Musharraf non lascia e raddoppia. Dopo due settimane durante le
quali il mondo ha potuto toccare con mano quanto il Pakistan sia uno
stato destabilizzato, il generale presidente del "paese dei puri", ha
nuovamente effettuato un golpe che ha chiuso la breve esperienza di
apertura democratica iniziata lo scorso anno e il cui apice, nei
disegni geopolitici degli alleati "pesanti" di Musharraf -Londra e
Washington - doveva essere toccato dal ritorno della corrottissima (ma
filo occidentale) Benazir Bhutto, ex esiliata d'oro e candidata alla
guida del prossimo governo pakistano dopo le elezioni di gennaio.
Il primo golpe lo ricordiamo era stato effettuato dal generale
Musharraf nel 1999 ed era servito a mandare a casa l'ex rivale di
Benazir Bhutto, Nawaz Sharif, premier eletto alla guida di una Lega
islamica poco gradita a Washington e ritenuta troppo indipendente dagli
alti gradi dell'esercito. Alti gradi dell'esercito che hanno di fatto
sempre guidato il paese tranne che durante gli anni seguiti alla
sconfitta militare con l'India durante la guerra del Bangladesh nel
1971. In quell'occasione i feroci e insieme incapaci generali di
Islamabad avevano perso anche la faccia venendo sconfitti dal rivale
geopolitico di sempre; inoltre la sconfitta, oltre a non permettere il
recupero del Kashmir sul quale punta da sempre il nazionalismo locale,
aveva comportato il distacco di quello che fino ad allora era stato il
Pakistan Orientale. A seguito della sconfitta la società civile
progressista e borghese pakistana aveva sottratto il potere ai generali
ma la mancata ascensione economica e le difficoltà nel rapporto
con gli USA avevano spianato la strada a un golpe capitanato dal padre
nobile di tutti gli ufficiali nazionalisti e islamisti del paese: il
generale Zia-Ul Haq. Costui, non contento del risultato del golpe aveva
anche fatto impiccare con esecuzione pubblica il padre di Benazir
Bhutto, allora primo ministro.
La nidiata dei generali di Zia fu quella che costruì il rapporto
stretto tra nazionalismo orientato geopoliticamente contro l'India,
assistenza prima ai mujahiddin afgani nella guerra contro i russi e poi
ai Talebani, vera e propria creatura partorita dai servizi segreti di
Islamabad. Ma questo rapporto non fu solo strumentale alla visione
geopolitica dei generali al potere in Pakistan, ma comportò
anche una decisa islamizzazione della società. L'introduzione
della sharia, l'appoggio anche finanziario ai settori più
revanscisti del clero sunnita, la guerra aperta ai fedeli di rito
sciita e quella più coperta ai cristiani del paese, furono le
tappe di una sorta di saudizzazione subita dal paese a partire dal
1977. Il parallelo non sembri strano: è vero che il Pakistan
è rimasto una repubblica, ma è vero che il potere
è diventato esclusiva di una piccola cerchia di ufficiali;
è vero che la versione principe dell'Islam non è il
wahabismo, ma le moschee più in auge a partire dalla fine degli
anni Settanta sono state quelle di obbedienza Deobandista, una versione
non meno formalista e intollerante delle parole del profeta.
In questo quadro l'irruzione della guerra "al terrorismo" degli USA ha
incrinato le sicurezze geopolitiche del Pakistan: i pakistani si sono
trovati a dover sconfessare le loro creature afgane e ad accettare la
presidenza di Hamid Karzai, da sempre vicino a Russia ed India, oltre
che uomo degli USA in loco. Inoltre la costruzione americana di un
cerchio di contenimento in funzione anticinese ha costretto Islamabad
ad ingoiare due rospi in uno: in primo luogo rompere con gli alleati
cinesi con i quali aveva costruito per quindici anni un fronte comune
di appoggio ai muyaheddin afgani e di ostilità a russi ed
indiani, in secondo luogo ha dovuto subire il diktat di Washington che
ha imposto un graduale riavvicinamento con l'India, paese fondamentale
nella strategia americana di contenimento della Cina. Questo
riavvicinamento ha comportato la fine dell'appoggio agli
indipendentisti kashmiri da sempre operanti in stretto rapporto con
l'esercito e, soprattutto, con i potentissimi servizi segreti. Non
è un mistero per nessuno che questa mossa non sia stata gradita
a una parte consistente dell'esercito che ha iniziato a remare contro
il generale presidente e a colpire i suoi rapporti con gli USA nel
delicatissimo scacchiere afgano.
Proprio l'Afganistan è stata la pietra della definitiva rottura
tra Musharraf e il mileu islamista legato a esercito e servizi. Se,
infatti, per almeno cinque anni il Pakistan ha formalmente appoggiato
l'occupazione occidentale dell'Afganistan continuando allo stesso tempo
a fornire armi e rifugio ai Talebani e alla direzione strategica di Al
Qaeda, le pressioni congiunte di Londra e Washington hanno infine
costretto la Presidenza pakistana a rompere i suoi rapporti di fiducia
con la leadership delle aree tribali, a maggioranza pashtun e collocate
politicamente a fianco dei Talebani e della stessa Al Qaeda. Il gioco
delle tre carte è finito nel 2006 e l'esercito ha iniziato ad
attaccare i gruppi armati islamisti che continuavano a gestire il
potere lungo tutto il confine con l'Afganistan. Questa novità ha
prodotto il passaggio all'opposizione dell'area politica islamica
all'interno della quale bisogna collocare una parte dell'esercito e
quasi interamente i servizi segreti. Lo scorso giugno questa crisi ha
toccato l'apice quando Musharraf ha dato l'ordine di attaccare la
Moschea Rossa centro islamico d'importanza centrale nella galassia
dell'Islam pakistano, i cui militanti avevano iniziato a imporre nel
quartiere di Islamabad dove si trova l'edificio un ordine di tipo
talebano. Alla reazione della Polizia i militanti si erano rifugiati in
armi all'interno della moschea, sfidando apertamente Musharraf ad
accettare il loro potere autonomo o ad attaccarli. L'attacco,
confidavano i militanti avrebbe prodotto un'insurrezione islamica nel
paese. Nonostante Musharraf abbia deciso per la prova di forza tale
evento non si è compiuto anche perché l'estabilishment
islamico riteneva di non avere ancora la forza per fondare una
repubblica islamica e ha visto l'azione dei mullah della moschea come
uno stupido avventurismo. Questo non toglie che sul lato islamico
Musharraf abbia perso ora ogni consenso e che una parte consistente del
suo regime stia solo aspettando l'occasione per levarlo di torno.
Ma la società civile pakistana ha anche espresso un'opposizione
di tipo democratico al regime del generale formata da ceti medio-alti
occidentalizzanti e schierati a favore di una trasformazione del paese
in senso liberale e alla fine dell'ipoteca religiosa sul paese. Tale
schieramento è favorevole a una decisa collocazione del paese
all'interno dell'Occidente e alla fine dell'appoggio più o meno
mascherato alle forze islamiche militanti.
Questo schieramento ha trovato un'unità e un simbolo a marzo
quando la deposizione del giudice Chaudry da capo della Corte Suprema,
giudice che si era opposto al disegno di Musharraf di rimanere allo
stesso tempo Presidente e Capo dell'Esercito, ha prodotto una
mobilitazione straordinaria di avvocati, giornalisti, imprenditori e
studenti che hanno profondamente scosso il paese. A luglio un tribunale
di supremi giudici ha annullato la decisione e ha costretto Musharraf a
doversi confrontare ancora con un'istituzione diventata infida. La
Corte Suprema stava in questi giorni decidendo se accogliere un ricorso
contro l'elezione presidenziale avvenuta a Settembre, basato sulla
contestazione del doppio ruolo di Musharraf. È chiaro che una
Suprema Corte diventata baluardo dell'opposizione non poteva essere
accettata da Musharraf in un momento così critico. La suprema
Corte aveva sempre avvallato tutte le decisioni dei militari in
Pakistan fin dagli anni '50, compresi i quattro golpe ufficiali subiti
dal paese. La sua trasformazione in nemica deve aver convinto il
presidente a muoversi per deporre Chaudry e i sette membri della Corte
che si sono pronunciati contro lo Stato d'emergenza e i decreti che
hanno annullato le elezioni di gennaio, chiuso i canali televisivi non
controllati dal governo e sospeso il Parlamento.
L'altro fatto che ha radicalizzato le decisioni di Musharraf è
da ricercarsi negli sviluppi del rientro di Benazir Bhutto nel paese.
Tale avvenimento, salutato da uno spaventoso attentato al tritolo
effettuato da militanti islamici ma probabilmente organizzato dai
servizi segreti, si doveva configurare come il compimento della
strategia occidentale di controllo di un Pakistan considerato non
attendibile. Secondo gli accordi intercorsi tra il Presidente e l'ex
Primo Ministro in esilio, le accuse di corruzione mosse contro di lei
sarebbero state ritirate; in compenso la Bhutto avrebbe permesso il
voto del Parlamento che doveva reinsediare Musharraf al potere per i
prossimi cinque anni. Così è avvenuto ma la situazione ha
iniziato subito a precipitare: la Bhutto ha rischiato la vita
nell'attentato del giorno del suo ritorno e ha subito iniziato ad
accusare i servizi della strage; un altro attentato è stato
effettuato contro Musharraf a Rawalpindi durante una riunione del
Presidente con i Servizi Segreti. Non tale da mettere a rischio la vita
di Musharraf, ma tale da mandargli un messaggio chiaro. Messaggio che
il Presidente ha subito interpretato correttamente come un segnale che
l'esercito e i servizi nella loro maggioranza non avrebbero accettato
un condominio tra Musharraf e la Bhutto con un programma filo
occidentale e rivolto contro gli interessi geopolitici del Pakistan. In
altre parole Musharraf rischia di non trovarsi più alcun
appoggio proprio tra i settori che fino ad ora lo hanno sostenuto.
Unitamente a questo vi è anche il fatto che Musharraf ha
compreso che l'accordo con la Bhutto non lo garantiva per nulla in caso
di una vittoria schiacciante di quest'ultima alle elezioni di Gennaio.
L'appoggio di Washington e di Londra va' in modo evidente alla signora
Bhutto, e un suo successo sarebbe stato un buon motivo per abbandonare
l'infido generale. Musharraf ha compreso la situazione e ha giocato in
attacco sospendendo le elezioni e bloccando l'evoluzione prevista dai
desiderata occidentali. Non è un caso che Condoleeza Rice abbia
commentato il golpe in modo negativo e che si sia affrettata a chiedere
il ritorno della democrazia nel paese. Gli USA in modo evidente
consideravano Musharraf un cavallo sfiancato e avevano previsto di
giocare tutto il loro appoggio a favore della Bhutto. L'azione del
generale sarà pure disperata ma gode di una certa
lucidità: bloccando tutto costringe gli alleati angloamericani a
dover fare i conti con lui e a non pensare di poter tranquillamente
cancellarlo a favore della Bhutto. Se la sua scommessa darà i
frutti che il generale spera è presto per vederlo, ma già
adesso si può affermare che questa era l'unica mossa che
Musharraf poteva fare per non perdere il potere. Nel farla tra l'altro
ha evitato in modo evidente di coinvolgere la rivale negli avvenimenti,
avvertendola per tempo e favorendone il trasferimento a Dubai da dove
oggi lancia proclami democratici della cui sincerità è
lecito dubitare. Le prossime settimane diranno qualcosa di più
sulle evoluzioni di queste dinamiche e, soprattutto, su quale sia
l'equilibrio dei poteri in Pakistan e se una forza autonoma democratica
prodotta dai ceti medio-alti esiste veramente ed è in grado di
azione politica, o se il boccino è destinato a restare nelle
mani dell'élite militare e dei suoi terminali islamici.
Giacomo Catrame