Umanità Nova, n.28 del 16 settembre 2007, anno 87

Benedetto XVI, la reazione trionfante. Croce e spada


Prima che le tanto agognate ferie proiettassero i sempre più poveri italiani nelle terre dell'oblio, Benedetto XVI ci ha fornito nuovi motivi di gioia spirituale con alcune esternazioni che hanno affossato in un battibaleno alcune tra le maggiori aperture del Concilio Vaticano II.
Il nostro santo papà ha rilanciato la vecchia querelle della "messa in latino" e, in un crescendo entusiasmante di aperture all'estrema destra clericale, ha ricordato che solo nella chiesa cattolica c'è salvezza, per cui le stesse confessioni cristiane non cattoliche dovrebbero preoccuparsi un po' di più della propria salvezza eterna, gravemente minata da antiche scelte eretiche che le tengono con un piede nella Geenna.
Chi, come lo scrivente e tutti gli affezionati lettori di UN, era comunque già da tempo destinato alle fiamme dell'inferno, potrebbe accogliere l'ultima informazione curiale con un atteggiamento di sufficienza.
La stessa reazione, però, non pertiene ai fautori del dialogo interconfessionale, il cui trentennale lavoro viene affossato con la fermezza che compete al vicario di Cristo.
Cominciamo dal rilancio della lingua latina: personalmente ho sperimentato varie volte l'ebbrezza di essere rimandato a settembre in latino, per cui ho avuto la possibilità di approfondire, in afosi pomeriggi estivi, le perverse costruzioni sintattiche dei maggiori autori della Roma antica. Se mai dovessi avere voglia di assistere, con atteggiamento di curiosa ludicità, ad un rito esoterico in lingua morta, avrei la possibilità di cogliere, più o meno, l'argument du jour.
Ma la maggior parte degli astanti, dispersi nelle mille parrochiette di paese, si troverebbe nelle stesse condizioni della mia bisnonna paterna, delicata e affettuosa donna di campagna, convinta che in un passo centrale del pater noster, che lei recitava in continuazione, si declamasse la frase: "gatti in cielo e piedi in terra".
Per la mia bisnonna il fatto che una frase tanto strana fosse stata consigliata dallo stesso Gesù Cristo, eliminava il problema di domandarsi quale significato avesse mai potuto avere.
Il mistero è parte centrale di ogni liturgia e ne vivifica le gestualità stereotipate e i simbolismi resi ormai muti dal troppo tempo trascorso.
Se i gesti ieratici hanno la propria forza proprio nel ritmo conosciuto di una ripetizione rassicurante, il mistero garantisce quelle aperture in territori inesplorati (perché inesplorabili) che danno forza e spessore alle abitudini, nemiche di qualsivoglia riflessione e personalizzazione.
Questo per dire che in fin dei conti la fede si basa sul fascino più che sulla ragione, per cui recitare la liturgia in latino ne inficia sicuramente la comprensione, per i tanti che non hanno vissuto l'angoscia mortale dei licei, ma non ne mette in discussione la forza coinvolgente e aggregante della tradizione.
Inoltre il latino non sostituirà mai (anche se Benedetto continuerà a sognarlo) la messa nelle lingue locali, per cui filippini e coreani, latini e germanici, britannici e africani continueranno a declamare menzogne comprensibili, in barba alle voluttà medievaliste del papa regnante.
Sorprende invece, in questo tentativo di riallacciare i rapporti con gli scissionisti lefevriani, il riaffacciarsi di questioni liturgiche che sembravano relegate ad un passato non più rimpianto: di nuovo si rimette in questione la postura del sacerdote, dal Vaticano II in poi rivolto verso la comunità celebrante. In passato, infatti, il prete dava le spalle al "popolo" riunito per "ascoltare" la messa. Il fatto che la gente fosse presente diventava quasi marginale: il sacerdote era la figura centrale del rito. L'ultimo concilio, raccogliendo le indicazioni dei liturgisti e teologi più progressisti (penso in particolare a Romano Guardini, che nel 1918 aveva affrontato la questione ne "lo spirito della liturgia"), aveva deciso che il sacerdote fosse rivolto verso la comunità dei fedeli, in una prospettiva che valorizzava il popolo di dio, non più ridotto a semplice spettatore di un rito che riguardava soprattutto il prete ed il suo dio.
Il concetto di popolo, quindi, tentava di valorizzare quella figura di laico che cominciava, attraverso forme di aggregazionismo e partecipazione non conosciute neanche prima della breccia di Porta Pia, a proporsi come soggetto protagonista di un nuovo impegno sociale cattolico, non più macchiato dalle collusioni con il regime fascista che avevano caratterizzato il primo riaffacciarsi dei cattolici sulla scena sociale dopo gli anni dell'"esilio" scelto al tempo della riunificazione liberale dell'Italia.
Riproporre adesso questa separazione di fatto del prete dalla comunità orante lascia pensare i più maliziosi (prendi me, per esempio) che il nostro papa e i suoi più fidi accoliti siano affascinati da una visione del mondo preconciliare e legata alla conflittualità che aveva dato vita al Vaticano I, quando la dialettica tra stato e chiesa sembrava riecheggiare i tempi belli delle teocrazie medievali.
Più grave mi sembra invece l'ossessivo riproporsi, in questi tempi bui, dell'"extra ecclesia nulla salus", cioè di quella visione olistica e totalitaria volta a negare non solo le altre religioni, ma anche le stese confessioni cristiane non cattoliche.
Di fronte all'ottusità dell'odierna curia romana non c'è assolutamente da stupirsi. In realtà sono state le aperture interconfessionali ad avere rappresentato, in un brevissimo periodo della storia ecclesiale, l'eccezione.
In fondo si puù affermare che il Vaticano II sia stato frutto di un compromesso imposto dai tempi e che l'odierna situazione politica, tanto favorevole alle forze conservatrici, stia permettendo alla chiesa cattolica di recuperare appieno la propria storica collocazione sociale al fianco della borghesia, in una più moderna versione dell'alleanza tra croce e spada che tanto ha giovato ai papisti e ai padroni.
Il cattolicesimo (ma questo vale un po' per tutte le religioni monoteiste) non ha mai avuto nessun tipo di rispetto per chi, cristiano o meno, rappresentasse un'alternativa sociale alla teocrazia papista.
Il cattolicesimo si fonda su una visione del mondo per la quale gli altri possono esistere solo in quanto soggetti sociali da redimere o, se veramente ostinati, da consegnare alla dannazione. Il dio dei papi è quanto di più intollerante si possa immaginare ed è assolutamente adeguato per assicurare la permanenza e il rafforzamento dei poteri dominanti, chiesa cattolica in primis.
Ratzinger, quindi, si presenta come il soggetto ideale per traghettare definitivamente, e senza l'accortezza tipica di Giovanni Paolo II, la chiesa nelle antiche acque del totalitarismo e della negazione dell'altro.
Da questo punto di vista mi sembra assolutamente inutile continuare a porsi la questione del papa di transizione.
Benedetto XVI governa di fatto la chiesa già dai primi anni del pontificato di Wojtyla, si è sempre mostrato spietato contro i teologi e i movimenti sociali (anche cristiani) che non si appiattivano sulle politiche curiali, ha privilegiato una visione radicale e un pensiero forte, alla luce dei quali anche il concetto stesso di dialogo è macchiato da un relativismo pernicioso. Per il nostro papa, relativista è qualsiasi concezione che non ponga se stessa come unica possibilità per l'umanità tutta.
Papi di transizione, invece, sono stati quelli che venivano eletti in attesa che le varie famiglie "romane" si rafforzassero e riuscissero ad imporre il proprio candidato, o quelli che morivano dopo breve tempo dall'elezione.
Esempio del primo caso potrebbe essere Innocenzo VIII, eletto nel 1484 per imposizione del futuro Giulio II della Rovere, il simoniaco guerriero e mecenate, a proprio agio nei panni di principe più che di mistico pastore, che in quel momento non possedeva la forza necessaria per imporre se stesso.
Per quel che riguarda i papi scomparsi prematuramente, possiamo pensare ad un Pio III, che si spegne dopo ventisei giorni di pontificato o, in tempi molto più recenti, Giovanni Paolo I, che ha occupato il trono del buon Pietro per poco più di un mese.
Fuori da queste tipologie non si può parlare di papa della transizione.
Benedetto XVI rimane, quindi, un papa della reazione, l'uomo che sta riuscendo a utilizzare i rigurgiti autoritari che scuotono la nostra società per ridare corpo a quello che rimane l'unico progetto politico della chiesa cattolica: quello di omologare ai propri dettami l'umanità intera, in barba alle differenze e alle esigenze degli esseri umani.
L'attuale politica vaticana, inoltre, incarna perfettamente l'esigenza dei poteri forti di mettere definitivamente la parola fine a quelle esigenze di protagonismo di massa che il socialismo ha storicamente saputo interpretare creando un immaginario forte e deviante per quanti, artisti, intellettuali, lavoratori, studenti sentissero il bisogno di dare un senso alla propria vita attraverso il rifiuto del conformismo borghese. La chiesa cattolica non poteva che essere una vittima del bisogno diffuso di una nuova umanità, per cui, anche se tanti cristiani hanno subito il fascino che i movimenti di emancipazione sociale esercitavano, era assolutamente prevedibile che, nel tempo, si sarebbe di nuovo schierata chiaramente dalla parte dei padroni, in barba a tutti i fermenti egualitari e terzomondisti che, negli anni che hanno preceduto e seguito il Concilio Vaticano II, l'hanno attraversata.
Per il nostro papa, fuori dal consenso universale nei riguardi della propria persona, consenso che tanto bene si sposa con il bisogno di pace sociale che la borghesia coltiva, non c'è che relativismo, il male assoluto della modernità.

Paolo Iervese


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