È notorio come nelle relazioni internazionali, quando
depuriamo i fatti dalle logiche ciniche e ipocrite dei governi
implicati e osserviamo gli effetti della retorica istituzionale sulle
vite delle popolazioni coinvolte, parola e costrutto linguistico non
siano così insignificanti come si crede, ovviamente se lette
alla luce di pratiche e contesti che danno materialità a
ciò che potrebbe apparire come pio intendimento.
Il summit americano di Annapolis sulla annosa questione
israelo-palestinese non si sottrae perciò a tale regola di
analisi, a cominciare dai partecipanti invitati in pompa magna –
tutti attori istituzionali locali, regionali e internazionali che da
decenni dimostrano come NON si fa un accordo di pace – e dalla
tempistica – sessanta anni dopo la risoluzione dell'Onu sulla
partizione della Palestina per ospitare la fondazione dello stato di
Israele, nonché ad un anno dalla conclusione del duplice mandato
di Bush, la cui (infelice) presidenza si era inaugurata con un
(relativo) disimpegno pubblico dal Medio oriente per optare, al posto
della diplomazia politica, la strategia militare diretta (Iraq), e
indiretta (sostegno Usa all'avventura israeliana in Libano nel corso
dell'estate 2006).
È incredibile come si continui a parlare, dopo 60 anni dalla
nascita del conflitto e delle numerose risoluzioni della
comunità internazionale che inquadrano la fine delle
ostilità secondo poste, temi e programmi più che chiari,
di un processo di pace anziché, più semplicemente, di
accordi di pace da siglare QUALORA esistesse la volontà
politica. Infatti, ormai da decenni si assiste ad un affinamento delle
soluzioni proposte per risolvere i contenziosi, mentre l'azione diretta
dei fatti sul campo si incarica dettagliatamente di smentire le
soluzioni proposte, anzi di far franare sotto i piedi le condizioni
sufficienti e necessarie affinché il conflitto possa trovare una
cessazione minimamente stabile.
A leggere i discorsi ufficiali, emerge nettamente l'insussistenza della
volontà politica: solo Abbas, leader della Palestina ufficiale,
non certo di quella reale, si ostina a menzionare,
sia pure in superficie, i dossier da chiudere con la pace: territori
palestinesi entro i confini violati sin dal 1967, ritorno o
risarcimento per i profughi dal 1948 ad oggi, risorse idriche
quantomeno condivise, eliminazione degli insediamenti coloniali che
violano le norme delle Convenzioni di Ginevra, incluse la libera
circolazione delle persone su strade differenziate e attraverso posti
di blocco e valichi del muro di separazione, Gerusalemme est restituita
come capitale del futuro stato palestinese, con correlata gestione
aperta e monitorata a livello internazionale dei luoghi sacri alle tre
religioni monoteiste del libro (la moschea di Al Aqsa per i musulmani,
il Muro del pianto per gli ebrei, il Golgota per i cattolici).
Ovviamente, né Bush né Olmert si sono ben guardati di
citare nemmeno di passaggio tali problemi, la cui soluzione
COINCIDEREBBE con la pace, nonostante decenni di odi e rancori ben
comprensibili, specie in considerazione delle frustrazioni crescenti
della parte debole del conflitto asimmetrico tra Israele, potenza
nucleare della regione, e le fazioni palestinesi teoricamente
sostenute, ma solo teoricamente, dagli stati arabi pure invitati ad
Annapolis giusto per coreografia diplomatica. Del resto, dopo la
divisione sanguinosa e "incivile" dei palestinesi in una West Bank di
fatto retta dall'Olp e Gaza retta da Hamas, la questione dei due stati
per due popoli sembra ormai tramontata dall'orizzonte del possibile, e
proprio per questo riesumata da Bush nella speranza di rifarsi una
verginità internazionale per un Medio oriente funestato
dall'aggressione irachena e dai piani antiraniani allo studio del
Pentagono.
Se l'ordine logico delle dichiarazioni ha un certo peso, Annapolis
segna una minima svolta solamente in negativo: l'attenzione viene
abilmente spostata dalla questione dei confini del futuro stato
palestinese - quelli della Green Line risalenti al 1967, in occasione
dell'armistizio giordano -israeliano immediatamente dopo la guerra dei
sei giorni - alla natura del futuro stato palestinese, ossia
democratico e filoccidentale, che rammenta da vicino le argomentazioni
fumose addotte a proposito dello stato iracheno del dopo Saddam
Hussein, le cui istituzioni sono state progettate, scritte e
implementate dall'occupante americano. Già oggi, peraltro,
alcuni dispositivi di governance congiunta tra amministrazione militare
di Israele occupante dei territori palestinesi e Autorità
palestinese (l'aggettivo "Nazionale" non compare negli Accordi di Oslo
da nessuna parte) prevedono il sostegno israeliano alle direttive
presidenziali e governative palestinesi, configurando così la
tesi di uno stato vassallo in un contesto di apartheid misconosciuto.
Inoltre, il percorso verso la pace, la cd. Road Map, viene espropriata
al Quartetto di potenze che l'aveva concepita come simulacro per una
opinione pubblica internazionale incantata (Usa, Russia, Onu e Unione
Europea) per essere affidata interamente nelle mani di Israele,
Palestina e Stati uniti, notoriamente non neutrali al pari di una pure
fittizia neutralità di istituzioni internazionali quali l'Onu.
Infine, desta sospetto l'insistenza di Bush e Olmert a cercare un
riconoscimento internazionale, pretendendolo da Abbas, verso uno stato
di Israele che sia "ebraico": l'aggettivazione non è di poco
conto, in quanto prefigurerebbe il riconoscimento di un apartheid
legalizzato tra cittadini israeliani ebrei e arabi; questi ultimi,
considerati già di fatto di serie B, perderebbero ogni appiglio
al diritto internazionale per non vedersi discriminati, mentre Israele
potrebbe operare sui trend demografici all'interno della propria
popolazione complessiva per reclamare uno spazio territoriale
attualmente insediato dai coloni su terra occupata militarmente ed
espropriata civilmente, ma non ancora riconosciuto e legalizzato a
livello internazionale.
Autorevoli osservatori di entrambe le parti hanno da poco riportato
alla luce una proposta deflagrante, quella di un unico stato per due
popoli, retto da una unica Costituzione che li tratta come eguali, che
circolò per decenni sino alla cattura egemonica dell'Olp da
parte di Fatah del vecchio Arafat. Già Chomsky ed Edward Said ne
furono fautori nella consapevolezza che per risolvere un lungo
conflitto occorresse spiazzare del tutto le soluzioni vagheggiate che
cercano di conciliare l'inconciliabile, ossia due stati sovrani
autonomi e indipendenti su risorse rare come le terra fertile e i
bacini acquiferi del Golan e delle colline a monte di Gaza.
Proposta deflagrante, non tanto perché rinnova il potente mito
dello stato, quanto perché destabilizza ogni formazione di
potere sovrano, sin qui cresciuta con l'intento strategico di mettere
le mani sul privilegio del potere politico che si fa insieme economico,
simbolico, internazionale. Un unico stato democratico obbliga a
sconfessare tanto il regime patrimonialistico instaurato dalla cricca
di Arafat al potere, e osteggiata da Hamas per rilievi moralistici, non
certo perché Hamas disdegna di cumulare potere economico e
potere politico mediato dall'uso della fede religiosa come tattica di
mobilitazione propagandistica e assistenzialistica a proprio vantaggio;
quanto il regime statuale israeliano che, unico caso al mondo, lega la
condizione di cittadinanza alla fede religiosa ma, al tempo stesso,
separandola dalla sua territorialità nazionale, così come
previsto dal diritto al ritorno per ogni ebreo della dispora
ultrasecolare che si trova ad essere automaticamente garantito in
quanto cittadino di uno stato territoriale sebbene mai vi abbia messo
piede, mentre tale diritto viene negato decisamente agli arabi
scacciati sin dalla Nakba del 1948.
Se tale carta potrà trovare fautori a livello internazionale,
è quanto vedremo nel prossimo futuro, consapevoli che il
coinvolgimento della popolazione martoriata palestinese e della
popolazione israeliana intrappolata nel degrado della militarizzazione
pervasiva della propria esistenza risulterebbe decisivo per costringere
élite riottose a farsi da parte rimuovendo in un sol colpo
l'ostacolo principale alla pace. Resterebbe ovviamente lo
sbilanciamento americano a vantaggio palese di una delle due parti, ma
forse questo ostacolo verrebbe rimosso paradossalmente dalla stessa
élite statunitense, votata (e votante) al proprio declino
intellettuale e politico, proprio quando sembra all'apice della potenza
tecnologica e militare.
Massimo Tessitore