Prima che le tanto agognate ferie proiettassero i sempre più
poveri italiani nelle terre dell'oblio, Benedetto XVI ci ha fornito
nuovi motivi di gioia spirituale con alcune esternazioni che hanno
affossato in un battibaleno alcune tra le maggiori aperture del
Concilio Vaticano II.
Il nostro santo papà ha rilanciato la vecchia querelle della
"messa in latino" e, in un crescendo entusiasmante di aperture
all'estrema destra clericale, ha ricordato che solo nella chiesa
cattolica c'è salvezza, per cui le stesse confessioni cristiane
non cattoliche dovrebbero preoccuparsi un po' di più della
propria salvezza eterna, gravemente minata da antiche scelte eretiche
che le tengono con un piede nella Geenna.
Chi, come lo scrivente e tutti gli affezionati lettori di UN, era
comunque già da tempo destinato alle fiamme dell'inferno,
potrebbe accogliere l'ultima informazione curiale con un atteggiamento
di sufficienza.
La stessa reazione, però, non pertiene ai fautori del dialogo
interconfessionale, il cui trentennale lavoro viene affossato con la
fermezza che compete al vicario di Cristo.
Cominciamo dal rilancio della lingua latina: personalmente ho
sperimentato varie volte l'ebbrezza di essere rimandato a settembre in
latino, per cui ho avuto la possibilità di approfondire, in
afosi pomeriggi estivi, le perverse costruzioni sintattiche dei
maggiori autori della Roma antica. Se mai dovessi avere voglia di
assistere, con atteggiamento di curiosa ludicità, ad un rito
esoterico in lingua morta, avrei la possibilità di cogliere,
più o meno, l'argument du jour.
Ma la maggior parte degli astanti, dispersi nelle mille parrochiette di
paese, si troverebbe nelle stesse condizioni della mia bisnonna
paterna, delicata e affettuosa donna di campagna, convinta che in un
passo centrale del pater noster, che lei recitava in continuazione, si
declamasse la frase: "gatti in cielo e piedi in terra".
Per la mia bisnonna il fatto che una frase tanto strana fosse stata
consigliata dallo stesso Gesù Cristo, eliminava il problema di
domandarsi quale significato avesse mai potuto avere.
Il mistero è parte centrale di ogni liturgia e ne vivifica le
gestualità stereotipate e i simbolismi resi ormai muti dal
troppo tempo trascorso.
Se i gesti ieratici hanno la propria forza proprio nel ritmo conosciuto
di una ripetizione rassicurante, il mistero garantisce quelle aperture
in territori inesplorati (perché inesplorabili) che danno forza
e spessore alle abitudini, nemiche di qualsivoglia riflessione e
personalizzazione.
Questo per dire che in fin dei conti la fede si basa sul fascino
più che sulla ragione, per cui recitare la liturgia in latino ne
inficia sicuramente la comprensione, per i tanti che non hanno vissuto
l'angoscia mortale dei licei, ma non ne mette in discussione la forza
coinvolgente e aggregante della tradizione.
Inoltre il latino non sostituirà mai (anche se Benedetto
continuerà a sognarlo) la messa nelle lingue locali, per cui
filippini e coreani, latini e germanici, britannici e africani
continueranno a declamare menzogne comprensibili, in barba alle
voluttà medievaliste del papa regnante.
Sorprende invece, in questo tentativo di riallacciare i rapporti con
gli scissionisti lefevriani, il riaffacciarsi di questioni liturgiche
che sembravano relegate ad un passato non più rimpianto: di
nuovo si rimette in questione la postura del sacerdote, dal Vaticano II
in poi rivolto verso la comunità celebrante. In passato,
infatti, il prete dava le spalle al "popolo" riunito per "ascoltare" la
messa. Il fatto che la gente fosse presente diventava quasi marginale:
il sacerdote era la figura centrale del rito. L'ultimo concilio,
raccogliendo le indicazioni dei liturgisti e teologi più
progressisti (penso in particolare a Romano Guardini, che nel 1918
aveva affrontato la questione ne "lo spirito della liturgia"), aveva
deciso che il sacerdote fosse rivolto verso la comunità dei
fedeli, in una prospettiva che valorizzava il popolo di dio, non
più ridotto a semplice spettatore di un rito che riguardava
soprattutto il prete ed il suo dio.
Il concetto di popolo, quindi, tentava di valorizzare quella figura di
laico che cominciava, attraverso forme di aggregazionismo e
partecipazione non conosciute neanche prima della breccia di Porta Pia,
a proporsi come soggetto protagonista di un nuovo impegno sociale
cattolico, non più macchiato dalle collusioni con il regime
fascista che avevano caratterizzato il primo riaffacciarsi dei
cattolici sulla scena sociale dopo gli anni dell'"esilio" scelto al
tempo della riunificazione liberale dell'Italia.
Riproporre adesso questa separazione di fatto del prete dalla
comunità orante lascia pensare i più maliziosi (prendi
me, per esempio) che il nostro papa e i suoi più fidi accoliti
siano affascinati da una visione del mondo preconciliare e legata alla
conflittualità che aveva dato vita al Vaticano I, quando la
dialettica tra stato e chiesa sembrava riecheggiare i tempi belli delle
teocrazie medievali.
Più grave mi sembra invece l'ossessivo riproporsi, in questi
tempi bui, dell'"extra ecclesia nulla salus", cioè di quella
visione olistica e totalitaria volta a negare non solo le altre
religioni, ma anche le stese confessioni cristiane non cattoliche.
Di fronte all'ottusità dell'odierna curia romana non c'è
assolutamente da stupirsi. In realtà sono state le aperture
interconfessionali ad avere rappresentato, in un brevissimo periodo
della storia ecclesiale, l'eccezione.
In fondo si puù affermare che il Vaticano II sia stato frutto di
un compromesso imposto dai tempi e che l'odierna situazione politica,
tanto favorevole alle forze conservatrici, stia permettendo alla chiesa
cattolica di recuperare appieno la propria storica collocazione sociale
al fianco della borghesia, in una più moderna versione
dell'alleanza tra croce e spada che tanto ha giovato ai papisti e ai
padroni.
Il cattolicesimo (ma questo vale un po' per tutte le religioni
monoteiste) non ha mai avuto nessun tipo di rispetto per chi, cristiano
o meno, rappresentasse un'alternativa sociale alla teocrazia papista.
Il cattolicesimo si fonda su una visione del mondo per la quale gli
altri possono esistere solo in quanto soggetti sociali da redimere o,
se veramente ostinati, da consegnare alla dannazione. Il dio dei papi
è quanto di più intollerante si possa immaginare ed
è assolutamente adeguato per assicurare la permanenza e il
rafforzamento dei poteri dominanti, chiesa cattolica in primis.
Ratzinger, quindi, si presenta come il soggetto ideale per traghettare
definitivamente, e senza l'accortezza tipica di Giovanni Paolo II, la
chiesa nelle antiche acque del totalitarismo e della negazione
dell'altro.
Da questo punto di vista mi sembra assolutamente inutile continuare a porsi la questione del papa di transizione.
Benedetto XVI governa di fatto la chiesa già dai primi anni del
pontificato di Wojtyla, si è sempre mostrato spietato contro i
teologi e i movimenti sociali (anche cristiani) che non si appiattivano
sulle politiche curiali, ha privilegiato una visione radicale e un
pensiero forte, alla luce dei quali anche il concetto stesso di dialogo
è macchiato da un relativismo pernicioso. Per il nostro papa,
relativista è qualsiasi concezione che non ponga se stessa come
unica possibilità per l'umanità tutta.
Papi di transizione, invece, sono stati quelli che venivano eletti in
attesa che le varie famiglie "romane" si rafforzassero e riuscissero ad
imporre il proprio candidato, o quelli che morivano dopo breve tempo
dall'elezione.
Esempio del primo caso potrebbe essere Innocenzo VIII, eletto nel 1484
per imposizione del futuro Giulio II della Rovere, il simoniaco
guerriero e mecenate, a proprio agio nei panni di principe più
che di mistico pastore, che in quel momento non possedeva la forza
necessaria per imporre se stesso.
Per quel che riguarda i papi scomparsi prematuramente, possiamo pensare
ad un Pio III, che si spegne dopo ventisei giorni di pontificato o, in
tempi molto più recenti, Giovanni Paolo I, che ha occupato il
trono del buon Pietro per poco più di un mese.
Fuori da queste tipologie non si può parlare di papa della transizione.
Benedetto XVI rimane, quindi, un papa della reazione, l'uomo che sta
riuscendo a utilizzare i rigurgiti autoritari che scuotono la nostra
società per ridare corpo a quello che rimane l'unico progetto
politico della chiesa cattolica: quello di omologare ai propri dettami
l'umanità intera, in barba alle differenze e alle esigenze degli
esseri umani.
L'attuale politica vaticana, inoltre, incarna perfettamente l'esigenza
dei poteri forti di mettere definitivamente la parola fine a quelle
esigenze di protagonismo di massa che il socialismo ha storicamente
saputo interpretare creando un immaginario forte e deviante per quanti,
artisti, intellettuali, lavoratori, studenti sentissero il bisogno di
dare un senso alla propria vita attraverso il rifiuto del conformismo
borghese. La chiesa cattolica non poteva che essere una vittima del
bisogno diffuso di una nuova umanità, per cui, anche se tanti
cristiani hanno subito il fascino che i movimenti di emancipazione
sociale esercitavano, era assolutamente prevedibile che, nel tempo, si
sarebbe di nuovo schierata chiaramente dalla parte dei padroni, in
barba a tutti i fermenti egualitari e terzomondisti che, negli anni che
hanno preceduto e seguito il Concilio Vaticano II, l'hanno attraversata.
Per il nostro papa, fuori dal consenso universale nei riguardi della
propria persona, consenso che tanto bene si sposa con il bisogno di
pace sociale che la borghesia coltiva, non c'è che relativismo,
il male assoluto della modernità.
Paolo Iervese