Umanità Nova, n.31 del 7 ottobre 2007, anno 87

L'India, la Cina e il capitalismo nostrano. Squali dell'economia globale



Su l'"Internazionale", il settimanale di traduzioni di articoli apparsi sulla stampa estera, è stato tradotto un articolo del prestigioso quotidiano tedesco "Die Zeit" il cui contenuto è importante per ragionare con cognizione di causa su alcune delle ipotesi di fondo che circolano all'interno delle classi dominanti europee che iniziano a mettere seriamente in discussione l'assunto religioso sulla bontà della globalizzazione. L'articolista tedesco ricostruisce nel suo pezzo l'attuale flusso di merci e capitali intercorrente tra Europa ed Usa da una parte e Asia orientale (in particolare India e Cina) dall'altra. Sono considerazioni che ormai anche l'omino del bar fa con una certa continuità in tutte le nostre città: i capitali occidentali vanno in Asia, gli asiatici pagano poco o nulla la manodopera e non si curano dei danni ambientali causati dalla produzione e così producono quasi tutte le merci che un tempo producevamo "noi", e lo fanno a un prezzo inferiore al "nostro", in conseguenza la disoccupazione dilaga e la caduta del tenore di vita delle classi popolari e di quelle medie delle nostre metropoli pure.
Naturalmente l'analisi è sorretta da dati e da ragionamenti di profilo nettamente più alto di quanto riportato sopra, ma il succo è proprio lo stesso rispetto a quello che le migliaia di improvvisati esperti di economia sciorinano tra un cappuccino e un caffè corretto ogni mattina nei bar del Belpaese, o a quello che ci viene servito a intervalli regolari dai quotidiani nazionali, alternato con la considerazione per la quale non è però né possibile né auspicabile l'interruzione di tale processo a causa degli alti profitti permessi dallo sviluppo indiano e cinese, e si rimanda la soluzione della contraddizione tra il positivo abbassamento del costo dei pantaloni e il negativo immiserimento degli ex lavoratori delle industrie occidentali a qualche futuro deus ex machina che toglierà le castagne dal fuoco con un intervento miracoloso.
Fin qui, quindi, niente di nuovo, così almeno sembrerebbe. Nella seconda metà dell'articolo, però il giornalista teutonico si avvia su una strada fin qui poco toccata dagli opinionisti sia di destra che di sinistra e riservata fino ad adesso a settori politici considerati "populisti" e trattati come paria di una società lanciata nella costruzione di un'economia veramente mondiale.
In primo luogo l'autore spiega come il successo di Cina, India e paesi asiatici in generale derivi da una strategia di investimento messa in pratica da capitalisti occidentali che da quasi tre decenni hanno iniziato a ritenere più redditizio l'investimento produttivo in paesi a sindacalizzazione vietata o irreggimentata e a costi ambientali inesistenti; in secondo luogo riporta come punto di crisi di questa strategia la progressiva autonomizzazione dei paesi nei quali è stata esportata la produzione con l'avvio da parte di questi ultimi di una strategia di assorbimento di sempre nuove lavorazioni e campi produttivi specializzati provenienti dai paesi occidentali; in terzo luogo sostiene una proposta di risposta all'invasione di beni e servizi asiatici tale da far sembrare il protezionismo invocato da Tremonti e dalla Lega al tempo del governo Berlusconi un'idea da scolaretti.
La proposta in sintesi è questa: siccome non è pensabile in breve termine una significativa azione da parte dei salariati orientali per ottenere livelli salariali simili a quelli occidentali, e da parte dell'opinione pubblica asiatica in difesa dell'ambiente minacciato, è interesse degli industriali e dei salariati occidentali, e quindi per estensione dell'intera società, la creazione di un mercato comune euroatlantico chiuso da dazi eco-sociali alle importazione provenienti dall'estremo oriente. Si tratterebbe in altre parole di bloccare il dumping eco-sociale asiatico con misure protezionistiche di un livello tale da annullare il vantaggio competitivo assunto da quelle economie con i loro prezzi più bassi. Sembrerebbe l'uovo di Colombo, e si deve dare atto all'autore di avere evitato i luoghi comuni sulla Cina (o sull'India) che si impone sul mercato globale perché i "suoi" lavoratori sarebbero più disponibili dei "nostri" a lavorare, o quello che vede come soluzione del problema l'assunzione in occidente degli standard eco-sociali dell'Asia.
Il problema vero, però, sul quale il giornalista tedesco mostra di avere poca voglia di avventurarsi è quello costituito dalla sempre più alta propensione dei capitalisti occidentali a trasferire i propri capitali negli investimenti asiatici produttivissimi di profitti immediati. Quello che si sconta, infatti, è la trasformazione dell'economia capitalistica del dopoguerra da economia industriale ad economia finanziaria, quindi interessata a spostarsi laddove la realizzazione sia più immediata e remunerativa. La produzione industriale globale in questi trent'anni non è affatto diminuita, anzi è aumentata, ma il suo massiccio trasferimento ha diviso sempre di più l'investimento produttivo dalla responsabilità industriale con la conseguenza di liberare i capitali dalla possibilità stessa di controlli e messa in discussione del loro uso. I capitalisti che esternalizzano in Cina o in India, come anche in Italia la tardiva ma significativa spedizione dei cinquecento industriali a seguito di Prodi ha dimostrato, non sono corpi estranei al governo degli stati occidentali ma ne sono gli azionisti di riferimento, sia con governi di destra che di sinistra, anzi nel nostro paese le velleità di controllare i flussi di capitali sembrano risiedere più in settori minoritari della destra che della sinistra, come dimostrato dall'atteggiamento allineato e coperto del PRC sulla sopraccitata spedizione in Oriente.

G. C.

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