Umanità Nova, n.25 del 22 luglio 2007, anno 87

Conferenza sull'Afganistan
A tavola con il morto



È molto apprezzato per il suo eccellente stile nel vestire, particolarmente per i suoi cappelli e fez.
(Alla voce Hamid Karzai; da Wikipedia, l'enciclopedia in rete)

La Conferenza internazionale "The Rule of Law in Afganistan", svoltasi a Roma ai primi di luglio, è apparsa lontana dalla realtà afgana ben oltre le distanze geografiche esistenti tra Roma e Kabul. Infatti, mentre, nella capitale italiana si discuteva e si stanziavano 360 milioni di dollari (di cui ben 200 stanziati dall'Unione Europea) per la "giustizia", in Afganistan ogni giorno continuavano a morire centinaia di civili sotto le bombe Usa e Nato, suscitando nel ministro degli esteri D'Alema indubitabili "motivi di preoccupazione e turbamento".
Altrettanto distanti le dichiarazioni di D'Alema sulla necessità di "consolidare il consenso dei cittadini afgani intorno alla democrazia". "Questo consenso - sempre secondo il ministro italiano degli esteri - lo si conquista migliorando le condizioni di vita", ad esempio, garantendo "un sistema giudiziario efficace" ed auspicando "un mix efficace tra l'azione militare e un'azione politica di più vasto respiro in grado di recuperare consenso e fiducia tra i cittadini".
Neanche una settimana dopo, nel nord della provincia di Farah, ossia nell'area di competenza del contingente militare italiano di Herat, un'incursione area della Nato ha raso al suolo tredici case sterminando almeno 108 persone.
A dire il vero, l'elegante presidente afgano Karzai ha sollevato prima, durante e dopo la conferenza la questione delle stragi compiute dalle forze d'occupazione che stanno provocando una crescente sollevazione popolare contro il suo, già debole e screditato, governo; ma come in passato sono apparse parole al vento. Raggelante la risposta dell'ambasciatore statunitense all'Onu: "La guerra non è una scienza esatta".
Interessante soffermarsi su chi ha pronunciato una simile cinica battuta.
Zalmay Khalilzad è afgano come le vittime dei bombardamenti sui villaggi. Nato a Mazar-e Sharif nel 1951, Khalilzad discende dalla vecchia élite afgana; suo padre era un collaboratore del re Zahir Shah. Laureatosi all'università di Chicago, centro intellettuale della destra a stelle e strisce, quando l'Urss invase l'Afganistan nel '79, divenne cittadino statunitense, svolgendo un ruolo di collegamento fra gli apparati militari Usa ed i guerriglieri islamici. Consigliere speciale del Dipartimento di Stato sotto Reagan e successivamente sottosegretario alla difesa con Bush senior, durante la guerra contro l'Iraq, passò alla Rand Corporation, una riserva militare d'elite degli Stati Uniti. In quanto di origine afgana ed ex-collaboratore della compagnia petrolifera Unocal negli anni Novanta, il presidente Bush jr. l'ho nominò come suo inviato speciale in Afganistan il 31 dicembre 2001, nove giorni dopo che il governo ad interim di Hamid Karzai, anch'esso ex-collaboratore della Unocal, si stabilisse ufficialmente a Kabul.
Tali designazioni evidenziavano molto chiaramente gli interessi economici esistenti dietro l'aggressione militare degli Stati Uniti con l'operazione Enduring Freedom. Come consigliere della Unocal, Khalilzad era stato autore di un'analisi di rischio per il gasdotto proposto dalla ex repubblica sovietica del Turkmenistan attraverso l'Afghanistan ed il Pakistan fino all'Oceano indiano. Aveva quindi partecipato alle trattative fra la Unocal ed i funzionari del regime talebano nel 1997 per la costruzione di una conduttura attraverso l'Afghanistan occidentale. All'epoca Khalilzad premeva per una politica più tollerante da parte di Washington verso gli studenti coranici al potere a Kabul, sostenendo in un articolo sul Washington Post che "i talebani non praticano uno stile anti-U.S. come il fondamentalismo esercitato dall'Iran".
Teoricamente, un simile personaggio sarebbe dovuto cadere in disgrazia con l'inizio della guerra infinita al terrorismo e l'attacco al regime talebano ritenuto colluso con i terroristi di Al Queda e nemico dei diritti umani, invece il suo perdurante protagonismo politico fa ritenere fondata l'ipotesi che gli Stati Uniti, non potendo vincere militarmente le resistenze armate né stabilizzare con la forza l'Afganistan, stiano in realtà cercando il modo di giungere ad un'intesa con i talebani, peraltro già rappresentati nel governo di Karzai, al fine di chiudere un conflitto ormai in caduta libera ed eliminare il rischio per gli Stati Uniti di rimanere ancora inchiodati in questa sorta di Vietnam, in cui l'Iran, la Russia e la Cina hanno tutto l'interesse di appoggiare ed armare le diverse fazioni claniche con le rispettive milizie combattenti.
Sarebbe solo un ritorno al passato e, se fosse così, si capirebbe perché ai vertici del Pentagono non interessa minimamente se i massacri tra la popolazione civile fomentano l'ostilità contro il governo Karzai, le cui proteste sono sostenute soltanto dall'Unione Europea, e rafforzando di conseguenza proprio gli odiati talebani.
Non ci sono neppure giustificazioni di carattere militare se lo stesso Richard Perle, ex sottosegretario alla difesa, ha ammesso che "I bombardamenti risolvono i singoli scontri ma poi il nemico riappare".
La storia insegna invece che il peggior nemico può sempre divenire il migliore alleato, specialmente in Afganistan dove da sempre gli invasori possono comprarsi la pace ma non vincere la guerra. 

U.F.





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