Marco Revelli ha scritto su Il manifesto del 6 luglio un interessante
articolo in occasione del lancio della nuova Fiat 500. L'articolo
è interessante sia per le cose che dice sia per quelle che tace.
Il sociologo torinese prende atto che la sua città si sarebbe
trasformata da luogo di produzione di beni materiali a luogo di
produzione di beni immateriali, di immagini. Il padrone sarebbe sempre
lo stesso, il prodotto diverso. La città un tempo ruotava
intorno all'azienda, ne era al servizio, come spazio dormitorio e
ricreativo. Oggi l'intera città, divenuta palcoscenico di
olimpiadi, notti bianche, ecc., è messa al lavoro, come un
organismo biopolitico: tutti sono attori/spettatori con le loro vite in
quello che è ancora e sempre a tutti gli effetti un laboratorio
sociale. Una società fluida, non conflittuale, dove le distanze
si sono allungate, in mano ad un esteso ceto di 10-15.000 abbienti
always on the move, come campeggiava sui manifesti olimpici: Torino non
sta mai ferma. Dietro la superficie smaltata, dice Revelli, sta
però la città dei giovani precari e dei 100.000 anziani
che, pagato affitto, bollette, cibo, restano con 9 € al giorno.
Che un giorno questi "sfortunati" cessino di applaudire e decidano di
ribaltare lo schermo, è storia ancora tutta da scrivere.
Ricostruzione suggestiva, con verità entrate ormai nel senso
comune di chi da anni scruta il realizzarsi della società dello
spettacolo e la messa al lavoro di tutta la vita attraverso la
mercificazione della comunicazione, base della relazione sociale.
Torino è davvero un laboratorio sociale perché la
conversione dal modello di società fordista a quello attuale
è più netta, più polarizzata e quindi più
fotografabile. Torino non ha la complessità di una metropoli
mondiale come Milano o la vocazione eterna di Roma ad essere centro
politico (sia del potere politico laico che di quello religioso).
Torino a suo modo è una città semplice, dalle linee nette
come le sue vie ed i suoi viali.
La descrizione che Revelli fa correttamente rileva la disarticolazione
di una società nella quale manca ogni collante e tutto si agita
in un flusso continuo. Revelli parla della società, ma non parla
mai, in tutto l'articolo, della politica. Questo è interessante.
Primo, perché il collante venuto meno alla società era
proprio rappresentato dalla politica, da una politica capace di farsi
interprete e portatrice di interessi collettivi. Secondo, perché
la città di Torino è saldamente in mano al centrosinistra
dal 1993. L'Unione è stata protagonista della trasformazione
sociale ed urbanistica della città, non l'ha subita, non si
è limitata a governare l'esistente, ma ha gestito in prima
persona facendosi motore di radicali trasformazioni ed ammortizzatore
delle tensioni provenienti dal basso. Da Rifondazione venendo verso il
centro, tutto lo schieramento del centrosinistra ha voluto e portato
avanti le grandi opere urbane, ha aiutato la FIAT ad uscire dalla crisi
di inizio anni 2000, ha trasformato il centro in vetrina mondiale
allontanando solo i "problemi", in senso fisico, dal centro. Chi ha
governato la città negli ultimi quindici anni ha fluidificato il
processo di dissoluzione di ogni solidarietà all'interno della
società stessa, confermando giorno dopo giorno i rispettosi
legami con i "poteri forti", scavando sempre più spazi di potere
proprio, concorrendo a creare quella casta di affermati che vivono non
solo di attività professionale imprenditoriale commerciale, ma
anche di politica. Il ceto politico-sindacale torinese si presenta come
modello per l'Italia che sarà e non è un caso che proprio
a Torino abbia voluto fare la sua prima uscita come candidato
segretario del Pd Veltroni. Ma pochi giorni dopo, con la firma del
manifesto di Rutelli che invita a governare senza la cosiddetta
"sinistra radicale", il sindaco di Torino Chiamparino ha fatto capire
che Veltroni è ancora troppo "di sinistra". In effetti, il ceto
politico non rappresenta interessi, se non i propri ed è quindi
comprensibile l'invocazione di un Chiamparino di "maggioranze
variabili": ciò che conta è governare e gestire il
potere, tutto il resto è irrilevante, perché non
c'è alcuna politica da realizzare, nessun progetto da costruire,
se non quelli in cemento armato; la città e il territorio sono
solo risorse da mettere al lavoro, privatizzando i servizi pubblici,
ripulendo le strade (letteralmente) da coloro che "stonano" (immigrati
per primi), stendendo una fitta rete di controllo del territorio per
prevenire crisi e contestazioni. Il modello Torino indica schiettamente
la direzione di una società in cui la subordinazione non
è solo elemento del rapporto di lavoro, ma costituisce il
carattere della società stessa, trasformata sul serio nella
fabbrica diffusa dei peggiori incubi sociologici. Ma questa volta il
padrone non ha il solito volto.
W.B.