Umanità Nova, n.40 del 9 dicembre 2007, anno 87

Summit di Annapolis. Commedia tragica


È notorio come nelle relazioni internazionali, quando depuriamo i fatti dalle logiche ciniche e ipocrite dei governi implicati e osserviamo gli effetti della retorica istituzionale sulle vite delle popolazioni coinvolte, parola e costrutto linguistico non siano così insignificanti come si crede, ovviamente se lette alla luce di pratiche e contesti che danno materialità a ciò che potrebbe apparire come pio intendimento.
Il summit americano di Annapolis sulla annosa questione israelo-palestinese non si sottrae perciò a tale regola di analisi, a cominciare dai partecipanti invitati in pompa magna – tutti attori istituzionali locali, regionali e internazionali che da decenni dimostrano come NON si fa un accordo di pace – e dalla tempistica – sessanta anni dopo la risoluzione dell'Onu sulla partizione della Palestina per ospitare la fondazione dello stato di Israele, nonché ad un anno dalla conclusione del duplice mandato di Bush, la cui (infelice) presidenza si era inaugurata con un (relativo) disimpegno pubblico dal Medio oriente per optare, al posto della diplomazia politica, la strategia militare diretta (Iraq), e indiretta (sostegno Usa all'avventura israeliana in Libano nel corso dell'estate 2006).
È incredibile come si continui a parlare, dopo 60 anni dalla nascita del conflitto e delle numerose risoluzioni della comunità internazionale che inquadrano la fine delle ostilità secondo poste, temi e programmi più che chiari, di un processo di pace anziché, più semplicemente, di accordi di pace da siglare QUALORA esistesse la volontà politica. Infatti, ormai da decenni si assiste ad un affinamento delle soluzioni proposte per risolvere i contenziosi, mentre l'azione diretta dei fatti sul campo si incarica dettagliatamente di smentire le soluzioni proposte, anzi di far franare sotto i piedi le condizioni sufficienti e necessarie affinché il conflitto possa trovare una cessazione minimamente stabile.
A leggere i discorsi ufficiali, emerge nettamente l'insussistenza della volontà politica: solo Abbas, leader della Palestina ufficiale, non certo di     quella reale, si ostina a menzionare, sia pure in superficie, i dossier da chiudere con la pace: territori palestinesi entro i confini violati sin dal 1967, ritorno o risarcimento per i profughi dal 1948 ad oggi, risorse idriche quantomeno condivise, eliminazione degli insediamenti coloniali che violano le norme delle Convenzioni di Ginevra, incluse la libera circolazione delle persone su strade differenziate e attraverso posti di blocco e valichi del muro di separazione, Gerusalemme est restituita come capitale del futuro stato palestinese, con correlata gestione aperta e monitorata a livello internazionale dei luoghi sacri alle tre religioni monoteiste del libro (la moschea di Al Aqsa per i musulmani, il Muro del pianto per gli ebrei, il Golgota per i cattolici).
Ovviamente, né Bush né Olmert si sono ben guardati di citare nemmeno di passaggio tali problemi, la cui soluzione COINCIDEREBBE con la pace, nonostante decenni di odi e rancori ben comprensibili, specie in considerazione delle frustrazioni crescenti della parte debole del conflitto asimmetrico tra Israele, potenza nucleare della regione, e le fazioni palestinesi teoricamente sostenute, ma solo teoricamente, dagli stati arabi pure invitati ad Annapolis giusto per coreografia diplomatica. Del resto, dopo la divisione sanguinosa e "incivile" dei palestinesi in una West Bank di fatto retta dall'Olp e Gaza retta da Hamas, la questione dei due stati per due popoli sembra ormai tramontata dall'orizzonte del possibile, e proprio per questo riesumata da Bush nella speranza di rifarsi una verginità internazionale per un Medio oriente funestato dall'aggressione irachena e dai piani antiraniani allo studio del Pentagono.
Se l'ordine logico delle dichiarazioni ha un certo peso, Annapolis segna una minima svolta solamente in negativo: l'attenzione viene abilmente spostata dalla questione dei confini del futuro stato palestinese - quelli della Green Line risalenti al 1967, in occasione dell'armistizio giordano -israeliano immediatamente dopo la guerra dei sei giorni - alla natura del futuro stato palestinese, ossia democratico e filoccidentale, che rammenta da vicino le argomentazioni fumose addotte a proposito dello stato iracheno del dopo Saddam Hussein, le cui istituzioni sono state progettate, scritte e implementate dall'occupante americano. Già oggi, peraltro, alcuni dispositivi di governance congiunta tra amministrazione militare di Israele occupante dei territori palestinesi e Autorità palestinese (l'aggettivo "Nazionale" non compare negli Accordi di Oslo da nessuna parte) prevedono il sostegno israeliano alle direttive presidenziali e governative palestinesi, configurando così la tesi di uno stato vassallo in un contesto di apartheid misconosciuto.
Inoltre, il percorso verso la pace, la cd. Road Map, viene espropriata al Quartetto di potenze che l'aveva concepita come simulacro per una opinione pubblica internazionale incantata (Usa, Russia, Onu e Unione Europea) per essere affidata interamente nelle mani di Israele, Palestina e Stati uniti, notoriamente non neutrali al pari di una pure fittizia neutralità di istituzioni internazionali quali l'Onu.
Infine, desta sospetto l'insistenza di Bush e Olmert a cercare un riconoscimento internazionale, pretendendolo da Abbas, verso uno stato di Israele che sia "ebraico": l'aggettivazione non è di poco conto, in quanto prefigurerebbe il riconoscimento di un apartheid legalizzato tra cittadini israeliani ebrei e arabi; questi ultimi, considerati già di fatto di serie B, perderebbero ogni appiglio al diritto internazionale per non vedersi discriminati, mentre Israele potrebbe operare sui trend demografici all'interno della propria popolazione complessiva per reclamare uno spazio territoriale attualmente insediato dai coloni su terra occupata militarmente ed espropriata civilmente, ma non ancora riconosciuto e legalizzato a livello internazionale.
Autorevoli osservatori di entrambe le parti hanno da poco riportato alla luce una proposta deflagrante, quella di un unico stato per due popoli, retto da una unica Costituzione che li tratta come eguali, che circolò per decenni sino alla cattura egemonica dell'Olp da parte di Fatah del vecchio Arafat. Già Chomsky ed Edward Said ne furono fautori nella consapevolezza che per risolvere un lungo conflitto occorresse spiazzare del tutto le soluzioni vagheggiate che cercano di conciliare l'inconciliabile, ossia due stati sovrani autonomi e indipendenti su risorse rare come le terra fertile e i bacini acquiferi del Golan e delle colline a monte di Gaza.
Proposta deflagrante, non tanto perché rinnova il potente mito dello stato, quanto perché destabilizza ogni formazione di potere sovrano, sin qui cresciuta con l'intento strategico di mettere le mani sul privilegio del potere politico che si fa insieme economico, simbolico, internazionale. Un unico stato democratico obbliga a sconfessare tanto il regime patrimonialistico instaurato dalla cricca di Arafat al potere, e osteggiata da Hamas per rilievi moralistici, non certo perché Hamas disdegna di cumulare potere economico e potere politico mediato dall'uso della fede religiosa come tattica di mobilitazione propagandistica e assistenzialistica a proprio vantaggio; quanto il regime statuale israeliano che, unico caso al mondo, lega la condizione di cittadinanza alla fede religiosa ma, al tempo stesso, separandola dalla sua territorialità nazionale, così come previsto dal diritto al ritorno per ogni ebreo della dispora ultrasecolare che si trova ad essere automaticamente garantito in quanto cittadino di uno stato territoriale sebbene mai vi abbia messo piede, mentre tale diritto viene negato decisamente agli arabi scacciati sin dalla Nakba del 1948.
Se tale carta potrà trovare fautori a livello internazionale, è quanto vedremo nel prossimo futuro, consapevoli che il coinvolgimento della popolazione martoriata palestinese e della popolazione israeliana intrappolata nel degrado della militarizzazione pervasiva della propria esistenza risulterebbe decisivo per costringere élite riottose a farsi da parte rimuovendo in un sol colpo l'ostacolo principale alla pace. Resterebbe ovviamente lo sbilanciamento americano a vantaggio palese di una delle due parti, ma forse questo ostacolo verrebbe rimosso paradossalmente dalla stessa élite statunitense, votata (e votante) al proprio declino intellettuale e politico, proprio quando sembra all'apice della potenza tecnologica e militare.

Massimo Tessitore

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