È domenica e sono le tre del pomeriggio, in una fredda
giornata di inizio novembre, alla periferia di Milano. Entro nella
cascina, occupata da un gruppo di famiglie rom rumene e, subito, si
presenta davanti ai miei occhi uno scenario particolare, visto semmai
in qualche documentario in tv. La struttura del cascinale, a forma di
ferro di cavallo, ospita una comunità intera, che sta svolgendo
le sue normali attività quotidiane. Da una parte del grande
spiazzale ci sono dei bambini che giocano, dall'altra si vedono per
terra dei lenzuoli con degli oggetti riposti sopra, proprio come se
fosse un mercato e tutto intorno della gente. Sparse un po' ovunque ci
sono delle macchine parcheggiate. Chiedendo un po' in giro, riesco a
sapere dove si trova il luogo della riunione che è stata indetta
per oggi da alcuni rom di questa cascina, insieme a dei compagni
italiani. Si tratta di una riunione organizzata per cercare di
coordinare le forze che ci sono e per reagire alla infamante campagna
razzista e repressiva delle istituzioni, seguita dalle incursioni di
fascisti, più o meno organizzati, contro i rom. L'iniziativa
è ancora più interessante ed importante, se si prende in
considerazione il fatto che la realtà organizzatrice è
una delle poche, se non l'unica in Italia, di questo tipo, cioè
autorganizzata ed indipendente dalle istituzione politiche e religiose.
Alcuni di loro vengono dall'esperienza del campo in via Barzaghi e
dalla ben più famosa Via Adda occupata. Oggi sono qui per
partecipare a questa riunione e per intervistare due protagonisti di
questa occupazione: un compagno rom, chiamato Mariano, ed uno italiano,
di nome Fabio. L'intervista, che leggerete di seguito, affronta in modo
vivo alcuni dei problemi cruciali che gli occupanti stanno vivendo:
l'autorganizzazione, il rapporto con i lavoratori italiani, la propria
identità. È semplice nella sua esposizione, ma complessa
allo stesso tempo per i temi che affronta, mostrando come si
intrecciano luci e ombre di un processo di lotta, che a Milano ha ormai
quasi 10 anni di vita. Per questo motivo, è sfociata in una
discussione appassionata tra noi, rendendomi ancora più
difficile il compito di riportarla fedelmente. Prima di terminare
questa breve introduzione, mi preme sottolineare un ulteriore elemento:
l'intervista non ha la pretesa di sciogliere nessuno dei nodi
affrontati, ma mi auspico che, nel porre questi problemi in modo
aperto, direi quasi monco, possa far scaturire un dibattito che ci
permetta di affrontare gli intrecci possibili tra il processo di
immigrazione, la rivoluzione sociale e l'anarchismo.
Come siete organizzati?
M: in pratica siamo autorganizzati, l'intera gestione della cascina
dipende da noi. Siamo in tutto circa 20 famiglie ed ognuna di queste ha
un rappresentante nel consiglio. È l'insieme di queste persone,
in rappresentanza di tutte le famiglie, che ha discusso e deciso di
occupare questo posto per dare una casa ai propri cari. Allo stesso
modo, il consiglio ha deciso di difendere il posto occupato,
organizzando turni di guardia per vedere se arrivano macchine delle
forze dell'ordine. Per quanto riguarda la pulizia, problema che esiste
in alcuni campi che sorgono spontanei, abbiamo deciso nel consiglio di
affidare il compito a due persone, pagandole con i soldi raccolti in
ogni nucleo familiare. Il comune manda per due volte la settimana il
camion e raccoglie la spazzatura che noi mettiamo da parte.
Ogni quanto si svolgono le vostre assemblee?
M: Circa una volta la settimana.
F: beh, in verità dipende dal periodo. Se il momento è
teso e caldo, come quello che stiamo vivendo, allora l'assemblea
funziona, soprattutto perché è il luogo in cui la
comunità si ritrova e si ricompatta per affrontare le
difficoltà. Quando invece la situazione è più
tranquilla, allora l'assemblea si riunisce più raramente ed ogni
famiglia tende a fare un po' per conto proprio.
M: questo è vero, però sempre all'interno di regole che
ci siamo dati insieme, come per esempio sulla pulizia. Qui dentro non
è possibile non rispettare questa regola.
Cosa pensi della politica portata avanti dal governo contro i rom?
M: è una politica razzista. Se un italiano fa un reato, cosa fa
il governo? sgombera l'intero condominio in cui abita il delinquente?
No, ovviamente. Eppure è questo quello che è successo a
Roma, quando hanno distrutto l'intera baraccopoli in cui abitava la
persona accusata dell'assassinio della donna. Se in Romania un italiano
compie un delitto del genere, il governo non si sogna neanche di
minacciare e cacciare tutti gli italiani dal paese. Invece è
questo quello che sta accadendo in Italia.
F: il governo ha preso questo grave episodio, in se ancora molto oscuro
e per nulla chiarito da un punto di vista delle indagini, come pretesto
per scatenare una campagna razzista, probabilmente già
premeditata, visti i precedenti degli ultimi anni.
M: sicuramente possiamo dire che Prodi ha utilizzato tutta la vicenda per recuperare i consensi persi.
Voi avete scelto di aderire allo
sciopero generale del 9 novembre indetto dal sindacalismo di base e nel
volantino, che avete portato in piazza, sostenete che la lotta dei rom
per la vita fa parte della lotta di classe. Ma allora, come superare le
divisioni provocate dal razzismo?
M: noi dobbiamo fare lo sforzo di farci vedere per quello che siamo,
non per come ci dipingono. Dobbiamo far vedere che siamo lavoratori,
che portiamo anche noi a casa da mangiare per le nostre famiglie. Noi
siamo trattati come schiavi nei posti di lavoro, così come altri
lavoratori.
Però voi dividete il mondo in zingari e gagè. Non pensi che questo sia di ostacolo per la vostra lotta?
M: ma voi italiani avete capito chi siamo noi?
F: questa è una bella risposta!
Beh, io un po' conosco la vostra
storia, ma sicuramente la stragrande maggioranza degli italiani
è profondamente ignorante.
M: anticamente noi veniamo dall'India ed oggi ci troviamo sparsi in
tutto il mondo. Noi non abbiamo mai avuto uno stato, una terra. Ci
siamo sempre ritrovati come minoranza in tutti i paesi. È per
questo che siamo stati sempre oppressi.
F: però tu parli dei gagiò come se fossimo tutti uguali,
un turco, un italiano, un marocchino, per te siamo tutti gagiò.
M: noi parliamo tutte le vostre lingue, ma nessuno di voi parla la nostra. Vero?
Il problema non è negare la tua
identità o quella di chiunque altro, ma se dividiamo il mondo a
partire da questa identità, questo ci è da ostacolo alla
lotta degli oppressi, quella lotta di cui parlavi tu prima.
F: la loro identità è molto forte e non va sicuramente
negata, è legata profondamente alla loro storia, ma il mondo non
si divide tra rom e gagè, ma tra sfruttati e sfruttatori e
questo vale anche tra i rom come tra i gagè, solo che dentro la
comunità rom la lotta degli sfruttati contro i propri
sfruttatori non è ammessa.
M: è vero, verissimo! Tutto il mondo è uguale. Gli
approfittatori ci sono ovunque. Ma dovete anche capire una cosa, noi
siamo circondati, al contrario vostro. Se vado a denunciare lo
sfruttatore della comunità ho finito, molto probabilmente
neanche il poliziotto mi crederebbe.
Più o meno con queste parole la nostra intervista-discussione
"non" è terminata, lasciando aperti sul tappeto una serie di
problematiche, se vogliamo, per niente nuove. Come si intreccia
l'identità, etnica, religiosa o comunitaria che sia, all'interno
di una società multietnica e multiculturale con la
necessità di ricostruire una solidarietà
internazionalista tra gli oppressi e gli sfruttati? Come possiamo
qualificare l'autorganizzazione affinché possa rappresentare
allo stesso tempo un utile mezzo per vincere la lotta e un esempio di
società egualitaria e libertaria? E mentre ci poniamo queste
domande, si impone però anche la necessità di essere
concreti, per realizzare qualche risposta e, magari, contribuire
affinché la realtà faccia qualche passo in avanti.
Riccardo Bonelli
18 novembre 2007