La morte di un altro militare italiano, vittima di un attentato a
circa venti chilometri da Kabul che è costato la vita ad almeno
nove abitanti, tra cui tanti bambini, del villaggio di Pagman, ha
riaperto per un giorno le polemiche tra le forze politiche parlamentari
sul ruolo dell'intervento italiano in Afganistan.
Solitamente, le medaglie e le onorificenze patriottiche non rientrano
negli interessi degli antimilitaristi; ma talvolta, invece, può
essere utile anche conoscere qualcosa a riguardo.
Ne è un buon esempio la lettura del decreto del Ministero della
Difesa del 15 gennaio 2003, con cui continua ad essere assegnata una
Croce commemorativa ai militari italiani partecipanti alle missioni
"Enduring Freedom" e Isaf-Nato in Afganistan.
L'attribuzione di tale decorazione, si apprende, ha come condizione
l'aver preso parte alle operazioni di terra almeno per 15 giorni o
l'aver effettuato 70 ore di volo, oppure l'aver "partecipato a missioni
in territorio ostile o di combattimento o comunque sotto attiva e
documentata minaccia nemica".
Definizioni come territorio ostile o di combattimento e minaccia nemica
dicono infatti molto sulla vera natura e sull'effettivo ruolo delle
missioni "di pace" in Afganistan.
Questa realtà, costantemente dissimulata e nascosta, nell'ultimo
mese ha avuto numerose e significative conferme, aldilà del
crescendo di attacchi contro i reparti italiani resi noti e del numero
finora limitato delle loro perdite dal 2004 ad oggi (una decina).
Il generale Fabrizio Castagnetti, capo di stato maggiore dell'esercito,
nel chiedere al governo maggiori risorse finanziarie per le Forze
armate nel Bilancio della Difesa 2008, ha fatto un'affermazione
interessante: "di questo passo rischiamo di non poter sostituire i
mezzi che i talebani ci fanno saltare in aria".
Dunque, negli ultimi 12 mesi, i mezzi italiani che ufficialmente
risultano essere andati perduti in seguito ad attacchi o attentati
della guerriglia sono soltanto sei: tre veicoli corazzati Lince, due
blindati Puma e un fuoristrada.
Un bilancio, quindi, del tutto irrisorio che certo non può rappresentare un rilevante problema economico.
Evidentemente, o il generale ha esagerato per vanagloria, oppure
numerosi altri attacchi contro le forze italiane non sono stati resi
noti, solo perché non vi erano state vittime tra i reparti
italiani.
Questa seconda ipotesi, trova peraltro conferma da varie fonti
giornalistiche, non di sinistra, che talvolta rivelano l'effettivo
contesto di guerra, pur senza voler mettere in discussione l'intervento.
Infatti, gli scontri a fuoco, le imboscate della guerriglia e le
operazioni offensive sono all'ordine del giorno per i circa 2.300
militari italiani in Afganistan e, in particolare, per quelli dei corpi
speciali della Task Force 45 che, quasi segretamente, sono stati
inviati ed operano a fianco dei reparti speciali Nato e Usa con
l'appoggio degli elicotteri d'attacco Mangusta.
Il 13 settembre, ad esempio, i corpi speciali sono intervenuti in
soccorso di un presidio delle forze governative afgane a Shewan, nella
provincia di Farah, che si trovavano sotto attacco da parte della
guerriglia filotalebana. Lo scontro a fuoco ha impegnato i militari
italiani per circa 40 minuti, finché non c'è stata
un'azione area di supporto da parte di un caccia Usa.
Il 5 ottobre, invece, vi è stato un attacco con granate e armi
leggere nella Valle di Musahi contro un avamposto del 5° reggimento
Alpini paracadutisti, poco distante dal villaggio di Katasang; i ranger
italiani hanno reagito con mitragliatrici pesanti. La notizia del
conflitto è stata divulgata a posteriori in quanto, come
dichiarato dallo stesso comandante del reparto, "coincideva con la fase
critica della vicenda degli agenti del Sismi".
La liberazione dei due ostaggi e l'uccisione dell'agente D'Auria resta
peraltro nell'ombra, così come l'impiego dei servizi italiani.
Il sottufficiale, infatti, sarebbe stato colpito mortalmente da
proiettili Nato, ossia dal fuoco amico dei commando della marina
britannica che sono stati i principali protagonisti dell'azione (i
reparti speciali italiani non vi avrebbero preso direttamente parte,
mentre resta sconosciuto il ruolo avuto da quelli tedeschi). Anche se
l'intera operazione è stata gestita dal comando Isaf-Nato di
Herat, a guida italiana nella persona del generale Macor, l'ammiraglio
Branciforte, direttore del servizio segreto militare, ha avuto l'ardire
di sostenere che "il Sismi non ha elementi diretti su come si è
svolto il blitz". La faccenda è ovviamente delicata, oltre che
sul piano dell'opinione pubblica, anche sul piano diplomatico e
politico, in quanto se la responsabilità dei militari risultasse
confermata ufficialmente, sarebbe conseguente l'apertura di
un'inchiesta formale a carico degli alleati; ma che l'intelligence
militare non sappia nulla neanche dell'operazione in cui erano
coinvolti due suoi uomini, appare davvero ben oltre i confini della
farsa.
Farsa comunque dentro la tragedia di una guerra di cui nessuno sembra
voler conoscere la realtà: il 10 novembre era trapelata la
notizia che nei combattimenti durati diversi giorni per la riconquista
del distretto di Gulistan, sono stati coinvolti di nuovo le forze
speciali italiane della Task Force 45, appoggiate da elicotteri
Mangusta e dai veicoli corazzati Dardo dei bersaglieri. Un anonimo
militare italiano aveva dichiarato in un'intervista: "Talvolta vedi
cadere il nemico e sai che l'hai colpito. Ma spesso in combattimento la
rapidità dell'azione, la polvere che si solleva, i fumi delle
esplosioni ti impediscono di capire se il tuo tiro va a segno".
Solo quando a cadere è un italiano in uniforme, per un giorno si
scopre la realtà della guerra, in cui si uccide e si muore.
ULTIM'ORA
Secondo alcune fonti di stampa (tra cui l'agenzia France Presse),
almeno due vittime civili della strage al ponte di Pagman sarebbero
state colpite dal fuoco dei militari italiani. Tale ipotesi è
stata smentita dalla polizia afgana e dal colonnello De Fonzo,
comandante del contingente italiano a Kabul, secondo cui i soldati
italiani avrebbero sparato soltanto alcuni colpi in aria, dopo
l'esplosione, per fermare un pulmino in arrivo. Inevitabile, visti i
precedenti, dubitare di tale ormai consueta versione.
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