Umanità Nova, n.36 dell'11 novembre 2007, anno 87

Vittime del proibizionismo. Aldo Bianzino e gli altri


Il 31 ottobre la Corte di Cassazione ha ribadito quanto aveva già affermato in una sentenza del maggio scorso a proposito della coltivazione domestica di canapa e cioè che questa non costituisce reato (ed è quindi oggetto delle peraltro pesantissime sanzioni amministrative previste dalla Legge Fini, ma non di quelle penali) se essa "non si sostanzia nella coltivazione in senso tecnico-agrario ovvero imprenditoriale". Se farsi in casa la propria erba preferita, "rimane nell'ambito concettuale della cosiddetta coltivazione domestica, ricade nella nozione, di genere e di chiusura, della detenzione, sicché occorre verificare se, nella concreta vicenda, essa sia destinata ad un uso esclusivamente personale". Anche se in varie città d'Italia in questi mesi vi sono stati diversi casi di coltivatori assolti in tribunale, contemporaneamente in tutta la penisola è continuata la guerra alle piccole piantagioni di ganja che è lo sport preferito degli sbirri nostrani e dei Carabinieri in particolare, soprattutto da quando nel 2004 sono stati rafforzati i loro Nuclei Elicotteristi con l'obiettivo dichiarato di "sradicare le coltivazioni di droga" (parola dell'allora vicepremier Gianfranco Fini). E come tutte le estati le carceri si sono riempite di piccoli coltivatori…
Uno di questi era Aldo Bianzino, un quarantaquattrenne piemontese che da anni viveva pacificamente con la famiglia nel suo casale della campagna umbra, dove faceva il falegname. Venerdì 12 ottobre era stato arrestato per possesso di piante di canapa assieme a Roberta, la madre del più giovane dei suoi tre figli. Dopo una perquisizione alle 7 del mattino, con il cane antidroga che non aveva trovato nulla nel casale, da dietro un cespuglio erano spuntate alcune piante di marijuana. Aldo era totalmente incensurato, ma era stato comunque portato nel commissariato di Città di Castello e poi trasferito nel carcere di Capanne, nel pomeriggio del 13 ottobre, insieme alla sua compagna. Il giorno dopo è stato trovato morto nella sua cella.
Sul corpo non c'erano lesioni o segni di traumi o percosse e la sua morte era rimasta confinata in prima lettura nella casistica delle "morti naturali" in cui l'avevano catalogata i medici del carcere. Dieci giorni dopo sono usciti  però i risultati della prima autopsia che, riscontrando quattro commozioni cerebrali, lesioni al fegato, due costole rotte, parlava apertamente di " compatibilità con l'omicidio", in quanto da un lato sarebbe esclusa la morte per infarto, ma anche la possibilità che le lesioni interne siano dovute e una caduta accidentale (dal lettino della cella ad esempio): ci sarebbe infatti un ematoma che però non c'è. Le due ipotesi possibili, entrambe riconducibili a un atto violento contro il corpo di Aldo, potrebbero invece ricondurre o a un violento sbatacchiamento del collo che ha prodotto emorragie interne o a lesioni alla materia cerebrale causate con un'arma impropria, utilizzata in modo da non far percepire i colpi (spranghe ricoperte da stracci bagnati ad esempio).
Tutti coloro che lo hanno conosciuto, ricordano Aldo come una persona tranquilla e gentile che viveva secondo un proprio credo nonviolento di stampo gandhiano e che è difficile poter immaginare coinvolto in una qualsiasi lite con altri detenuti. Peraltro, l'unico giorno in carcere di tutta la sua vita, Aldo l'avrebbe passato in isolamento, come prescrivono le regole carcerarie. È fin troppo evidente che i responsabili della sua morte vanno cercati tra gli agenti del carcere di Capanne, anche se rimangono oscuri i motivi che hanno portato alla spietata esecuzione di un uomo che tutti i suoi amici descrivono come "la mitezza in persona". Il carcere di Capanne, peraltro, è una "struttura di media sicurezza", inaugurata solo cinque anni fa, ma non è la prima volta che un detenuto vi muore in circostanze misteriose. Nel rapporto "Morire di carcere", pubblicato dall'associazione Ristretti Orizzonti, sono segnalate anche le vicende di una detenuta italiana di 44 anni, che si sarebbe suicidata nell'ultrasorvegliato centro clinico penitenziario e quella di un detenuto straniero, morto dopo un intervento chirurgico alle emorroidi, per mancanza di assistenza notturna.
Dopo che la mobilitazione degli amici di Aldo e degli antiproibizionisti perugini (che organizzano ogni anno la street parade "Streetola il controllo") ha acceso i riflettori sul suo caso, giudici e politicanti si sono sperticati nelle rituali promesse di voler fare luce sulla sua fine. Attualmente si sa che due agenti sono già indagati per omissione d'atti di ufficio e omissione di soccorso, ma intanto la magistratura perugina continua a non escludere la morte naturale ed ha ordinato che il corpo di Aldo Bianzino dovrà essere esaminato da altri periti. Inoltre, il pm che si occupa della morte di Aldo è lo stesso che ha spiccato il mandato d'arresto che lo ha portato in carcere soltanto perché coltivava un po' di cannabis. Anche per protestare contro questa ennesima indecenza, il 10 novembre a Perugia ci sarà una manifestazione nazionale a cui promettono di partecipare tutti i più attivi gruppi antiproibizionisti italiani, per chiedere "verità e giustizia" per Aldo, ma anche per dire basta ad un regime proibizionista che si rivela sempre più crudele.
Quanto sia non solo feroce, ma anche insensato il proibizionismo lo dimostrano anche le vicende molto meno gravi che hanno visto coinvolti Fabrizio Cinquini e Paolo Severi. Cinquini è un medico-chirurgo di Pietrasanta (LU), notissimo ricercatore sulla cannabis terapeutica, molto conosciuto nell'ambito medico per avere prodotto un'erba medicale che ha avuto successo in vari esperimenti. Sabato 21 ottobre è stato arrestato perchè sorpreso con due etti di marijuana in auto. La Cannabis ha proprietà terapeutiche note a tutti e confermate da migliaia di articoli sulle riviste scientifiche ed è evidente che il medico versiliese usava la sostanza per fini terapeutici (curava pazienti a cui le gabole burocratiche impedivano di ottenere la cannabis, il cui impiego terapeutico è riconosciuto dalle stesse leggi italiane). La sua colpa è quella di aver seguito il giuramento di Ippocrate che impone al medico di cercare di procurare un rimedio ai propri pazienti e soprattutto di non aver mai nascosto le proprie convinzioni antiproibizioniste che lo avevano portato tra l'altro ad organizzare la fiera convegno Cannabis Tipo Forte che ogni anno raduna a Bologna decine di migliaia di ricercatori sull'uso terapeutico della marijuana, antiproibizionisti e semplici estimatori della pianta più amata e più proibita.
Paolo Severi, invece, è un giovane di Sassuolo che tra la fine del 1992 e gli inizi del 1996 è stato involontario ospite del lager di San Patrignano e che nel novembre del 2003 ha pubblicato sul quindicinale Paginecontro (che, allora, si editava a Santarcangelo di Romagna) un articolo intitolato "Dentro il ghetto" e che parlava di San Patrignano e di Andrea Muccioli. L'articolo si apre con un lunghissimo elenco di quelle che il suo autore chiama "aberrazioni". Elenco di aberrazioni: pestaggi, stupri, omicidi, metodi fallimentari del recupero con la diffusione di dati sballati e gonfiati, il fiume di danaro che dalla collettività va verso una struttura che ha risultati e metodi tutti da verificare, "il mancato rispetto delle pari opportunità tra uomo e donna nello svolgimento dei corsi di formazione professionale", le pressioni verso chi la pensa politicamente in maniera diversa, il fatto di fare vivere 12/15 persone in stanze fatte per due/tre, con i relativi avvisi prima delle visite ispettive dell'ausl, l'impedimento pregiudiziale a visitare gli ammalati di aids nell'ospedale interno attuato nei confronti di persone indesiderate, tutti puntualmente riferiti a fatti specifici. Subito dopo la pubblicazione, Paolo Severi è stato querelato da Andrea Muccioli. Il Tribunale ha recentemente accolto la denuncia di Muccioli Jr ed ha rinviato a giudizio per diffamazione Severi insieme all'editore di quel giornale (che, nel frattempo, ha cessato le pubblicazioni): Mirella Canini Venturini. La diffamazione, però, secondo il pubblico ministero non consiste nell'aver definito "ghetto" San Patrignano, né nella incredibile serie di abusi elencati, ma nell'aver attribuito al piccolo Muccioli "quattro definizioni personali", cioè "1. Valvassino arrogante 2. Ghigno insignificante 3. Capace di imbrogliare le carte 4. Artista della truffa mediatica". Insomma, San Patrignano è un lager dove avvengono violazioni dei diritti umani di ogni genere, ma i magistrati non sanno far di meglio che portare in giudizio chi questi crimini ha avuto il coraggio di denunciarli...

robertino

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