Umanità Nova, n.25 del 22 luglio 2007, anno 87

Torino. Il volto del padrone



Marco Revelli ha scritto su Il manifesto del 6 luglio un interessante articolo in occasione del lancio della nuova Fiat 500. L'articolo è interessante sia per le cose che dice sia per quelle che tace. Il sociologo torinese prende atto che la sua città si sarebbe trasformata da luogo di produzione di beni materiali a luogo di produzione di beni immateriali, di immagini. Il padrone sarebbe sempre lo stesso, il prodotto diverso. La città un tempo ruotava intorno all'azienda, ne era al servizio, come spazio dormitorio e ricreativo. Oggi l'intera città, divenuta palcoscenico di olimpiadi, notti bianche, ecc., è messa al lavoro, come un organismo biopolitico: tutti sono attori/spettatori con le loro vite in quello che è ancora e sempre a tutti gli effetti un laboratorio sociale. Una società fluida, non conflittuale, dove le distanze si sono allungate, in mano ad un esteso ceto di 10-15.000 abbienti always on the move, come campeggiava sui manifesti olimpici: Torino non sta mai ferma. Dietro la superficie smaltata, dice Revelli, sta però la città dei giovani precari e dei 100.000 anziani che, pagato affitto, bollette, cibo, restano con 9 € al giorno. Che un giorno questi "sfortunati" cessino di applaudire e decidano di ribaltare lo schermo, è storia ancora tutta da scrivere.
Ricostruzione suggestiva, con verità entrate ormai nel senso comune di chi da anni scruta il realizzarsi della società dello spettacolo e la messa al lavoro di tutta la vita attraverso la mercificazione della comunicazione, base della relazione sociale. Torino è davvero un laboratorio sociale perché la conversione dal modello di società fordista a quello attuale è più netta, più polarizzata e quindi più fotografabile. Torino non ha la complessità di una metropoli mondiale come Milano o la vocazione eterna di Roma ad essere centro politico (sia del potere politico laico che di quello religioso). Torino a suo modo è una città semplice, dalle linee nette come le sue vie ed i suoi viali.
La descrizione che Revelli fa correttamente rileva la disarticolazione di una società nella quale manca ogni collante e tutto si agita in un flusso continuo. Revelli parla della società, ma non parla mai, in tutto l'articolo, della politica. Questo è interessante. Primo, perché il collante venuto meno alla società era proprio rappresentato dalla politica, da una politica capace di farsi interprete e portatrice di interessi collettivi. Secondo, perché la città di Torino è saldamente in mano al centrosinistra dal 1993. L'Unione è stata protagonista della trasformazione sociale ed urbanistica della città, non l'ha subita, non si è limitata a governare l'esistente, ma ha gestito in prima persona facendosi motore di radicali trasformazioni ed ammortizzatore delle tensioni provenienti dal basso. Da Rifondazione venendo verso il centro, tutto lo schieramento del centrosinistra ha voluto e portato avanti le grandi opere urbane, ha aiutato la FIAT ad uscire dalla crisi di inizio anni 2000, ha trasformato il centro in vetrina mondiale allontanando solo i "problemi", in senso fisico, dal centro. Chi ha governato la città negli ultimi quindici anni ha fluidificato il processo di dissoluzione di ogni solidarietà all'interno della società stessa, confermando giorno dopo giorno i rispettosi legami con i "poteri forti", scavando sempre più spazi di potere proprio, concorrendo a creare quella casta di affermati che vivono non solo di attività professionale imprenditoriale commerciale, ma anche di politica. Il ceto politico-sindacale torinese si presenta come modello per l'Italia che sarà e non è un caso che proprio a Torino abbia voluto fare la sua prima uscita come candidato segretario del Pd Veltroni. Ma pochi giorni dopo, con la firma del manifesto di Rutelli che invita a governare senza la cosiddetta "sinistra radicale", il sindaco di Torino Chiamparino ha fatto capire che Veltroni è ancora troppo "di sinistra". In effetti, il ceto politico non rappresenta interessi, se non i propri ed è quindi comprensibile l'invocazione di un Chiamparino di "maggioranze variabili": ciò che conta è governare e gestire il potere, tutto il resto è irrilevante, perché non c'è alcuna politica da realizzare, nessun progetto da costruire, se non quelli in cemento armato; la città e il territorio sono solo risorse da mettere al lavoro, privatizzando i servizi pubblici, ripulendo le strade (letteralmente) da coloro che "stonano" (immigrati per primi), stendendo una fitta rete di controllo del territorio per prevenire crisi e contestazioni. Il modello Torino indica schiettamente la direzione di una società in cui la subordinazione non è solo elemento del rapporto di lavoro, ma costituisce il carattere della società stessa, trasformata sul serio nella fabbrica diffusa dei peggiori incubi sociologici. Ma questa volta il padrone non ha il solito volto.

W.B.





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