A proposito del recente caso delle intercettazioni telefoniche fra
alti dirigenti Rai e Mediaset, nulla parrebbe così scandaloso se
"cortesie"" e "favori reciproci" non avessero condotto la Rai sull'orlo
della bancarotta e Mediaset ad inanellare utili, profitti e dividenti
da capogiro. Perché è palese quanto il servizio pubblico
e quello privato – nel campo dei media, come negli altri campi
– più che differenziarsi sull'offerta, si differenziano
sui bilanci: rosso il primo, nero il secondo.
Puntualmente, ogni qual volta si ritorna a discutere di "conflitto
d'interessii" e della necessità di riforma del sistema
radio-televisivo (come se il mondo dell'editoria ne fosse alieno),
l'atteggiamento assunto richiama lo scontro epocale da guerra fredda,
quando la minaccia di utilizzare la bomba atomica serviva ad entrambe
le due super-potenze a sedare le proteste sociali che ciclicamente
ponevano in discussione l'intero sistema dominante ad est, come ad
ovest della cortina di ferro.
Cosicché, più che por mano a provvedimenti atti a
risolvere ciò che a gran voce si invoca a tutela e a garanzia
della "libertà d'informazione", ci si limita alla minaccia,
all'intimidazione, ben sapendo che la partita in gioco non è
certo la difesa di un'informazione libera da condizionamenti, quanto la
tutela dei propri interessi personali grazie al controllo dei
meccanismi incrociati di condizionamento alla libertà
d'informazione. per riaffermare quanto l'interesse dell'uno non debba
ledere l'interesse dell'altro, dal momento che entrambi hanno un unico
interesse in comune: la gestione privata del sistema democratico. Che
comporta sì sfumature formali, ma non sostanziali,
nell'organizzazione dell'ingiustizia sociale attraverso il consenso
mediatico.
Lo prova l'analisi puntuale dei palinsesti radio-televisivi affidati
– per lo più – ai medesimi format, acquistati sia
dalla Rai che da Mediaset. In una corsa all'esternalizzazione dei
programmi (siano questi d'intrattenimento, oppure d'informazione), la
vittoria del privato sul pubblico è certa, in quanto il primo ha
un risparmio netto sul costo del lavoro che il secondo si vede
contenuto a seguito dell'inutilizzo di gran parte delle risorse
interne, costituite da una pletora di "operatori dell'informazione",
lottizzati dai partiti, profumatamente ben retribuiti e di scarsa
competenza professionale. In tal modo la precarizzazione dei contratti
non soltanto addomestica ed ingentilisce una produzione che mai
arrischierebbe a giocarsi il proprio futuro lavorativo per un cipiglio
critico e indipendente, ma addirittura produce, in campo pubblico, un
aumento delle spese di gestione endemica, incolmabile, ma soprattutto
ricattabile da un privato che controlla e dirige il fiume di soldi
derivanti dagli accordi pubblicitari.
Certo, se limitiamo la nostra analisi alla semplice osservazione dello
share comparativo fra i programmi Rai e quelli Mediaset della fascia di
prime-time, la vittoria del servizio pubblico su quello privato
è abbagliante, e proprio durante il periodo dei governi
Berlusconi, a conferma del fatto che non è la presunta
qualità del programma (di chi? Di Biagi? Di Santoro? Di Fazio?)
ad incidere e a determinare le scelte politiche dello spettatore. Ma se
invece analizziamo i rispettivi bilanci aziendali, osserveremo che alla
vittoria dell'una per quanto riguarda l'audience, corrisponde
l'apoteosi dell'altra per quanto riguarda l'incremento esponenziale dei
profitti. Come dire: ciò che importa non è cosa si fa, ma
chi lo fa, e soprattutto chi è pagato nel farlo. E a pagare
è sempre Pantalone!
Il resto è soltanto chiacchiericcio fra giornalisti, i quali
– ben lo sappiamo – "scrivono perché non hanno
niente da dire, e hanno qualcosa da dire perché scrivono".
gianfranco marelli
(www.adhoc-crazia.blogspot.com)