Umanità Nova, n.37 del 18 novembre 2007, anno 87

Pakistan. La mossa di Musharraf


Musharraf non lascia e raddoppia. Dopo due settimane durante le quali il mondo ha potuto toccare con mano quanto il Pakistan sia uno stato destabilizzato, il generale presidente del "paese dei puri", ha nuovamente effettuato un golpe che ha chiuso la breve esperienza di apertura democratica iniziata lo scorso anno e il cui apice, nei disegni geopolitici degli alleati "pesanti" di Musharraf -Londra e Washington - doveva essere toccato dal ritorno della corrottissima (ma filo occidentale) Benazir Bhutto, ex esiliata d'oro e candidata alla guida del prossimo governo pakistano dopo le elezioni di gennaio.
Il primo golpe lo ricordiamo era stato effettuato dal generale Musharraf nel 1999 ed era servito a mandare a casa l'ex rivale di Benazir Bhutto, Nawaz Sharif, premier eletto alla guida di una Lega islamica poco gradita a Washington e ritenuta troppo indipendente dagli alti gradi dell'esercito. Alti gradi dell'esercito che hanno di fatto sempre guidato il paese tranne che durante gli anni seguiti alla sconfitta militare con l'India durante la guerra del Bangladesh nel 1971. In quell'occasione i feroci e insieme incapaci generali di Islamabad avevano perso anche la faccia venendo sconfitti dal rivale geopolitico di sempre; inoltre la sconfitta, oltre a non permettere il recupero del Kashmir sul quale punta da sempre il nazionalismo locale, aveva comportato il distacco di quello che fino ad allora era stato il Pakistan Orientale. A seguito della sconfitta la società civile progressista e borghese pakistana aveva sottratto il potere ai generali ma la mancata ascensione economica e le difficoltà nel rapporto con gli USA avevano spianato la strada a un golpe capitanato dal padre nobile di tutti gli ufficiali nazionalisti e islamisti del paese: il generale Zia-Ul Haq. Costui, non contento del risultato del golpe aveva anche fatto impiccare con esecuzione pubblica il padre di Benazir Bhutto, allora primo ministro.
La nidiata dei generali di Zia fu quella che costruì il rapporto stretto tra nazionalismo orientato geopoliticamente contro l'India, assistenza prima ai mujahiddin afgani nella guerra contro i russi e poi ai Talebani, vera e propria creatura partorita dai servizi segreti di Islamabad. Ma questo rapporto non fu solo strumentale alla visione geopolitica dei generali al potere in Pakistan, ma comportò anche una decisa islamizzazione della società. L'introduzione della sharia, l'appoggio anche finanziario ai settori più revanscisti del clero sunnita, la guerra aperta ai fedeli di rito sciita e quella più coperta ai cristiani del paese, furono le tappe di una sorta di saudizzazione subita dal paese a partire dal 1977. Il parallelo non sembri strano: è vero che il Pakistan è rimasto una repubblica, ma è vero che il potere è diventato esclusiva di una piccola cerchia di ufficiali; è vero che la versione principe dell'Islam non è il wahabismo, ma le moschee più in auge a partire dalla fine degli anni Settanta sono state quelle di obbedienza Deobandista, una versione non meno formalista e intollerante delle parole del profeta.
In questo quadro l'irruzione della guerra "al terrorismo" degli USA ha incrinato le sicurezze geopolitiche del Pakistan: i pakistani si sono trovati a dover sconfessare le loro creature afgane e ad accettare la presidenza di Hamid Karzai, da sempre vicino a Russia ed India, oltre che uomo degli USA in loco. Inoltre la costruzione americana di un cerchio di contenimento in funzione anticinese ha costretto Islamabad ad ingoiare due rospi in uno: in primo luogo rompere con gli alleati cinesi con i quali aveva costruito per quindici anni un fronte comune di appoggio ai muyaheddin afgani e di ostilità a russi ed indiani, in secondo luogo ha dovuto subire il diktat di Washington che ha imposto un graduale riavvicinamento con l'India, paese fondamentale nella strategia americana di contenimento della Cina. Questo riavvicinamento ha comportato la fine dell'appoggio agli indipendentisti kashmiri da sempre operanti in stretto rapporto con l'esercito e, soprattutto, con i potentissimi servizi segreti. Non è un mistero per nessuno che questa mossa non sia stata gradita a una parte consistente dell'esercito che ha iniziato a remare contro il generale presidente e a colpire i suoi rapporti con gli USA nel delicatissimo scacchiere afgano.
Proprio l'Afganistan è stata la pietra della definitiva rottura tra Musharraf e il mileu islamista legato a esercito e servizi. Se, infatti, per almeno cinque anni il Pakistan ha formalmente appoggiato l'occupazione occidentale dell'Afganistan continuando allo stesso tempo a fornire armi e rifugio ai Talebani e alla direzione strategica di Al Qaeda, le pressioni congiunte di Londra e Washington hanno infine costretto la Presidenza pakistana a rompere i suoi rapporti di fiducia con la leadership delle aree tribali, a maggioranza pashtun e collocate politicamente a fianco dei Talebani e della stessa Al Qaeda. Il gioco delle tre carte è finito nel 2006 e l'esercito ha iniziato ad attaccare i gruppi armati islamisti che continuavano a gestire il potere lungo tutto il confine con l'Afganistan. Questa novità ha prodotto il passaggio all'opposizione dell'area politica islamica all'interno della quale bisogna collocare una parte dell'esercito e quasi interamente i servizi segreti. Lo scorso giugno questa crisi ha toccato l'apice quando Musharraf ha dato l'ordine di attaccare la Moschea Rossa centro islamico d'importanza centrale nella galassia dell'Islam pakistano, i cui militanti avevano iniziato a imporre nel quartiere di Islamabad dove si trova l'edificio un ordine di tipo talebano. Alla reazione della Polizia i militanti si erano rifugiati in armi all'interno della moschea, sfidando apertamente Musharraf ad accettare il loro potere autonomo o ad attaccarli. L'attacco, confidavano i militanti avrebbe prodotto un'insurrezione islamica nel paese. Nonostante Musharraf abbia deciso per la prova di forza tale evento non si è compiuto anche perché l'estabilishment islamico riteneva di non avere ancora la forza per fondare una repubblica islamica e ha visto l'azione dei mullah della moschea come uno stupido avventurismo. Questo non toglie che sul lato islamico Musharraf abbia perso ora ogni consenso e che una parte consistente del suo regime stia solo aspettando l'occasione per levarlo di torno.
Ma la società civile pakistana ha anche espresso un'opposizione di tipo democratico al regime del generale formata da ceti medio-alti occidentalizzanti e schierati a favore di una trasformazione del paese in senso liberale e alla fine dell'ipoteca religiosa sul paese. Tale schieramento è favorevole a una decisa collocazione del paese all'interno dell'Occidente e alla fine dell'appoggio più o meno mascherato alle forze islamiche militanti.
Questo schieramento ha trovato un'unità e un simbolo a marzo quando la deposizione del giudice Chaudry da capo della Corte Suprema, giudice che si era opposto al disegno di Musharraf di rimanere allo stesso tempo Presidente e Capo dell'Esercito, ha prodotto una mobilitazione straordinaria di avvocati, giornalisti, imprenditori e studenti che hanno profondamente scosso il paese. A luglio un tribunale di supremi giudici ha annullato la decisione e ha costretto Musharraf a doversi confrontare ancora con un'istituzione diventata infida. La Corte Suprema stava in questi giorni decidendo se accogliere un ricorso contro l'elezione presidenziale avvenuta a Settembre, basato sulla contestazione del doppio ruolo di Musharraf. È chiaro che una Suprema Corte diventata baluardo dell'opposizione non poteva essere accettata da Musharraf in un momento così critico. La suprema Corte aveva sempre avvallato tutte le decisioni dei militari in Pakistan fin dagli anni '50, compresi i quattro golpe ufficiali subiti dal paese. La sua trasformazione in nemica deve aver convinto il presidente a muoversi per deporre Chaudry e i sette membri della Corte che si sono pronunciati contro lo Stato d'emergenza e i decreti che hanno annullato le elezioni di gennaio, chiuso i canali televisivi non controllati dal governo e sospeso il Parlamento.
L'altro fatto che ha radicalizzato le decisioni di Musharraf è da ricercarsi negli sviluppi del rientro di Benazir Bhutto nel paese. Tale avvenimento, salutato da uno spaventoso attentato al tritolo effettuato da militanti islamici ma probabilmente organizzato dai servizi segreti, si doveva configurare come il compimento della strategia occidentale di controllo di un Pakistan considerato non attendibile. Secondo gli accordi intercorsi tra il Presidente e l'ex Primo Ministro in esilio, le accuse di corruzione mosse contro di lei sarebbero state ritirate; in compenso la Bhutto avrebbe permesso il voto del Parlamento che doveva reinsediare Musharraf al potere per i prossimi cinque anni. Così è avvenuto ma la situazione ha iniziato subito a precipitare: la Bhutto ha rischiato la vita nell'attentato del giorno del suo ritorno e ha subito iniziato ad accusare i servizi della strage; un altro attentato è stato effettuato contro Musharraf a Rawalpindi durante una riunione del Presidente con i Servizi Segreti. Non tale da mettere a rischio la vita di Musharraf, ma tale da mandargli un messaggio chiaro. Messaggio che il Presidente ha subito interpretato correttamente come un segnale che l'esercito e i servizi nella loro maggioranza non avrebbero accettato un condominio tra Musharraf e la Bhutto con un programma filo occidentale e rivolto contro gli interessi geopolitici del Pakistan. In altre parole Musharraf rischia di non trovarsi più alcun appoggio proprio tra i settori che fino ad ora lo hanno sostenuto.
Unitamente a questo vi è anche il fatto che Musharraf ha compreso che l'accordo con la Bhutto non lo garantiva per nulla in caso di una vittoria schiacciante di quest'ultima alle elezioni di Gennaio. L'appoggio di Washington e di Londra va' in modo evidente alla signora Bhutto, e un suo successo sarebbe stato un buon motivo per abbandonare l'infido generale. Musharraf ha compreso la situazione e ha giocato in attacco sospendendo le elezioni e bloccando l'evoluzione prevista dai desiderata occidentali. Non è un caso che Condoleeza Rice abbia commentato il golpe in modo negativo e che si sia affrettata a chiedere il ritorno della democrazia nel paese. Gli USA in modo evidente consideravano Musharraf un cavallo sfiancato e avevano previsto di giocare tutto il loro appoggio a favore della Bhutto. L'azione del generale sarà pure disperata ma gode di una certa lucidità: bloccando tutto costringe gli alleati angloamericani a dover fare i conti con lui e a non pensare di poter tranquillamente cancellarlo a favore della Bhutto. Se la sua scommessa darà i frutti che il generale spera è presto per vederlo, ma già adesso si può affermare che questa era l'unica mossa che Musharraf poteva fare per non perdere il potere. Nel farla tra l'altro ha evitato in modo evidente di coinvolgere la rivale negli avvenimenti, avvertendola per tempo e favorendone il trasferimento a Dubai da dove oggi lancia proclami democratici della cui sincerità è lecito dubitare. Le prossime settimane diranno qualcosa di più sulle evoluzioni di queste dinamiche e, soprattutto, su quale sia l'equilibrio dei poteri in Pakistan e se una forza autonoma democratica prodotta dai ceti medio-alti esiste veramente ed è in grado di azione politica, o se il boccino è destinato a restare nelle mani dell'élite militare e dei suoi terminali islamici.

Giacomo Catrame


home | sommario | comunicati | archivio | link | contatti