Umanità Nova, n.33 del 21 ottobre 2007, anno 87

Welfare: un referendum scontato. Il gambler e la parrocchia


Avreste fatto una partita a poker contro un giocatore professionista? Avreste puntato lo stipendio al gioco delle tre tavolette? Sareste andati a votare ad un referendum contro l'aborto in parrocchia, con i preti come scrutatori?
Queste inutili domande, dalle risposte scontate, servono solo ad introdurre l'argomento del referendum sindacale sul welfare che si è testé concluso. In realtà queste note potevano essere stese parecchio tempo fa, non per virtù medianico-predittive, ma per un semplice esercizio di buon senso.

1) Il protocollo - Sui contenuti del protocollo di luglio si è già scritto tanto e dunque non mi soffermo ulteriormente. C'è semmai da rimarcare la natura complessa dell'accordo: vago su alcune questioni, preciso su altre; blandamente migliorativo per alcune situazioni, decisamente peggiorativo per altre. Concretamente, un accordo-quadro tra le parti sociali, blindato in alcune parti, ma aperto (e lo stiamo vedendo con la manfrina postreferendaria sulla sua conversione in decreto legge, attualmente in atto) ai giochi di parte, alle mini-concessioni, alle maxi-ritrattazioni (come si sta facendo per l'incerta garanzia dell'integrazione al 60% del coefficiente di trasformazione stipendio-pensione, attualmente sparita dal DL). Il tutto funzionale alla dialettica di potere tra "parti sociali", forze d'opposizione parlamentari e nuovi soggetti politici che l'estrema sinistra istituzionale potrebbe germogliare.

2) Il referendum e le sue modalità - Le premesse per il risultato erano già nella modalità della consultazione: una platea pressoché sconfinata di aventi diritto (circa 36 milioni); nessun quorum per la sua validità; seggi ubicati per ogni dove, con prevalenza nelle sedi sindacali; nessuna garanzia né della correttezza delle operazioni di voto, né della veridicità dello scrutinio; ecc., ecc. Tutto ciò ha permesso (oltre agli inevitabili brogli) una selezione dei chiamati a votare, privilegiando l'informazione a talune categorie in qualche modo beneficiate (o non danneggiate) dagli accordi e il loro arruolamento nelle fila dei votanti (vedi pensionati).

3) I risultati - Nonostante le sospette proporzioni "bulgare" della vittoria dei Sì (dichiarato circa l'82%) e la sospetta relativamente alta partecipazione (più di 5 milioni di votanti, che appaiono in tutta evidenza decisamente irrealistici), non è solo nei brogli che bisogna ricercare le cause del risultato. Intendiamoci, brogli e truffa sicuramente ci sono stati (denunciati e previsti, anche prima del voto, dallo stesso Cremaschi e, in seguito, da Rizzo), ma la massiccia mobilitazione di vaste categorie di pensionati (spiegabile per quanto riguarda quelli a basso reddito dai vari bonus promessi dal governo) è stata sicuramente una delle spiegazioni del risultato, insieme al consenso ottenuto tra alcuni comparti del pubblico impiego. La disaggregazione dei risultati mostra infatti che il No ha prevalso solo all'interno di categorie produttive industriali, come i metalmeccanici.

4) La funzione del No. Bisogna essere molto chiari: la chiamata al No, che ha influenzato e coinvolto anche molti compagni (ma di questo tratterò più avanti), è stata funzionale molto più ad attribuire una patente di democraticità alla consultazione che non alla costruzione di un fronte di opposizione all'accordo ed ai suoi contenuti. In altre parole il fronte di opposizione politico-sindacale che si è costituito per l'occasione (da pezzi della "sinistra radicale" governativa, alla Fiom, alla sempiterna e velleitaria opposizione sindacale nella CGIL, per finire a parti del sindacalismo alternativo), ha legittimato nei fatti, se non contribuito a promuovere, un esercizio di falsa democrazia - amplificato opportunamente dai mass-media - che altrimenti sarebbe passato, senza particolare risalto, come uno dei soliti riti massonici, tutto interno agli apparati confederali.

5) Vincitori e vinti - Se andiamo aldilà della materialità del risultato e ne consideriamo le ricadute politiche, emerge un quadro dove i vincitori sono assai di più di quelli ufficialmente conclamati. Mi spiego meglio: hanno vinto sicuramente le parti sociali che hanno stipulato l'accordo (sindacati confederali e governo), hanno certamente vinto gli industriali e tutti i partigiani del Sì, ma, probabilmente hanno vinto anche una buona parte di quelli che hanno argomentato per il No. Sicuramente ha vinto anche l'apparato della Fiom che ha dimostrato la sua forte tenuta all'interno della categoria e i cui dirigenti (Cremaschi in testa) hanno la chance di rientrare in gran pompa nell'élite della Confederazione, facendo sfoggio di rispetto per le regole di democrazia interna. Sicuramente ha vinto la sinistra radicale di governo e i suoi ministri "insubordinati" che possono rientrare saldamente in possesso delle loro poltrone dopo aver "democraticamente" mostrato i muscoli. Dunque chi ha perso? Ma anche qui siamo nel novero delle domande inutili perché hanno risposta scontata...

6) Dispiace infine che molti compagni (fuori e dentro il nostro movimento) si siano lasciati ingabbolare da questa rappresentazione di "democrazia sindacale". Sul terreno dei gambler - tanto più se vi portano a votare in parrocchia - non c'è possibilità né di vincere, né di fare chiarezza sull'onestà e il valore oggettivo dei propri intenti. Accettare le regole di una partita truccata significa in qualche modo condividerle (anche se obtorto collo); perdendola, o non se ne esce immacolati (vedi le leadership opportuniste di cui sopra, ma per loro non è un problema), o se ne esce indeboliti avendo dimostrato tutta la propria incapacità di valutazione. Che sia almeno un'occasione per molti compagni (particolarmente per chi langue in posizioni ultraminoritarie all'interno della CGIL) per rimettere in discussione il proprio sterile e ingenuo ipertatticismo e fare scelte conseguenti.

7) Da questo punto di vista il prossimo sciopero generale del 9 novembre è un momento cruciale. Sgomberato il campo dagli equivoci e dalle manfrine, è l'occasione concreta di ridare la parola all'azione concreta e diretta dei lavoratori, premessa per l'avvio di un movimento generale di lotta della working class. Un movimento reale, con tutti i suoi limiti ma anche con tutte le sue potenzialità. Sta a noi coglierne il valore e intuirne i possibili sviluppi, ma senza pretesa di sostituirvisi, né di prefigurarne aprioristicamente strategie, forme di lotta e organizzative.

Walter Kerwal

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