Il 31 ottobre la Corte di Cassazione ha ribadito quanto aveva
già affermato in una sentenza del maggio scorso a proposito
della coltivazione domestica di canapa e cioè che questa non
costituisce reato (ed è quindi oggetto delle peraltro
pesantissime sanzioni amministrative previste dalla Legge Fini, ma non
di quelle penali) se essa "non si sostanzia nella coltivazione in senso
tecnico-agrario ovvero imprenditoriale". Se farsi in casa la propria
erba preferita, "rimane nell'ambito concettuale della cosiddetta
coltivazione domestica, ricade nella nozione, di genere e di chiusura,
della detenzione, sicché occorre verificare se, nella concreta
vicenda, essa sia destinata ad un uso esclusivamente personale". Anche
se in varie città d'Italia in questi mesi vi sono stati diversi
casi di coltivatori assolti in tribunale, contemporaneamente in tutta
la penisola è continuata la guerra alle piccole piantagioni di
ganja che è lo sport preferito degli sbirri nostrani e dei
Carabinieri in particolare, soprattutto da quando nel 2004 sono stati
rafforzati i loro Nuclei Elicotteristi con l'obiettivo dichiarato di
"sradicare le coltivazioni di droga" (parola dell'allora vicepremier
Gianfranco Fini). E come tutte le estati le carceri si sono riempite di
piccoli coltivatori…
Uno di questi era Aldo Bianzino, un quarantaquattrenne piemontese che
da anni viveva pacificamente con la famiglia nel suo casale della
campagna umbra, dove faceva il falegname. Venerdì 12 ottobre era
stato arrestato per possesso di piante di canapa assieme a Roberta, la
madre del più giovane dei suoi tre figli. Dopo una perquisizione
alle 7 del mattino, con il cane antidroga che non aveva trovato nulla
nel casale, da dietro un cespuglio erano spuntate alcune piante di
marijuana. Aldo era totalmente incensurato, ma era stato comunque
portato nel commissariato di Città di Castello e poi trasferito
nel carcere di Capanne, nel pomeriggio del 13 ottobre, insieme alla sua
compagna. Il giorno dopo è stato trovato morto nella sua cella.
Sul corpo non c'erano lesioni o segni di traumi o percosse e la sua
morte era rimasta confinata in prima lettura nella casistica delle
"morti naturali" in cui l'avevano catalogata i medici del carcere.
Dieci giorni dopo sono usciti però i risultati della prima
autopsia che, riscontrando quattro commozioni cerebrali, lesioni al
fegato, due costole rotte, parlava apertamente di "
compatibilità con l'omicidio", in quanto da un lato sarebbe
esclusa la morte per infarto, ma anche la possibilità che le
lesioni interne siano dovute e una caduta accidentale (dal lettino
della cella ad esempio): ci sarebbe infatti un ematoma che però
non c'è. Le due ipotesi possibili, entrambe riconducibili a un
atto violento contro il corpo di Aldo, potrebbero invece ricondurre o a
un violento sbatacchiamento del collo che ha prodotto emorragie interne
o a lesioni alla materia cerebrale causate con un'arma impropria,
utilizzata in modo da non far percepire i colpi (spranghe ricoperte da
stracci bagnati ad esempio).
Tutti coloro che lo hanno conosciuto, ricordano Aldo come una persona
tranquilla e gentile che viveva secondo un proprio credo nonviolento di
stampo gandhiano e che è difficile poter immaginare coinvolto in
una qualsiasi lite con altri detenuti. Peraltro, l'unico giorno in
carcere di tutta la sua vita, Aldo l'avrebbe passato in isolamento,
come prescrivono le regole carcerarie. È fin troppo evidente che
i responsabili della sua morte vanno cercati tra gli agenti del carcere
di Capanne, anche se rimangono oscuri i motivi che hanno portato alla
spietata esecuzione di un uomo che tutti i suoi amici descrivono come
"la mitezza in persona". Il carcere di Capanne, peraltro, è una
"struttura di media sicurezza", inaugurata solo cinque anni fa, ma non
è la prima volta che un detenuto vi muore in circostanze
misteriose. Nel rapporto "Morire di carcere", pubblicato
dall'associazione Ristretti Orizzonti, sono segnalate anche le vicende
di una detenuta italiana di 44 anni, che si sarebbe suicidata
nell'ultrasorvegliato centro clinico penitenziario e quella di un
detenuto straniero, morto dopo un intervento chirurgico alle emorroidi,
per mancanza di assistenza notturna.
Dopo che la mobilitazione degli amici di Aldo e degli
antiproibizionisti perugini (che organizzano ogni anno la street parade
"Streetola il controllo") ha acceso i riflettori sul suo caso, giudici
e politicanti si sono sperticati nelle rituali promesse di voler fare
luce sulla sua fine. Attualmente si sa che due agenti sono già
indagati per omissione d'atti di ufficio e omissione di soccorso, ma
intanto la magistratura perugina continua a non escludere la morte
naturale ed ha ordinato che il corpo di Aldo Bianzino dovrà
essere esaminato da altri periti. Inoltre, il pm che si occupa della
morte di Aldo è lo stesso che ha spiccato il mandato d'arresto
che lo ha portato in carcere soltanto perché coltivava un po' di
cannabis. Anche per protestare contro questa ennesima indecenza, il 10
novembre a Perugia ci sarà una manifestazione nazionale a cui
promettono di partecipare tutti i più attivi gruppi
antiproibizionisti italiani, per chiedere "verità e giustizia"
per Aldo, ma anche per dire basta ad un regime proibizionista che si
rivela sempre più crudele.
Quanto sia non solo feroce, ma anche insensato il proibizionismo lo
dimostrano anche le vicende molto meno gravi che hanno visto coinvolti
Fabrizio Cinquini e Paolo Severi. Cinquini è un medico-chirurgo
di Pietrasanta (LU), notissimo ricercatore sulla cannabis terapeutica,
molto conosciuto nell'ambito medico per avere prodotto un'erba medicale
che ha avuto successo in vari esperimenti. Sabato 21 ottobre è
stato arrestato perchè sorpreso con due etti di marijuana in
auto. La Cannabis ha proprietà terapeutiche note a tutti e
confermate da migliaia di articoli sulle riviste scientifiche ed
è evidente che il medico versiliese usava la sostanza per fini
terapeutici (curava pazienti a cui le gabole burocratiche impedivano di
ottenere la cannabis, il cui impiego terapeutico è riconosciuto
dalle stesse leggi italiane). La sua colpa è quella di aver
seguito il giuramento di Ippocrate che impone al medico di cercare di
procurare un rimedio ai propri pazienti e soprattutto di non aver mai
nascosto le proprie convinzioni antiproibizioniste che lo avevano
portato tra l'altro ad organizzare la fiera convegno Cannabis Tipo
Forte che ogni anno raduna a Bologna decine di migliaia di ricercatori
sull'uso terapeutico della marijuana, antiproibizionisti e semplici
estimatori della pianta più amata e più proibita.
Paolo Severi, invece, è un giovane di Sassuolo che tra la fine
del 1992 e gli inizi del 1996 è stato involontario ospite del
lager di San Patrignano e che nel novembre del 2003 ha pubblicato sul
quindicinale Paginecontro (che, allora, si editava a Santarcangelo di
Romagna) un articolo intitolato "Dentro il ghetto" e che parlava di San
Patrignano e di Andrea Muccioli. L'articolo si apre con un lunghissimo
elenco di quelle che il suo autore chiama "aberrazioni". Elenco di
aberrazioni: pestaggi, stupri, omicidi, metodi fallimentari del
recupero con la diffusione di dati sballati e gonfiati, il fiume di
danaro che dalla collettività va verso una struttura che ha
risultati e metodi tutti da verificare, "il mancato rispetto delle pari
opportunità tra uomo e donna nello svolgimento dei corsi di
formazione professionale", le pressioni verso chi la pensa
politicamente in maniera diversa, il fatto di fare vivere 12/15 persone
in stanze fatte per due/tre, con i relativi avvisi prima delle visite
ispettive dell'ausl, l'impedimento pregiudiziale a visitare gli
ammalati di aids nell'ospedale interno attuato nei confronti di persone
indesiderate, tutti puntualmente riferiti a fatti specifici. Subito
dopo la pubblicazione, Paolo Severi è stato querelato da Andrea
Muccioli. Il Tribunale ha recentemente accolto la denuncia di Muccioli
Jr ed ha rinviato a giudizio per diffamazione Severi insieme
all'editore di quel giornale (che, nel frattempo, ha cessato le
pubblicazioni): Mirella Canini Venturini. La diffamazione, però,
secondo il pubblico ministero non consiste nell'aver definito "ghetto"
San Patrignano, né nella incredibile serie di abusi elencati, ma
nell'aver attribuito al piccolo Muccioli "quattro definizioni
personali", cioè "1. Valvassino arrogante 2. Ghigno
insignificante 3. Capace di imbrogliare le carte 4. Artista della
truffa mediatica". Insomma, San Patrignano è un lager dove
avvengono violazioni dei diritti umani di ogni genere, ma i magistrati
non sanno far di meglio che portare in giudizio chi questi crimini ha
avuto il coraggio di denunciarli...
robertino