Massimo Novelli, L'ausiliaria e il partigiano – Storia di Marilena Grill 1928-1945, Edizioni Spoon River, Torino, 2007.
Ci sono molti modi di scrivere la storia. Sicuramente quello dei giornalisti è il peggiore.
L'ultima fatica di Massimo Novelli né è un esempio illuminante.
Dopo essersi occupato, male, di anarchici (Cavalieri del nulla: Renzo
Novatore, poeta Sante Pollastro, bandito, Ed. Galzerano, Casalvelino
Scalo (SA), 1998) e di partigiani libertari (Corbari, Iris, Casadei e
gli altri: un racconto della Resistenza, Ed. Spoon River, Torino,
2002), l'autore - sull'onda lunga del nuovo corso di pseudo-storia
resistenziale aperto da Pansa - si occupa questa volta dell'uccisione,
ad opera dei partigiani, di una giovane ausiliaria repubblichina nei
giorni seguiti alla liberazione di Torino nel 1945.
Evidentemente, conscio della scarsa limpidezza di tale operazione
editoriale, Novelli si premura di farsi introdurre dal suo
caporedattore a Repubblica Ettore Boffano (giornalista che si distinse
nelle cronache sul processo Pelissero che trovate nel mio Le scarpe dei
suicidi) il quale scrive: "Qualcuno adesso, proverà sul serio ad
accusare M. N., giornalista e scrittore civile, figlio di un
giovanissimo ex partigiano comunista […] di essere un
revisionista?"
Per carità. Il revisionismo (quello di De Felice per intenderci) è cosa troppo seria da essere scomodata.
Nulla di male ad occuparsi di un "nemico", vittima forse incolpevole di
un eccezionale momento. Nuto Revelli nel suo "Il disperso di Marburg"
(dove racconta di un "tedesco buono" ucciso dai partigiani) ci ha
insegnato che si può rendere giustizia (ovviamente sul piano
storico) senza fare alcuno sconto ai nazifascisti.
Tutt'altro tipo di approccio nel libro in questione. L'autore,
rivestendo i panni - come già aveva fatto in Corbari - di
detective della storia, indaga affannosamente sulla morte
dell'ausiliaria senza scoprire né dire nulla di interessante. Ma
deve (o vuole) per forza scriverci sopra un libro e quindi ripiega
sulle uniche fonti che, per ovvi motivi, danno risalto all'episodio,
cioè quelle neofasciste; e, basandosi esclusivamente su queste,
elabora un insulso collage di retorica salottina, inframmezzato qua e
là dai presunti colpi d'azione del nostro Philip Marlowe di
periferia.
É il suo stesso collega Boffano a dire: "Troverà ben
poco, Novelli, alla fine del suo indagare: poco di più di quanto
è stato raccontato in qualche rapporto ufficiale, in apologetici
resoconti della pubblicistica neofascista, addirittura in un poema di
guerra molto diffuso tra i reduci di Salò e in altro romanzo
torinese dello scrittore Marcello Randaccio. Scoprirà non molto
di più dell'autoassolutorio e reticente documento giudiziario
conservato all'Archivio di Stato: «…Gli assassini non sono
stati identificati…»"
A questo punto la domanda sarebbe scontata. A che pro dedicare un libro alla vicenda?
Due le probabili risposte. O per fare apologia dei martiri fascisti
(cosa che il "giornalista e scrittore civile" nega) o per bramosia di
historical scoop, cercando maldestramente di indurre il malcapitato
lettore amante della suspence a credere di trovarsi in un labirinto
oscuro della storia, in cui solo l'autore - pur non avendo prove certe
- ha senza dubbio le idee chiare e si muove con estrema disinvoltura.
E per ottenere lo scopo, come in tutti i romanzi gialli che si
rispettino, ci vuole il colpevole. E Novelli lo trova - ovviamente
senza uno straccio di prova ma solo per un sentito dire fascista
ficcato in un romanzo - in un comandante partigiano, nome di battaglia
Pierin d'la fisa (della fisarmonica), al secolo Pierino Sasso
(tornitore), spietato esecutore che volle a tutti i costi fucilare la
giovane ausiliaria nonostante il parere contrario di un altro
comandante, inferiore di grado, che si era rifiutato di eseguire la
crudele sentenza.
Sì, perché qui c'è il vero tocco di classe
dell'antifascista figlio di partigiani. Che ci si provi a parlare di
revisionismo o di ammiccamenti ai fascisti. Novelli scopre che, oltre a
feroci assassini, nelle file della resistenza ci si poteva anche
imbattere nel partigiano "buono" che si ribella di fronte ad un ordine
scellerato (come al solito anche questo episodio non poggia su nessun
elemento, se non il libro dello storico fascista Giorgo Pisanò).
Mentore del nostro detective del passato è lo "storico" Roberto
Gremmo, noto amante dell'historical gossip, che profonde a piene mani
nella sua rivista personale (è scritta interamente dal medesimo)
Storia Ribelle. Scoprirà persino (la fonte del tutto
inattendibile è un'anonima spia fascista) che Berneri non
è morto per mano dei sicari di Stalin bensì dei suoi
compagni anarchici, e per questione di vile denaro. E sarà
proprio Novelli che si premurerà di strombazzare tale
inverosimile baggianata sulle pagine del quotidiano che lo tiene a
libro paga.
Tornando al libro, la cornice in cui si agita la vicenda è
quella di una Torino in mano a crudeli vendicatori che ammazzano ogni
povero fascista che cade nelle loro mani. Persino l'impiccagione
dell'ex federale Solaro (impiccato due volte perché al primo
tentativo si ruppe la corda) è trattata con una pietas degna di
miglior causa. Solaro, oltre ad essere responsabile della morte di
numerosi partigiani nel periodo precedente, fu anche l'organizzatore di
quello che venne definito il "cecchinaggio", ossia un gruppo di
irriducibili franchi tiratori fascisti che, appostati sui tetti e dagli
abbaini, continuarono ad ammazzare i partigiani ormai padroni della
città. Questo fenomeno continuò fino ai primi giorni di
maggio (come attestano le lapidi dei caduti dopo il 25 aprile)
finché furono tutti snidati. Il sangue partigiano che continuava
a scorrere per le strade cittadine non contribuiva certo a pacificare
gli animi e a placare la sete di vendetta ed è comprensibile
come in questa situazione si siano potuti verificare degli eccessi o
delle uccisioni che avrebbero potuto essere evitate, come è il
caso della giovane ausiliaria.
Del resto, ad ammazzare le donne a Torino avevano iniziato proprio i
fascisti. In tutti era viva la memoria di quanto accaduto un mese e
mezzo prima alle sorelle Arduino, Vera e Libera, dei Gruppi di Difesa
della Donna (organizzazione non armata di appoggio alla resistenza),
prelevate in casa e fucilate assieme al padre alla Pellerina. La loro
compagna Rosa Ghizzone, incinta, anche lei condannata alla fucilazione,
riuscì a sfuggire solo provvisoriamente alla morte gettandosi in
un canale; fatta a segno di colpi di mitra, venne ferita in maniera
talmente grave da non rimettersi più e morirà nel giro di
un anno.
Un pessimo libro. Un cattivo servizio alla resistenza e anche alla storia.
Tobia Imperato