Se esiste un luogo dove i confini appaiono storicamente indefiniti,
questo è senz'altro la zona di frontiera tra l'Afganistan e il
Pakistan. Tale incertezza di confini nazionali, politici, etnici e
religiosi, rende del tutto inadeguata ogni lettura dei fatti che si
fermi alla superficie, dando magari per stabili alleanze e
ostilità.
Tutto, infatti, appare rovesciabile e comunque mai definitivo, su una simile scacchiera a più livelli.
Appena due settimane orsono, il ministro della difesa afgano, Abdul
Rahim Wardak, aveva richiesto agli Usa ulteriori armamenti, truppe e
mezzi finanziari per affrontare la guerriglia talebana, definendo gli
ultimi due anni "i più difficili dal 2001". Eppure tale
richiesta seguiva di pochi giorni la notizia, riferita dal quotidiano
britannico Guardian, secondo cui alcuni esponenti della ''shura''
talebana, il consiglio presieduto dal mitico mullah Omar, hanno avviato
indirettamente, attraverso terzi, trattative con il governo afgano.
Da parte sua il governo Karzai sembra, inaspettatamente, voler giocare
a tutto campo. Nello scorso agosto, il presidente-generale del Pakistan
Pervez Musharraf ha partecipato a Kabul alla "Jirga per la pace" a cui
hanno partecipato circa seicento leader tribali afgani e pakistani,
mentre lo stesso presidente Karzai ha incontrato, sempre a Kabul, il
presidente iraniano Ahmadinejad per discutere "questioni di reciproco
interesse e di reciproca preoccupazione".
Relazioni politico-diplomatiche apparentemente pericolose, dato che sia
i servizi segreti pakistani che i guardiani della rivoluzione iraniani
sono accusati di sostenere ed armare gli insorgenti afgani, per non
parlare dell'alta tensione esistente tra Washington e Tehran.
Proprio all'interno di questo contesto vanno inserite sia la guerra in
corso nel Waziristan, l'area pashtun a cavallo del confine
afgano-pakistano, che la serie di attentati, scontri e trame militari
all'interno del Pakistan.
Tra questi tragici fatti, basti ricordare il sanguinoso assalto alla
Moschea Rossa di Islamabad nello scorso luglio e la strage del 18
ottobre a Karachi contro il corteo dei sostenitori di Benazir Bhutto e
del Partito del popolo pakistano.
Nella regione denominata Waziristan - centinaia di migliaia di
chilometri quadri di montagne - area fuori dal controllo sia delle
truppe afgane che di quelle pakistane, dal 2001 si sono susseguiti
infiniti scontri armati, offensive e bombardamenti, tra gruppi tribali
pashtun e formazioni talebane contrapposte ai reparti pakistani e alle
forze Usa-Nato operanti in Afganistan. A tutt'oggi però rimane
una zona inespugnata dove, nella Valle di Swat, la rete di al-Qaeda
avrebbe ancora alcune basi operative e, secondo voci ricorrenti quanto
indimostrate, troverebbe rifugio pure Bin Laden.
All'inizio del 2006, risulta che oltre 40 mila combattenti di origine
araba, cecena e uzbeka, assieme ai waziri e ad altri militanti
pachistani giunti dalle città, si erano raccolti nel nord e nel
sud Waziristan, divisi tra due opzioni: continuare la guerriglia contro
le truppe del corrotto governo pakistano, come suggerivano i capi
qaedisti, o combattere l'occupazione militare straniera in Afganistan.
La decisione prevalente della leadership talebana fu quella di
concentrarsi nella lotta contro il nemico statunitense, stringendo
invece una tregua col regime pakistano che ha potuto reprimere ed
espellere innumerevoli combattenti stranieri facenti capo al network
jihadista.
In cambio, grazie a tale accordo tra Musharraf e il defunto mullah
Dadullah, all'inizio del 2007, i talebani hanno avuto via libera per i
loro attacchi in Afganistan. Inoltre, nell'ambito della larga autonomia
decisionale riconosciuta alle tribù pashtun, è stata
accettata anche l'istituzione di una polizia di stampo talebano "per la
promozione della virtù e la repressione del vizio".
Nei primi mesi dell'anno, alcune postazioni dei guerriglieri jihadisti
sono state attaccate e colpite dall'esercito pakistano e dopo alcuni
scontri a fuoco anche tra talebani e qaedisti, quest'ultimi in gran
parte si sarebbero spostati in Iraq, dove peraltro avrebbero rapporti
difficili anche con la resistenza irachena.
Il regime di Musharraf, nato da un colpo di stato nel 1999, rimane
comunque stretto tra la rivolta popolare antiamericana, il sempre
più forte movimento talebano, nonché la destabilizzazione
interna portata avanti da servizi segreti, settori dell'esercito e
gruppi terroristici.
Il noto esperto Ahmed Rashid ha tracciato un quadro preoccupante in un
articolo, comparso sul giornale inglese Daily Telegraph, in cui
sostiene che il Pakistan è uno stato fallito sull'orlo del
precipizio, con sempre meno legittimità costituzionale,
islamica, democratica, e nazionale.
Gli eventi di questi ultimi mesi a Islamabad sembrano confermarlo.
Un ex-primo ministro, ormai scomodo, come Nawaz Sharif è stato
sequestrato dalle autorità in pieno giorno nella capitale del
suo paese, caricato su un aereo, e consegnato ad un regime ferocemente
reazionario quale quello dell'Arabia Saudita.
Nel frattempo, l'ex-premier, Benazir Bhutto, dopo otto anni di esilio
volontario, è rientrata in Pakistan forte del più
completo appoggio di Washington, tenendo subito a precisare: "Vorrei
essere in grado di catturare Osama bin Laden da sola, senza l'aiuto
degli americani; ma ovviamente, visto che combattiamo insieme con gli
americani la guerra al terrorismo, in caso di necessità
ricorrerei al loro aiuto per eliminare lo Sceicco del terrore".
Gli Stati Uniti, infatti, hanno più che mai bisogno di un
Pakistan stabile e militarmente affidabile, quindi hanno deciso per la
Bhutto un nuovo ruolo: da oppositrice della dittatura a stampella
"civile" dell'inviso regime militare di Musharraf.
Così si preannuncia un matrimonio di reciproco interesse tra il
generale golpista e l'ex-oppositrice esule, nel segno di una fasulla
transizione democratica, con la benedizione di Bush e la regia del
vicesegretario di Stato Usa, John Negroponte.
La situazione di crisi nella Repubblica Islamica del Pakistan non
tarderà comunque ad avere i suoi riflessi in Afganistan dove i
vertici Usa stanno cercando una via d'uscita, mentre i costi economici
e umani del conflitto non sono più a lungo sostenibili per le
forze della coalizione che stanno perdendo la guerra.
In questo senso, Washington cerca di stringere i tempi per giungere ad
una soluzione tramite il coinvolgimento politico dei talebani. Infatti,
i processi messi in moto dalla Jirga (il Consiglio afgano) al fine di
"integrare" i talebani a livello politico sono stati accelerati, con
l'approvazione statunitense.
In questo modo Washington ha accolto la tesi di Musharraf secondo cui
un compromesso con i talebani oggi rafforzerebbe la sua posizione
politica, che a sua volta contribuirebbe a stabilizzare la situazione
in Pakistan, favorendo l'isolamento e il contrasto dei gruppi
"stranieri" del jihadismo.
Il ritorno dei talebani a Kabul resta comunque una prospettiva malvista
e osteggiata dalle potenze regionali: in primo luogo l'Iran sciita, da
sempre avverso ai talebani, quindi la Russia ed i paesi dell'Asia
Centrale che ben conoscono le connessioni tra l'estremismo islamico in
Asia Centrale e nel Caucaso. A tal proposito, il vice ministro degli
esteri russo Alexander Grushko ha dichiarato in un'intervista
rilasciata nel luglio scorso che "non è nostro interesse che i
talebani riprendano il controllo del paese, tanto più che
ciò minaccerebbe la stabilità di altri paesi".
Il ritorno al potere dei talebani, peraltro già presenti nel
governo Karzai, è considerato con preoccupazione anche dai
governi cinese e indiano.
Ci sono quindi tutte le premesse per prevedere che, se le tensioni fra
Usa e Iran precipiteranno, i fronti di guerra in Afganistan e in Iraq
diventeranno strettamente correlati fra loro, originando nell'area un
nuovo e più complesso conflitto. Lo stesso Musharraff, un anno
fa, aveva inviato un cupo monito: "Ricordatevi che il Pakistan è
una potenza nucleare. Se dovesse cadere i guai per l'Occidente saranno
gravissimi".
Il governo italiano ha da poco firmato un accordo bilaterale con quello
pakistano definito "di cooperazione culturale, scientifica e
tecnologica"; ma dietro a tale ambigua formulazione si sa che i
generali pakistani sono interessati a forniture di armamenti anche
pesanti, dopo che per anni hanno acquistato armi leggere, radar e
camion prodotti dalle ditte italiane. Non è un mistero che nuove
commesse riguarderebbero il gruppo Finmeccanica (nel dettaglio: Agusta,
Alenia, Oto Melara, Avio, Lital, Selex) e la Fiat-Iveco.
Le variabili politiche, si sa, non toccano i profitti di guerra.
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