Su l'"Internazionale", il settimanale di traduzioni di articoli apparsi
sulla stampa estera, è stato tradotto un articolo del
prestigioso quotidiano tedesco "Die Zeit" il cui contenuto è
importante per ragionare con cognizione di causa su alcune delle
ipotesi di fondo che circolano all'interno delle classi dominanti
europee che iniziano a mettere seriamente in discussione l'assunto
religioso sulla bontà della globalizzazione. L'articolista
tedesco ricostruisce nel suo pezzo l'attuale flusso di merci e capitali
intercorrente tra Europa ed Usa da una parte e Asia orientale (in
particolare India e Cina) dall'altra. Sono considerazioni che ormai
anche l'omino del bar fa con una certa continuità in tutte le
nostre città: i capitali occidentali vanno in Asia, gli asiatici
pagano poco o nulla la manodopera e non si curano dei danni ambientali
causati dalla produzione e così producono quasi tutte le merci
che un tempo producevamo "noi", e lo fanno a un prezzo inferiore al
"nostro", in conseguenza la disoccupazione dilaga e la caduta del
tenore di vita delle classi popolari e di quelle medie delle nostre
metropoli pure.
Naturalmente l'analisi è sorretta da dati e da ragionamenti di
profilo nettamente più alto di quanto riportato sopra, ma il
succo è proprio lo stesso rispetto a quello che le migliaia di
improvvisati esperti di economia sciorinano tra un cappuccino e un
caffè corretto ogni mattina nei bar del Belpaese, o a quello che
ci viene servito a intervalli regolari dai quotidiani nazionali,
alternato con la considerazione per la quale non è però
né possibile né auspicabile l'interruzione di tale
processo a causa degli alti profitti permessi dallo sviluppo indiano e
cinese, e si rimanda la soluzione della contraddizione tra il positivo
abbassamento del costo dei pantaloni e il negativo immiserimento degli
ex lavoratori delle industrie occidentali a qualche futuro deus ex
machina che toglierà le castagne dal fuoco con un intervento
miracoloso.
Fin qui, quindi, niente di nuovo, così almeno sembrerebbe. Nella
seconda metà dell'articolo, però il giornalista teutonico
si avvia su una strada fin qui poco toccata dagli opinionisti sia di
destra che di sinistra e riservata fino ad adesso a settori politici
considerati "populisti" e trattati come paria di una società
lanciata nella costruzione di un'economia veramente mondiale.
In primo luogo l'autore spiega come il successo di Cina, India e paesi
asiatici in generale derivi da una strategia di investimento messa in
pratica da capitalisti occidentali che da quasi tre decenni hanno
iniziato a ritenere più redditizio l'investimento produttivo in
paesi a sindacalizzazione vietata o irreggimentata e a costi ambientali
inesistenti; in secondo luogo riporta come punto di crisi di questa
strategia la progressiva autonomizzazione dei paesi nei quali è
stata esportata la produzione con l'avvio da parte di questi ultimi di
una strategia di assorbimento di sempre nuove lavorazioni e campi
produttivi specializzati provenienti dai paesi occidentali; in terzo
luogo sostiene una proposta di risposta all'invasione di beni e servizi
asiatici tale da far sembrare il protezionismo invocato da Tremonti e
dalla Lega al tempo del governo Berlusconi un'idea da scolaretti.
La proposta in sintesi è questa: siccome non è pensabile
in breve termine una significativa azione da parte dei salariati
orientali per ottenere livelli salariali simili a quelli occidentali, e
da parte dell'opinione pubblica asiatica in difesa dell'ambiente
minacciato, è interesse degli industriali e dei salariati
occidentali, e quindi per estensione dell'intera società, la
creazione di un mercato comune euroatlantico chiuso da dazi eco-sociali
alle importazione provenienti dall'estremo oriente. Si tratterebbe in
altre parole di bloccare il dumping eco-sociale asiatico con misure
protezionistiche di un livello tale da annullare il vantaggio
competitivo assunto da quelle economie con i loro prezzi più
bassi. Sembrerebbe l'uovo di Colombo, e si deve dare atto all'autore di
avere evitato i luoghi comuni sulla Cina (o sull'India) che si impone
sul mercato globale perché i "suoi" lavoratori sarebbero
più disponibili dei "nostri" a lavorare, o quello che vede come
soluzione del problema l'assunzione in occidente degli standard
eco-sociali dell'Asia.
Il problema vero, però, sul quale il giornalista tedesco mostra
di avere poca voglia di avventurarsi è quello costituito dalla
sempre più alta propensione dei capitalisti occidentali a
trasferire i propri capitali negli investimenti asiatici
produttivissimi di profitti immediati. Quello che si sconta, infatti,
è la trasformazione dell'economia capitalistica del dopoguerra
da economia industriale ad economia finanziaria, quindi interessata a
spostarsi laddove la realizzazione sia più immediata e
remunerativa. La produzione industriale globale in questi trent'anni
non è affatto diminuita, anzi è aumentata, ma il suo
massiccio trasferimento ha diviso sempre di più l'investimento
produttivo dalla responsabilità industriale con la conseguenza
di liberare i capitali dalla possibilità stessa di controlli e
messa in discussione del loro uso. I capitalisti che esternalizzano in
Cina o in India, come anche in Italia la tardiva ma significativa
spedizione dei cinquecento industriali a seguito di Prodi ha
dimostrato, non sono corpi estranei al governo degli stati occidentali
ma ne sono gli azionisti di riferimento, sia con governi di destra che
di sinistra, anzi nel nostro paese le velleità di controllare i
flussi di capitali sembrano risiedere più in settori minoritari
della destra che della sinistra, come dimostrato dall'atteggiamento
allineato e coperto del PRC sulla sopraccitata spedizione in Oriente.
G. C.