Avreste fatto una partita a poker contro un giocatore
professionista? Avreste puntato lo stipendio al gioco delle tre
tavolette? Sareste andati a votare ad un referendum contro l'aborto in
parrocchia, con i preti come scrutatori?
Queste inutili domande, dalle risposte scontate, servono solo ad
introdurre l'argomento del referendum sindacale sul welfare che si
è testé concluso. In realtà queste note potevano
essere stese parecchio tempo fa, non per virtù
medianico-predittive, ma per un semplice esercizio di buon senso.
1) Il protocollo - Sui contenuti del protocollo di luglio si è
già scritto tanto e dunque non mi soffermo ulteriormente.
C'è semmai da rimarcare la natura complessa dell'accordo: vago
su alcune questioni, preciso su altre; blandamente migliorativo per
alcune situazioni, decisamente peggiorativo per altre. Concretamente,
un accordo-quadro tra le parti sociali, blindato in alcune parti, ma
aperto (e lo stiamo vedendo con la manfrina postreferendaria sulla sua
conversione in decreto legge, attualmente in atto) ai giochi di parte,
alle mini-concessioni, alle maxi-ritrattazioni (come si sta facendo per
l'incerta garanzia dell'integrazione al 60% del coefficiente di
trasformazione stipendio-pensione, attualmente sparita dal DL). Il
tutto funzionale alla dialettica di potere tra "parti sociali", forze
d'opposizione parlamentari e nuovi soggetti politici che l'estrema
sinistra istituzionale potrebbe germogliare.
2) Il referendum e le sue modalità - Le premesse per il
risultato erano già nella modalità della consultazione:
una platea pressoché sconfinata di aventi diritto (circa 36
milioni); nessun quorum per la sua validità; seggi ubicati per
ogni dove, con prevalenza nelle sedi sindacali; nessuna garanzia
né della correttezza delle operazioni di voto, né della
veridicità dello scrutinio; ecc., ecc. Tutto ciò ha
permesso (oltre agli inevitabili brogli) una selezione dei chiamati a
votare, privilegiando l'informazione a talune categorie in qualche modo
beneficiate (o non danneggiate) dagli accordi e il loro arruolamento
nelle fila dei votanti (vedi pensionati).
3) I risultati - Nonostante le sospette proporzioni "bulgare" della
vittoria dei Sì (dichiarato circa l'82%) e la sospetta
relativamente alta partecipazione (più di 5 milioni di votanti,
che appaiono in tutta evidenza decisamente irrealistici), non è
solo nei brogli che bisogna ricercare le cause del risultato.
Intendiamoci, brogli e truffa sicuramente ci sono stati (denunciati e
previsti, anche prima del voto, dallo stesso Cremaschi e, in seguito,
da Rizzo), ma la massiccia mobilitazione di vaste categorie di
pensionati (spiegabile per quanto riguarda quelli a basso reddito dai
vari bonus promessi dal governo) è stata sicuramente una delle
spiegazioni del risultato, insieme al consenso ottenuto tra alcuni
comparti del pubblico impiego. La disaggregazione dei risultati mostra
infatti che il No ha prevalso solo all'interno di categorie produttive
industriali, come i metalmeccanici.
4) La funzione del No. Bisogna essere molto chiari: la chiamata al No,
che ha influenzato e coinvolto anche molti compagni (ma di questo
tratterò più avanti), è stata funzionale molto
più ad attribuire una patente di democraticità alla
consultazione che non alla costruzione di un fronte di opposizione
all'accordo ed ai suoi contenuti. In altre parole il fronte di
opposizione politico-sindacale che si è costituito per
l'occasione (da pezzi della "sinistra radicale" governativa, alla Fiom,
alla sempiterna e velleitaria opposizione sindacale nella CGIL, per
finire a parti del sindacalismo alternativo), ha legittimato nei fatti,
se non contribuito a promuovere, un esercizio di falsa democrazia -
amplificato opportunamente dai mass-media - che altrimenti sarebbe
passato, senza particolare risalto, come uno dei soliti riti massonici,
tutto interno agli apparati confederali.
5) Vincitori e vinti - Se andiamo aldilà della
materialità del risultato e ne consideriamo le ricadute
politiche, emerge un quadro dove i vincitori sono assai di più
di quelli ufficialmente conclamati. Mi spiego meglio: hanno vinto
sicuramente le parti sociali che hanno stipulato l'accordo (sindacati
confederali e governo), hanno certamente vinto gli industriali e tutti
i partigiani del Sì, ma, probabilmente hanno vinto anche una
buona parte di quelli che hanno argomentato per il No. Sicuramente ha
vinto anche l'apparato della Fiom che ha dimostrato la sua forte tenuta
all'interno della categoria e i cui dirigenti (Cremaschi in testa)
hanno la chance di rientrare in gran pompa nell'élite della
Confederazione, facendo sfoggio di rispetto per le regole di democrazia
interna. Sicuramente ha vinto la sinistra radicale di governo e i suoi
ministri "insubordinati" che possono rientrare saldamente in possesso
delle loro poltrone dopo aver "democraticamente" mostrato i muscoli.
Dunque chi ha perso? Ma anche qui siamo nel novero delle domande
inutili perché hanno risposta scontata...
6) Dispiace infine che molti compagni (fuori e dentro il nostro
movimento) si siano lasciati ingabbolare da questa rappresentazione di
"democrazia sindacale". Sul terreno dei gambler - tanto più se
vi portano a votare in parrocchia - non c'è possibilità
né di vincere, né di fare chiarezza sull'onestà e
il valore oggettivo dei propri intenti. Accettare le regole di una
partita truccata significa in qualche modo condividerle (anche se
obtorto collo); perdendola, o non se ne esce immacolati (vedi le
leadership opportuniste di cui sopra, ma per loro non è un
problema), o se ne esce indeboliti avendo dimostrato tutta la propria
incapacità di valutazione. Che sia almeno un'occasione per molti
compagni (particolarmente per chi langue in posizioni ultraminoritarie
all'interno della CGIL) per rimettere in discussione il proprio sterile
e ingenuo ipertatticismo e fare scelte conseguenti.
7) Da questo punto di vista il prossimo sciopero generale del 9
novembre è un momento cruciale. Sgomberato il campo dagli
equivoci e dalle manfrine, è l'occasione concreta di ridare la
parola all'azione concreta e diretta dei lavoratori, premessa per
l'avvio di un movimento generale di lotta della working class. Un
movimento reale, con tutti i suoi limiti ma anche con tutte le sue
potenzialità. Sta a noi coglierne il valore e intuirne i
possibili sviluppi, ma senza pretesa di sostituirvisi, né di
prefigurarne aprioristicamente strategie, forme di lotta e
organizzative.
Walter Kerwal