Lo scorso 10 agosto quattro bambini rom, Eva, Danchiu, Lenuca e Dengi,
sono morti carbonizzati nell'incendio delle baracche in cui vivevano
sotto un cavalcavia alla periferia di Livorno.
I pompieri, avvertiti da automobilisti di passaggio, arrivano sul luogo
e trovano, nel giro di pochissimi minuti un incendio che sta divampando
in modo formidabile; solo dopo averlo spento si rendono conto che
dentro alle baracche c'erano anche quattro bambini. Dovrebbero scattare
indagini tecniche e scientifiche sull'origine del rogo, ma il
magistrato incaricato decide di indirizzare l'intervento sulla
responsabilità dei genitori, due coppie di rom. Niente di
più facile: i pompieri li hanno incontrati mentre si
allontanavano dall'incendio, erano agitati, confusi, ma soprattutto non
avrebbero detto che nelle baracche c'erano i bambini; dopo la scoperta
dei cadaveri una coppia nega addirittura la paternità della
bambina, ritrattando solo nei giorni successivi, una volta avviate le
pratiche dell'identificazione del DNA. L'identikit del mostro era
quindi disponibile da subito: zingari, bugiardi, senza attaccamento ai
figli e pronti a disconoscerli. E subito sono scattati gli arresti, con
l'imputazione di abbandono di minore aggravata dalla circostanza di
morte. Nient'altro è emerso finora a carico dei genitori, che
pure sono ancora in carcere. In nessun altro caso di cronaca recente si
possono rilevare analogie: nessuno ha imputato la Franzoni, per
esempio, di aver lasciato da solo il figlio più piccolo per
accompagnare l'altro a scuola, né i coniugi inglesi in vacanza
in Portogallo, di aver lasciato soli i figli per andare a cena fuori;
in questi casi le indagini hanno riguardato esclusivamente la ricerca
delle responsabilità dirette nella morte dei figli. Nel caso di
Livorno si agisce in modo diverso e più severo, quindi
discriminante e razzista, proprio dove necessiterebbero maggiori
cautele legate alla valutazione del contesto culturale differente e del
degrado sociale.
Da un mese in carcere, senza nessuno che dia loro voce, senza
trasmissioni televisive speciali, senza ufficio stampa che diffonda le
loro ragioni.
Eppure hanno provato a dire la loro verità, prima di venire
arrestati. Hanno parlato di aggressori, forse albanesi o marocchini,
che li hanno minacciati gridando in italiano, hanno detto di essersi
allontanati per cercare aiuto, di aver visto da lontano svilupparsi poi
l'incendio, in modo improvviso. Quella dell'aggressione doveva essere
una pista di indagine, ma la magistratura, pur non scartando questa
ipotesi, ha privilegiato quella dell'incuria genitoriale. Eppure, oltre
alla testimonianza dei familiari delle vittime, alla quale, in altri
casi, si dà il massimo rilievo, ci sono stati elementi non da
poco che avvalorerebbero l'ipotesi dolosa esterna.
Il 18 agosto, una settimana dopo la tragedia, arriva ai quotidiani
locali un volantino di rivendicazione a firma GAPE (gruppo armato
pulizia etnica); la sigla è sconosciuta, la rivendicazione viene
giudicata inattendibile, ma il volantino c'è e gli autori,
mitomani o no, sono razzisti. Gli inquirenti minimizzano, nonostante il
ripetersi dallo scorso dicembre ad oggi, di inquietanti episodi di
aggressione ai danni di barboni, immigrati, o persone che vivono in
condizioni di estrema marginalità e nonostante che quasi tutti
queste aggressioni siano caratterizzate da incendi o tentativi di
incendio. Gli inquirenti continuano a snobbare accanitamente l'ipotesi
dell'attentato anche quando la vicenda assume carattere internazionale
con l'intervento diretto del governo rumeno che invita a non
sottovalutare la pista dolosa esterna e a vigilare contro le tendenze
xenofobe. Pochi giorni fa, a distanza di un mese, il perito chimico
incaricato dei rilievi dichiara che le modalità di propagazione
dell'incendio sarebbero state tanto improvvise, violente e veloci da
ipotizzare una "sollecitazione del fuoco esterna alle baracche": pista
dolosa dunque; anche i pompieri, tra l'altro, notarono una propagazione
dell'incendio anomala per violenza e rapidità. Ovviamente gli
inquirenti si sono affrettati a ridimensionare le dichiarazioni del
chimico, definendole ufficiose e non definitive, ma l'ipotesi
dell'aggressione, nonostante tutto, riemerge costantemente, mentre, a
distanza di oltre un mese, non vengono reperite altre imputazioni a
carico dei genitori dei bambini.
La città ha reagito a questa tragedia con distacco e
indifferenza, talora con insofferenza, nonostante si trattasse di
quattro bambini morti da soli tra atroci sofferenze.
I commercianti hanno mostrato più apertamente disprezzo e
arroganza, giungendo ad inquietanti comportamenti di "disubbidienza
civile" che sono stati tranquillamente tollerati dalle autorità
cittadine.
A poche ore dalla tragica morte dei bambini, il sindaco emette, per la
serata dell'11 agosto, un'ordinanza di sospensione della festa
cittadina organizzata dall'amministrazione comunale nel centro storico,
revocando la concessione delle licenze commerciali in deroga.
Commercianti, ristoratori, ambulanti, nel pomeriggio del giorno 11
impongono immediatamente un incontro con l'assessore al turismo -
bottegaio egli stesso - il quale concorda di disattendere l'ordinanza,
senza che peraltro il sindaco l'abbia revocata o modificata.
Nell'impunità più totale, nei giorni successivi i
commercianti rivendicano la loro violazione dell'ordinanza sui
quotidiani locali, autodenominandosi, con il sostegno di alcuni
cittadini e politici razzisti, Comitato Antiipocrisia.
Analogo atteggiamento di arroganza si verifica un mese dopo, il 14
settembre, giorno dei funerali dei bambini in cui viene proclamato
il lutto cittadino, tranquillamente ed ostentatamente snobbato.
In questo contesto di profondo degrado sociale, politico e culturale,
si evidenzia anche la debolezza della "miglior sinistra" livornese; per
chi si affida al meccanismo della delega scegliendosi dei
rappresentanti doveva essere scontato chiedere le dimissioni
dell'assessore al turismo, ma nessuno ha osato farlo. Percepibili anche
gli imbarazzi della componente antagonista, inconsuetamente silente
sulla vicenda; forse il fatto che i genitori dei bambini abbiano
parlato, nelle loro confuse dichiarazioni, di aggressori albanesi e
marocchini che minacciavano in lingua italiana può essere
risultata spiazzante; eppure non è mancato, con il volantino di
rivendicazione, neppure la più classica tipologia di razzismo.
I funerali di Eva, Danchiu, Lenuca e Dengi si sono svolti
venerdì 14 settembre; nei giorni immediatamente precedenti alle
madri dei bambini vengono concessi gli arresti domiciliari in un
alloggio messo a disposizione; i padri, pure se con la stessa
imputazione, restano in carcere; uno di loro tenta il suicidio nella
notte tra sabato 15 e domenica 16.
Patrizia