Umanità Nova, n.27 del 9 settembre 2007, anno 87

Afganistan. Mai dire guerra


Sabato 1° settembre, un attentato - probabilmente una mina - nel distretto di Farah contro un convoglio italiano costituito da sei veicoli e il conseguente lieve ferimento di tre soldati in perlustrazione ha avuto una considerevole eco sui media nazionali, salvo il fatto che della pattuglia facevano parte anche soldati dell'esercito afgano e, soprattutto, l'appartenenza dei militari ai reparti specializzati in controguerriglia. Al contrario lo scorso 22 agosto, un ben più grave episodio è quasi scomparso - il manifesto, ad esempio, non l'ha neppure citato -, quando il contingente italiano in Afganistan è stato coinvolto in un attacco diretto della guerriglia. Un analogo convoglio, formato da sette Vtlm (Veicolo tattico leggero multiruolo) Lince e da un'ambulanza, comprendente un nucleo dei reparti speciali era stato attaccato con razzi Rpg e raffiche di kalashnikov da un gruppo di almeno una ventina di combattenti sempre nell'area critica di Farah, confinante con quella di Helmand ormai teatro di continui scontri e quotidiani bombardamenti della Nato. I militari italiani avevano risposto quindi al fuoco ed erano intervenuti in funzione di copertura due elicotteri d'attacco A-129 Mangusta, decollati da Herat, recentemente assegnati alla missione italiana.
Secondo le informazioni divulgate dalla stampa, era la prima volta che i Mangusta entravano in azione; di certo ormai sono del tutto operativi e stanno fornendo appoggio tattico, oltre che ai militari italiani, anche alle truppe governative afgane.
In tale occasione non ci sarebbero stati feriti tra i "nostri ragazzi", ma neanche un accenno al numero degli afgani colpiti dai proiettili italiani: ennesimo caso di oscuramento della realtà di guerra permanente in Afganistan.
D'altra parte, i comandi Nato da qualche tempo, nei loro bollettini, non precisano neppure la nazionalità dei militari dell'Isaf che, ogni giorno, muoiono o rimangono feriti in combattimento, in attentati o per "fuoco amico".
L'Afganistan, infatti, deve rimanere il più lontano possibile dal contesto sociale e politico interno e, rispetto all'oscena retorica interventista del precedente governo di centrodestra, il governo di centrosinistra preferisce ricorrere all'annullamento dell'informazione riguardante la più rilevante missione militare italiana in corso, con oltre duemila soldati in zona di guerra e reparti speciali impegnati in funzione antiguerriglia. Come se non bastasse, l'organico del contingente italiano risulta in costante aumento: lo scorso 26 luglio 2007 il ministro della difesa, Arturo Parisi, ha infatti reso noto che il Battle Group italiano a Kabul, dal prossimo dicembre e per un periodo di 8 mesi, sarà incrementato di ulteriori 250 uomini in relazione all'assunzione di responsabilità del Regional Command Capital.
Nonostante, però, questo sistematico oscuramento ogni sondaggio d'opinione continua a far emergere la contrarietà della maggioranza delle persone interpellate. Ultima in ordine di tempo, la rilevazione effettuata dall'Istituto canadese Angus Reid, tra i cittadini degli stati che partecipano alla missione Isaf, secondo cui per il 66% degli italiani, la missione della Nato in Afganistan rappresenta un fallimento (soltanto i cittadini tedeschi testimoniano un dissenso superiore, calcolato attorno al 69%).
Evidentemente, l'esistenza di questo diffuso scetticismo pende come una spada di Damocle sulla testa dei responsabili della politica di guerra, ben consapevoli del rischio che - di fronte a nuove bare nel tricolore in arrivo da Kabul - potrebbe precipitare. 

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