Umanità Nova, n.35 del 4 novembre 2007, anno 87

Pakistan – Afganistan. Variabili di guerra


Se esiste un luogo dove i confini appaiono storicamente indefiniti, questo è senz'altro la zona di frontiera tra l'Afganistan e il Pakistan. Tale incertezza di confini nazionali, politici, etnici e religiosi, rende del tutto inadeguata ogni lettura dei fatti che si fermi alla superficie, dando magari per stabili alleanze e ostilità.
Tutto, infatti, appare rovesciabile e comunque mai definitivo, su una simile scacchiera a più livelli.
Appena due settimane orsono, il ministro della difesa afgano, Abdul Rahim Wardak, aveva richiesto agli Usa ulteriori armamenti, truppe e mezzi finanziari per affrontare la guerriglia talebana, definendo gli ultimi due anni "i più difficili dal 2001". Eppure tale richiesta seguiva di pochi giorni la notizia, riferita dal quotidiano britannico Guardian, secondo cui alcuni esponenti della ''shura'' talebana, il consiglio presieduto dal mitico mullah Omar, hanno avviato indirettamente, attraverso terzi, trattative con il governo afgano.
Da parte sua il governo Karzai sembra, inaspettatamente, voler giocare a tutto campo. Nello scorso agosto, il presidente-generale del Pakistan Pervez Musharraf ha partecipato a Kabul alla "Jirga per la pace" a cui hanno partecipato circa seicento leader tribali afgani e pakistani, mentre lo stesso presidente Karzai ha incontrato, sempre a Kabul, il presidente iraniano Ahmadinejad per discutere "questioni di reciproco interesse e di reciproca preoccupazione".
Relazioni politico-diplomatiche apparentemente pericolose, dato che sia i servizi segreti pakistani che i guardiani della rivoluzione iraniani sono accusati di sostenere ed armare gli insorgenti afgani, per non parlare dell'alta tensione esistente tra Washington e Tehran.
Proprio all'interno di questo contesto vanno inserite sia la guerra in corso nel Waziristan, l'area pashtun a cavallo del confine afgano-pakistano, che la serie di attentati, scontri e trame militari all'interno del Pakistan.
Tra questi tragici fatti, basti ricordare il sanguinoso assalto alla Moschea Rossa di Islamabad nello scorso luglio e la strage del 18 ottobre a Karachi contro il corteo dei sostenitori di Benazir Bhutto e del Partito del popolo pakistano.
Nella regione denominata Waziristan - centinaia di migliaia di chilometri quadri di montagne - area fuori dal controllo sia delle truppe afgane che di quelle pakistane, dal 2001 si sono susseguiti infiniti scontri armati, offensive e bombardamenti, tra gruppi tribali pashtun e formazioni talebane contrapposte ai reparti pakistani e alle forze Usa-Nato operanti in Afganistan. A tutt'oggi però rimane una zona inespugnata dove, nella Valle di Swat, la rete di al-Qaeda avrebbe ancora alcune basi operative e, secondo voci ricorrenti quanto indimostrate, troverebbe rifugio pure Bin Laden.
All'inizio del 2006, risulta che oltre 40 mila combattenti di origine araba, cecena e uzbeka, assieme ai waziri e ad altri militanti pachistani giunti dalle città, si erano raccolti nel nord e nel sud Waziristan, divisi tra due opzioni: continuare la guerriglia contro le truppe del corrotto governo pakistano, come suggerivano i capi qaedisti, o combattere l'occupazione militare straniera in Afganistan. La decisione prevalente della leadership talebana fu quella di concentrarsi nella lotta contro il nemico statunitense, stringendo invece una tregua col regime pakistano che ha potuto reprimere ed espellere innumerevoli combattenti stranieri facenti capo al network jihadista.
In cambio, grazie a tale accordo tra Musharraf e il defunto mullah Dadullah, all'inizio del 2007, i talebani hanno avuto via libera per i loro attacchi in Afganistan. Inoltre, nell'ambito della larga autonomia decisionale riconosciuta alle tribù pashtun, è stata accettata anche l'istituzione di una polizia di stampo talebano "per la promozione della virtù e la repressione del vizio".
Nei primi mesi dell'anno, alcune postazioni dei guerriglieri jihadisti sono state attaccate e colpite dall'esercito pakistano e dopo alcuni scontri a fuoco anche tra talebani e qaedisti, quest'ultimi in gran parte si sarebbero spostati in Iraq, dove peraltro avrebbero rapporti difficili anche con la resistenza irachena.
Il regime di Musharraf, nato da un colpo di stato nel 1999, rimane comunque stretto tra la rivolta popolare antiamericana, il sempre più forte movimento talebano, nonché la destabilizzazione interna portata avanti da servizi segreti, settori dell'esercito e gruppi terroristici.
Il noto esperto Ahmed Rashid ha tracciato un quadro preoccupante in un articolo, comparso sul giornale inglese Daily Telegraph, in cui sostiene che il Pakistan è uno stato fallito sull'orlo del precipizio, con sempre meno legittimità costituzionale, islamica, democratica, e nazionale.
Gli eventi di questi ultimi mesi a Islamabad sembrano confermarlo.
Un ex-primo ministro, ormai scomodo, come Nawaz Sharif è stato sequestrato dalle autorità in pieno giorno nella capitale del suo paese, caricato su un aereo, e consegnato ad un regime ferocemente reazionario quale quello dell'Arabia Saudita.
Nel frattempo, l'ex-premier, Benazir Bhutto, dopo otto anni di esilio volontario, è rientrata in Pakistan forte del più completo appoggio di Washington, tenendo subito a precisare: "Vorrei essere in grado di catturare Osama bin Laden da sola, senza l'aiuto degli americani; ma ovviamente, visto che combattiamo insieme con gli americani la guerra al terrorismo, in caso di necessità ricorrerei al loro aiuto per eliminare lo Sceicco del terrore".
Gli Stati Uniti, infatti, hanno più che mai bisogno di un Pakistan stabile e militarmente affidabile, quindi hanno deciso per la Bhutto un nuovo ruolo: da oppositrice della dittatura a stampella "civile" dell'inviso regime militare di Musharraf.
Così si preannuncia un matrimonio di reciproco interesse tra il generale golpista e l'ex-oppositrice esule, nel segno di una fasulla transizione democratica, con la benedizione di Bush e la regia del vicesegretario di Stato Usa, John Negroponte.
La situazione di crisi nella Repubblica Islamica del Pakistan non tarderà comunque ad avere i suoi riflessi in Afganistan dove i vertici Usa stanno cercando una via d'uscita, mentre i costi economici e umani del conflitto non sono più a lungo sostenibili per le forze della coalizione che stanno perdendo la guerra.
In questo senso, Washington cerca di stringere i tempi per giungere ad una soluzione tramite il coinvolgimento politico dei talebani. Infatti, i processi messi in moto dalla Jirga (il Consiglio afgano) al fine di "integrare" i talebani a livello politico sono stati accelerati, con l'approvazione statunitense.
In questo modo Washington ha accolto la tesi di Musharraf secondo cui un compromesso con i talebani oggi rafforzerebbe la sua posizione politica, che a sua volta contribuirebbe a stabilizzare la situazione in Pakistan, favorendo l'isolamento e il contrasto dei gruppi "stranieri" del jihadismo.
Il ritorno dei talebani a Kabul resta comunque una prospettiva malvista e osteggiata dalle potenze regionali: in primo luogo l'Iran sciita, da sempre avverso ai talebani, quindi la Russia ed i paesi dell'Asia Centrale che ben conoscono le connessioni tra l'estremismo islamico in Asia Centrale e nel Caucaso. A tal proposito, il vice ministro degli esteri russo Alexander Grushko ha dichiarato in un'intervista rilasciata nel luglio scorso che "non è nostro interesse che i talebani riprendano il controllo del paese, tanto più che ciò minaccerebbe la stabilità di altri paesi".
Il ritorno al potere dei talebani, peraltro già presenti nel governo Karzai, è considerato con preoccupazione anche dai governi cinese e indiano.
Ci sono quindi tutte le premesse per prevedere che, se le tensioni fra Usa e Iran precipiteranno, i fronti di guerra in Afganistan e in Iraq diventeranno strettamente correlati fra loro, originando nell'area un nuovo e più complesso conflitto. Lo stesso Musharraff, un anno fa, aveva inviato un cupo monito: "Ricordatevi che il Pakistan è una potenza nucleare. Se dovesse cadere i guai per l'Occidente saranno gravissimi".
Il governo italiano ha da poco firmato un accordo bilaterale con quello pakistano definito "di cooperazione culturale, scientifica e tecnologica"; ma dietro a tale ambigua formulazione si sa che i generali pakistani sono interessati a forniture di armamenti anche pesanti, dopo che per anni hanno acquistato armi leggere, radar e camion prodotti dalle ditte italiane. Non è un mistero che nuove commesse riguarderebbero il gruppo Finmeccanica (nel dettaglio: Agusta, Alenia, Oto Melara, Avio, Lital, Selex) e la Fiat-Iveco.
Le variabili politiche, si sa, non toccano i profitti di guerra.

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