In questi due anni si sono moltiplicate le
iniziative di solidarietà ed informazione: due cortei per il
centro cittadino, presidi al tribunale in occasione delle udienze,
serate informative, contestazioni al corteo istituzionale del 25
aprile, cene e concerti di solidarietà.
In questa vicenda, nella quale 10 persone si giocano un pezzo di vita,
noi tutti ci giochiamo la libertà di manifestare liberamente le
nostre idee.
Siamo di fronte a una vera e propria torsione politica del diritto:
semplici "danneggiamenti" danno luogo a un'imputazione da tempo di
guerra, da disastro epocale. Un'imputazione che si configura come reato
di tipo collettivo, che rende immediatamente colpevole chiunque prenda
parte ad una manifestazione per il solo fatto di esserci.
Nell'udienza svoltasi il 17 luglio il PM Tatangelo si è
premurato di avvisare alcuni testimoni della difesa, la cui posizione
era stata archiviata, che rischiavano di essere nuovamente inquisiti.
Al di là della palese volontà intimidatoria del PM,
emerge in modo sin troppo chiaro che, se la tesi dell'accusa dovesse
essere accolta dai giudici, in base alla supposta intenzione di
devastare e saccheggiare, chiunque partecipi ad un corteo che termini
con qualche scontro con la polizia rischia di finire alla sbarra con
un'accusa che costa da 8 a 15 anni di reclusione. Nel caso della
manifestazione antifascista del 18 giugno 2005 è bastata una
carica volta ad impedire ai manifestanti di proseguire verso il centro
cittadino per far scattare le manette.
L'accusa di "devastazione e saccheggio" palesa la chiara volontà di criminalizzare le manifestazioni di piazza.
Non c'è uno straccio di prova a carico dei 10 compagni. Ma che
importa? A sentire i PM, basterebbe l'intenzione. E che l'intenzione vi
fosse lo deducono dalle biografie politiche redatte dai funzionari di
polizia. Detto in altro modo: sono colpevoli perché anarchici o
antagonisti, al di là della responsabilità individuale
sui fatti loro contestati.
A Torino e ovunque nel nostro paese ormai da anni si moltiplicano le
aggressioni di marca fascista, aggressioni gravi, nelle quali per ben
due volte, a Milano e a Roma, ci è scappato il morto: Davide e
Renato, due giovani ammazzati a coltellate.
Solo due settimane fa ancora a Roma i fascisti hanno assalito gli
spettatori di un concerto all'aperto, ferendone gravemente uno, mentre
le forze del disordine statale non hanno trovato di meglio che
arrestare due persone che avevano in qualche modo cercato di difendersi
dalla furia squadrista. Qualche giorno dopo nuovo assalto fascista ad
una casa occupata nel quartiere di Casalbertone a Roma. Non si tratta
di casi isolati ma di una pratica violenta che va avanti mentre
politici e media minimizzano riducendo fatti anche molto gravi a
scontri tra estremisti.
Per certa magistratura, per certi politici gli antifascisti sono
banditi. Oggi come durante la lunga Resistenza al fascismo. I giudici e
i politici non vedono le lame fasciste che continuano a colpire e
mandano sotto processo chi i fascisti detesta e combatte con i fatti e
non a parole.
Il delirio giuridico che ha colpito i 10 antifascisti torinesi è
il segnale inequivocabile della volontà di mettere a tacere
tutte le voci scomode che ancora si levano sotto la Mole.
Per tutto il 2005 la nostra regione ha vissuto un lungo assedio
preolimpico: sgomberi, arresti, repressione delle rivolte al Cpt,
violenza contro i No Tav… Un assedio che continua. La
normalizzazione chiampariniana va avanti: dagli sgomberi dei campi rom
al raddoppio del CPT.
Legge & polizia è la parola d'ordine che attraversa
trasversalmente tutti gli schieramenti politici, che alimentano e
coltivano un clima da guerra contro chi, per scelta o per
necessità, si trova ai margini del Grande Luna Park che è
Chiampa City, dove si spendono milioni per la festa del padrone e si
portano via le roulotte ai rom rumeni.
In questo clima l'utilizzo di un'accusa come quella di "devastazione e
saccheggio" nei confronti di chi non si arrende alle violenze fasciste
fa il paio con le denunce e i processi che colpiscono i No Tav che
resistettero a Venaus e gli antirazzisti che lottano contro il CPT e
chi lo gestisce.
Il governo di Roma e quello di Torino hanno bisogno di pace sociale per
imporre le grandi opere come il Tav, la cementificazione e
normalizzazione dello spazio urbano, criminalizzando coloro che non
sono disponibili a compromessi.
Lo stesso giorno che, nel rombante silenzio dei media, si svolgeva una
delle ultime udienze nel processo agli antifascisti, sempre al
tribunale di Torino prendeva le mosse il dibattimento contro i
poliziotti responsabili dell'assalto e della distruzione del presidio
di Venaus nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2005. Significativo che
nei giorni precedenti i media abbiano scatenato una volgarissima canea
contro il giudice che ha aperto il procedimento a carico della polizia,
condendo di falsità e calunnie i loro articoli.
Fuori dal tribunale il presidio di solidarietà agli antifascisti si è mescolato con quello dei No Tav.
Nel frattempo, nell'aula 3, deponeva il poliziotto che aveva arrestato
due anarchici, Massimiliano e Agnese, nel corso della carica con cui si
concluse la manifestazione antifascista del 18 giugno. L'agente Avola
dichiarava che Massimiliano era in prima fila con una spranga di ferro
e aggrediva con questa i suoi colleghi: secondo Avola Massimiliano era
mascherato ma lui l'avrebbe riconosciuto lo stesso, tenuto d'occhio e
poi bloccato. Lo stesso Avola peraltro non ricordava di avere arrestato
anche Agnese, nonostante avesse a suo tempo firmato il verbale di
arresto per entrambi. Le perizie effettuate hanno dimostrato che sul
tubo, che secondo l'accusa era in mano a Massimiliano, non vi erano
impronte digitali. Nelle foto esibite dalla polizia l'anarchico del
tubo è ritratto con una bandiera rossa e nera appesa ad un'asta
di plastica e senza guanti. Avola ha deliberatamente mentito: nulla di
strano nel cumulo di menzogne su cui è costruita quest'accusa.
Successivamente un altro anarchico, Tobia, riusciva a leggere solo in
parte la propria dichiarazione, perché gli argomenti politici
sono considerati estranei al processo.
Tobia raccontava di una città che sputa sulla memoria dei tanti
che morirono combattendo il fascismo, di una città dove, sono
ormai 9 anni, due anarchici morirono suicidi perché non ressero
il peso delle accuse loro rivolte dai PM Laudi e Tantangelo. Sì,
sempre lui, Tatangelo. Lo stesso che querelò Tobia ed altri per
minacce: vennero condannati a 6 mesi dal tribunale di Milano. Il suo
compare di merende, Laudi, a sua volta ha sporto denuncia per minacce
nei confronti di alcuni anarchici, compresa chi scrive, che lo
contestarono due anni fa alla festa dell'Unità dopo gli arresti
degli antifascisti. Tatangelo divenne tra i protagonisti noir del libro
che Tobia dedicò alla vicenda di Sole e Edoardo, gli anarchici
morti in carcere.
Tobia ha poi raccontato con orgoglio le sue scelte di anarchico, quelle
scelte che lo portano, e con lui altri 9 antifascisti, a rischiare una
lunga detenzione. Parole oscene in un aula di tribunale. Vogliono
tapparci la bocca. Con ogni mezzo.
La prossima udienza è stata fissata il 30 ottobre. Potrebbe essere l'ultima.
Occorre rompere il muro del silenzio nel quale stanno avvolgendo questo
processo nell'attesa di una condanna che sperano esemplare.
Ne va della libertà di 10 antifascisti. Ne va della libertà di noi tutti.
M. M.