Umanità Nova, n.40 del 9 dicembre 2007, anno 87

Protocollo sul welfare e flexecurity. La resa dei conti


Il governo prodi ha posto la fiducia alla Camera sulle norme attuative del protocollo su previdenza e mercato del lavoro sottoscritto dalle parti sociali e dal governo stesso nel luglio scorso. Il protocollo era stato poi formalmente sottoposto all'approvazione di pensionati e lavoratori in un referendum dal risultato scontato in partenza, utile a dare una parvenza strombazzata di "partecipazione e democrazia". Alla commissione lavoro della Camera era riuscito alla "sinistra radicale" sedente in parlamento di modificare un poco il testo del protocollo, con qualche miglioria ad un articolato di legge che fotografa l'egemonia del capitale sul lavoro, intesa proprio come capacità di imporre i temi di discussione e l'ambito della stessa. In aula c'è stata la resa dei conti, nel senso che davanti alle minacce di Dini e compagni, dicono per non far cadere il governo ed entrare in vigore la riforma Maroni con il famoso "scalone" pensionistico, "i fantastici quattro" della cosa rossa hanno trangugiato "il rospo" e votato la fiducia al governo approvando il testo uscito dall'accordo di luglio senza gli emendamenti della commissione lavoro; o, meglio, tre dei "fantastici quattro", perchè il quarto, i Comunisti Italiani, alla fine si è defilato e votato contro, sapendo che, stanti i numeri, il voto era irrilevante per la continuità del governo. Furbi, eh?!
Mentre in Italia si compiva la nefandezza sopra descritta, il Parlamento europeo approvava una "risoluzione in materia di flessisicurezza" o, in inglese, flexecurity, ovvero la nuova frontiera mitica del mercato del lavoro dell'Unione europea, molto utile ai benpensanti nostrani. In breve, sulla base del modello danese, sarebbe facile per le aziende licenziare, ma sarebbero previste una serie di norme protettive del reddito del lavoratore disoccupato e altre finalizzate ad incentivarne la riallocazione. Il fatto è che bisognerebbe pure avere il sistema fiscale danese, per il quale le tasse si pagano e pure salate, giacché il nodo del connubio tra flessibilità e sicurezza sta tutto nella ingente quantità di risorse necessaria a pagare la "sicurezza", giacché a far "flessibilità" si fa in fretta e son tutti bravi. Tanto è vero che questa è una ricetta buona per tempi di vacche grasse, non certo per tempi come questi. In più, la "flessicurezza" è uno strumento che legittima in toto la supremazia dei tempi e degli scopi dell'impresa sulla società ed in particolare sui lavoratori, impossibilitati ad organizzarsi la vita secondo propri tempi e senza alcuna garanzia di stabilità.
Da noi si troverà certamente qualcuno pronto a recepire la "flessibilità" e a vendere scampoli di sicurezza sociale dietro l'impegno ad essere ancora più flessibili e disponibili a qualsiasi lavoro purchessia. Tanto qui abbiamo già tra i salari più bassi d'Europa (fonte CGIL) e si scopre pure che precari si resta perchè non c'è alcuna esigenza temporanea dell'azienda: semplicemente le aziende vogliono risparmiare (fonte ISFOL). Dopo queste belle scoperte dell'acqua calda degli illustri statistici, qualche voce di lamento si è levata, ma senza convinzione. Tale è la introiettata ineluttabilità di ciò che sta accadendo e la passività davanti al capitale che procede come uno schiacciasassi. Subito si è passati alla sopradescritta approvazione delle norme applicative del protocollo di luglio.
Si chiede su UN n. 37 del 18.11.07 Walter Kerwal se l'incapacità del sindacalismo di base di "sfondare" nella società dipenda dalla sua classe dirigente e dal suo ceto militante, di formazione sindacal-vertenziale (fabbrichista e categoriale) o sulla inadeguatezza della forma sindacato tradizionale, che il sindacalismo di base ha fatto propria senza metterla in discussione. Penso che entrambe le cause siano vere e ne aggiungerei almeno un'altra, che ne è il collante. Il sindacalismo di base ha assunto lo stesso orizzonte del sindacalismo concertativo, cioè quello redistributivo, raccogliendo ciò che il sindacalismo concertativo si poteva permettere di lasciar fuori, sopratutto in un epoca di vacche sempre più magre in cui la sicurezza è ciò che i lavoratori cercano sopratutto. Di fatto il sindacalismo di base ha assunto come orizzonte del proprio agire livelli di welfare decorosi, cercando di tamponare la frana dovuta al restringimento degli spazi di redistribuzione del reddito che intanto gli altri trattavano al ribasso. Non mi pare che sia stata presa di petto la questione e messo l'accento sul controllo dei processi in atto e sulla necessità di adattare prassi e forme al nuovo che avanzava e che determinava forme di precarietà e sfruttamento assai antiche. Ma se questo è vero, per lottare contro questo nuovo/vecchio capitale ben potrebbero essere utili le forme di aggregazione che il lavoro si diede in altre epoche per la propria difesa collettiva e che passavano per la radicale scelta di costruire uno spazio di autonomia del lavoro salariato rispetto all'economico e all'istituzionale dominanti, in totale contrapposizione al modello socialdemocratico di lenta permeazione del potere esistente e di mera redistribuzione del reddito che ci ha condotto a questo punto. Protocolli, flessicurezza, statistiche ci parlano di egemonia e soggezione, in primo luogo culturale. Forse anche "su questo ordine di problemi vale la pena di riflettere".

W.B.

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