Umanità Nova, n.39 del 2 dicembre 2007, anno 87

Milano: a colloquio nella cascina occupata dai rom. Resistere alla barbarie


È domenica e sono le tre del pomeriggio, in una fredda giornata di inizio novembre, alla periferia di Milano. Entro nella cascina, occupata da un gruppo di famiglie rom rumene e, subito, si presenta davanti ai miei occhi uno scenario particolare, visto semmai in qualche documentario in tv. La struttura del cascinale, a forma di ferro di cavallo, ospita una comunità intera, che sta svolgendo le sue normali attività quotidiane. Da una parte del grande spiazzale ci sono dei bambini che giocano, dall'altra si vedono per terra dei lenzuoli con degli oggetti riposti sopra, proprio come se fosse un mercato e tutto intorno della gente. Sparse un po' ovunque ci sono delle macchine parcheggiate. Chiedendo un po' in giro, riesco a sapere dove si trova il luogo della riunione che è stata indetta per oggi da alcuni rom di questa cascina, insieme a dei compagni italiani. Si tratta di una riunione organizzata per cercare di coordinare le forze che ci sono e per reagire alla infamante campagna razzista e repressiva delle istituzioni, seguita dalle incursioni di fascisti, più o meno organizzati, contro i rom. L'iniziativa è ancora più interessante ed importante, se si prende in considerazione il fatto che la realtà organizzatrice è una delle poche, se non l'unica in Italia, di questo tipo, cioè autorganizzata ed indipendente dalle istituzione politiche e religiose. Alcuni di loro vengono dall'esperienza del campo in via Barzaghi e dalla ben più famosa Via Adda occupata. Oggi sono qui per partecipare a questa riunione e per intervistare due protagonisti di questa occupazione: un compagno rom, chiamato Mariano, ed uno italiano, di nome Fabio. L'intervista, che leggerete di seguito, affronta in modo vivo alcuni dei problemi cruciali che gli occupanti stanno vivendo: l'autorganizzazione, il rapporto con i lavoratori italiani, la propria identità. È semplice nella sua esposizione, ma complessa allo stesso tempo per i temi che affronta, mostrando come si intrecciano luci e ombre di un processo di lotta, che a Milano ha ormai quasi 10 anni di vita. Per questo motivo, è sfociata in una discussione appassionata tra noi, rendendomi ancora più difficile il compito di riportarla fedelmente. Prima di terminare questa breve introduzione, mi preme sottolineare un ulteriore elemento: l'intervista non ha la pretesa di sciogliere nessuno dei nodi affrontati, ma mi auspico che, nel porre questi problemi in modo aperto, direi quasi monco, possa far scaturire un dibattito che ci permetta di affrontare gli intrecci possibili tra il processo di immigrazione, la rivoluzione sociale e l'anarchismo.

Come siete organizzati?
M: in pratica siamo autorganizzati, l'intera gestione della cascina dipende da noi. Siamo in tutto circa 20 famiglie ed ognuna di queste ha un rappresentante nel consiglio. È l'insieme di queste persone, in rappresentanza di tutte le famiglie, che ha discusso e deciso di occupare questo posto per dare una casa ai propri cari. Allo stesso modo, il consiglio ha deciso di difendere il posto occupato, organizzando turni di guardia per vedere se arrivano macchine delle forze dell'ordine. Per quanto riguarda la pulizia, problema che esiste in alcuni campi che sorgono spontanei, abbiamo deciso nel consiglio di affidare il compito a due persone, pagandole con i soldi raccolti in ogni nucleo familiare. Il comune manda per due volte la settimana il camion e raccoglie la spazzatura che noi mettiamo da parte.

Ogni quanto si svolgono le vostre assemblee?
M: Circa una volta la settimana.
F: beh, in verità dipende dal periodo. Se il momento è teso e caldo, come quello che stiamo vivendo, allora l'assemblea funziona, soprattutto perché è il luogo in cui la comunità si ritrova e si ricompatta per affrontare le difficoltà. Quando invece la situazione è più tranquilla, allora l'assemblea si riunisce più raramente ed ogni famiglia tende a fare un po' per conto proprio.
M: questo è vero, però sempre all'interno di regole che ci siamo dati insieme, come per esempio sulla pulizia. Qui dentro non è possibile non rispettare questa regola.

Cosa pensi della politica portata avanti dal governo contro i rom?
M: è una politica razzista. Se un italiano fa un reato, cosa fa il governo? sgombera l'intero condominio in cui abita il delinquente? No, ovviamente. Eppure è questo quello che è successo a Roma, quando hanno distrutto l'intera baraccopoli in cui abitava la persona accusata dell'assassinio della donna. Se in Romania un italiano compie un delitto del genere, il governo non si sogna neanche di minacciare e cacciare tutti gli italiani dal paese. Invece è questo quello che sta accadendo in Italia.
F: il governo ha preso questo grave episodio, in se ancora molto oscuro e per nulla chiarito da un punto di vista delle indagini, come pretesto per scatenare una campagna razzista, probabilmente già premeditata, visti i precedenti degli ultimi anni.
M: sicuramente possiamo dire che Prodi ha utilizzato tutta la vicenda per recuperare i consensi persi.

Voi avete scelto di aderire allo sciopero generale del 9 novembre indetto dal sindacalismo di base e nel volantino, che avete portato in piazza, sostenete che la lotta dei rom per la vita fa parte della lotta di classe. Ma allora, come superare le divisioni provocate dal razzismo?
M: noi dobbiamo fare lo sforzo di farci vedere per quello che siamo, non per come ci dipingono. Dobbiamo far vedere che siamo lavoratori, che portiamo anche noi a casa da mangiare per le nostre famiglie. Noi siamo trattati come schiavi nei posti di lavoro, così come altri lavoratori.

Però voi dividete il mondo in zingari e gagè. Non pensi che questo sia di ostacolo per la vostra lotta?
M: ma voi italiani avete capito chi siamo noi?
F: questa è una bella risposta!

Beh, io un po' conosco la vostra storia, ma sicuramente la stragrande maggioranza degli italiani è profondamente ignorante.
M: anticamente noi veniamo dall'India ed oggi ci troviamo sparsi in tutto il mondo. Noi non abbiamo mai avuto uno stato, una terra. Ci siamo sempre ritrovati come minoranza in tutti i paesi. È per questo che siamo stati sempre oppressi.
F: però tu parli dei gagiò come se fossimo tutti uguali, un turco, un italiano, un marocchino, per te siamo tutti gagiò.
M: noi parliamo tutte le vostre lingue, ma nessuno di voi parla la nostra. Vero?

Il problema non è negare la tua identità o quella di chiunque altro, ma se dividiamo il mondo a partire da questa identità, questo ci è da ostacolo alla lotta degli oppressi, quella lotta di cui parlavi tu prima.
F: la loro identità è molto forte e non va sicuramente negata, è legata profondamente alla loro storia, ma il mondo non si divide tra rom e gagè, ma tra sfruttati e sfruttatori e questo vale anche tra i rom come tra i gagè, solo che dentro la comunità rom la lotta degli sfruttati contro i propri sfruttatori non è ammessa.
M: è vero, verissimo! Tutto il mondo è uguale. Gli approfittatori ci sono ovunque. Ma dovete anche capire una cosa, noi siamo circondati, al contrario vostro. Se vado a denunciare lo sfruttatore della comunità ho finito, molto probabilmente neanche il poliziotto mi crederebbe.

Più o meno con queste parole la nostra intervista-discussione "non" è terminata, lasciando aperti sul tappeto una serie di problematiche, se vogliamo, per niente nuove. Come si intreccia l'identità, etnica, religiosa o comunitaria che sia, all'interno di una società multietnica e multiculturale con la necessità di ricostruire una solidarietà internazionalista tra gli oppressi e gli sfruttati? Come possiamo qualificare l'autorganizzazione affinché possa rappresentare allo stesso tempo un utile mezzo per vincere la lotta e un esempio di società egualitaria e libertaria? E mentre ci poniamo queste domande, si impone però anche la necessità di essere concreti, per realizzare qualche risposta e, magari, contribuire affinché la realtà faccia qualche passo in avanti.

Riccardo Bonelli
18 novembre 2007

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