Anche questa è fatta. Questo l'intercalare tipico di Giuseppe
II d'Austria (almeno nel film Amadeus di Milos Forman) alla
composizione di ogni grana di corte dovuta alle intemperanze del
giovane Mozart. E accompagnava la frase fregandosi le mani (mi sembra
di ricordare) in segno di soddisfazione. Anche noi potremmo riprendere
questo dire, conclusa la giornata di lotta del 9 novembre con tutta la
lunga preparazione da cui è stata preceduta. Si vorrebbe, in
casi come questi, stendere un bilancio e proporre indicazioni derivate.
Essendo il mio giudizio altalenante tra foschi presagi e caute
speranze, mi limito ad alcune considerazioni:
1) Lo sciopero e la sua indizione: Lo sciopero era necessario, una
risposta obbligata ai giri di vite di governo e imprenditori ed ai
futuri attacchi alle condizioni di lavoro e di vita della working
class. Una critica dura e senza appello alla politica nefanda e
subalterna dei sindacati di stato. Un segnale preciso a coloro che
(forse ingenuamente, ma anche questa attenuante ha i giorni contati)
continuano a far mostra di credere e a propalare l'assurdità di
una Cgil "riorientabile" su posizioni di classe. Una lezione, questa
(dell'irriformabilità cigiellina) che sembrano aver colto
settori del sindacalismo di base e della sinistra ex-rifondazione
tradizionalmente inclini a "dialogare" con una presunta sinistra
confederale. L'indizione unitaria dello sciopero e l'adesione
pressoché unanime di tutta l'area politico-sociale estranea
(almeno formalmente) al teatrino istituzionale, hanno rappresentato un
elemento relativamente nuovo e sicuramente positivo.
2) L'adesione allo sciopero e le manifestazioni: La Cub dichiara oltre
due milioni di scioperanti e 400.000 manifestanti. Anche dimezzate
(doverosamente e realisticamente, viste certe attitudini
autoesaltatorie) queste cifre rappresentano un elemento non
trascurabile, visto il sistematico boicottaggio dei mass-media che,
"impegnati" col problema sicurezza e con la caccia al rom, hanno dato
notizia dello sciopero (derubricato ad agitazione nei trasporti,
servizi e pubblico impiego) solo in quanto possibile causa di disagi
nei trasporti. Soprattutto la presenza in piazza (che poi è il
dato più certo e rappresentativo del livello di coscienza
espresso) merita riflessione, anche e principalmente per la
composizione sociale dei manifestanti: molti di più i lavoratori
(stabili o precari che fossero) rispetto ad altre categorie
recentemente e massicciamente impegnate in lotte settoriali contro le
politiche governative (studenti, ma anche movimenti ambientalisti e
antimilitaristi).
3) Quest'ultimo elemento induce a considerazioni ambivalenti. Da un
lato, la buona partecipazione di lavoratori in senso stretto, conferma
il consolidarsi di un'opposizione attiva alle vessatorie politiche
imprenditorial-governative e al benevolo avvallo confederale,
sedimentando l'opposizione semi-passiva del rifiuto della truffa dei
fondi pensione e del blocco (astensione-no) che nei fatti ha respinto
l'accordo sul welfare. Dall'altro però, la non altrettanto buona
partecipazione di altri settori antagonisti sembra indicare un
misconoscimento del carattere prevalentemente politico dello sciopero
(o quantomeno dell'articolazione delle piattaforme che ambivano ad
investire tutto l'antagonismo sociale) e la sua derubricazione (nel
conscio o nel subconscio di molti) ad agitazione generalizzata
sì, ma inerente nella sostanza la condizione del lavoro
salariato e delle sue propaggini. Un limite di comprensione o di
capacità di comunicazione? Oppure, un'insufficienza contingente
o un limite strutturale del sindacalismo di base e conflittuale?
4) Concludo su quest'ultimo interrogativo. Il sindacalismo di base,
autorganizzato e conflittuale (con tutte le varie graduazioni di
attribuzione di queste caratteristiche) è ormai da parecchi anni
una realtà consolidata e importante. Però non decolla,
anche se cresce lo fa, da anni, lentamente e comunque non supera limiti
numerici che lo collocano in una nicchia di minoranza del movimento
sindacale complessivo. Di più: nonostante le enunciazioni di
principio e le belle intenzioni, non riesce nelle sue battaglie (e
quest'ultimo sciopero lo conferma) ad apparire rappresentativo di una
conflittualità sociale variegata e frastagliata. Allora la
domanda che conviene porsi - in maniera anche molto cruda - è:
siamo solamente di fronte ai limiti di una dirigenza e di un ceto
militante formatisi alla vecchia scuola sindacal-vertenziale
(fabbrichista e/o categoriale) e, sostanzialmente, maturi per il
pensionamento? Oppure i limiti sono quelli della forma-sindacato
tradizionale (legata ad una precisa fase dello sviluppo capitalistico)
che autorganizzazione e sindacalismo di base hanno ereditato e
introiettato?
Scusandomi per l'estrema semplificazione, penso che su quest'ordine di
problemi (come direbbe un caro e noto compagno) valga la pena di
riflettere. Lo sciopero testé concluso ce ne dà il destro.
Walter Kerwal